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5. Riflessione. Benedetto Xvi: Adottare In Ogni

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    March 2018
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5. RIFLESSIONE. BENEDETTO XVI: ADOTTARE IN OGNI CIRCOSTANZA UN MODO DI VIVERE RISPETTOSO DELL'AMBIENTE [Attraverso Paolo Candelari (per contatti: [email protected]) riceviamo il testo del discorso tenuto dal pontefice cattolico Benedetto XVI il 9 giugno 2011, cosi' come pubblicato dall'"Osservatore romano"] I primi sei mesi di quest'anno sono stati caratterizzati da innumerevoli tragedie che hanno riguardato la natura, la tecnica e i popoli. L'entita' di tali catastrofi ci interpella. E' l'uomo che viene per primo, ed e' bene ricordarlo. L'uomo, al quale Dio ha affidato la buona gestione della natura, non puo' essere dominato dalla tecnica e divenirne il soggetto. Una tale presa di coscienza deve portare gli Stati a riflettere insieme sul futuro a breve termine del pianeta, di fronte alle loro responsabilita' verso la nostra vita e le tecnologie. L'ecologia umana e' una necessita' imperativa. Adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell'ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l'uomo devono essere priorita' politiche ed economiche. In questo senso, appare necessario rivedere totalmente il nostro approccio alla natura. Essa non e' soltanto uno spazio sfruttabile o ludico. E' il luogo in cui nasce l'uomo, la sua "casa", in qualche modo. Essa e' fondamentale per noi. Il cambiamento di mentalita' in questo ambito, anzi gli obblighi che cio' comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un'arte di vivere insieme che rispetti l'alleanza tra l'uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire. Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell'umanita'. Le Nazioni Unite mi sembrano essere il quadro naturale per una tale riflessione, che non dovra' essere offuscata da interessi politici ed economici ciecamente di parte, cosi' da privilegiare la solidarieta' rispetto all'interesse particolare. Occorre inoltre interrogarsi sul giusto posto che deve occupare la tecnica. I prodigi di cui e' capace vanno di pari passo con disastri sociali ed ecologici. Estendendo l'aspetto relazionale del lavoro al pianeta, la tecnica imprime alla globalizzazione un ritmo particolarmente accelerato. Ora, il fondamento del dinamismo del progresso corrisponde all'uomo che lavora e non alla tecnica, che non e' altro che una creazione umana. Puntare tutto su di essa o credere che sia l'agente esclusivo del progresso o della felicita' comporta una reificazione dell'uomo, che sfocia nell'accecamento e nell'infelicita' quando quest'ultimo le attribuisce e le delega poteri che essa non ha. Basta constatare i "danni" del progresso e i pericoli che una tecnica onnipotente e in ultimo non controllata fa correre all'umanita'. La tecnica che domina l'uomo lo priva della sua umanita'. L'orgoglio che essa genera ha fatto sorgere nelle nostre societa' un economismo intrattabile e un certo edonismo, che determina i comportamenti in modo soggettivo ed egoistico. L'affievolirsi del primato dell'umano comporta uno smarrimento esistenziale e una perdita del senso della vita. Infatti, la visione dell'uomo e delle cose senza riferimento alla trascendenza sradica l'uomo dalla terra e, fondamentalmente, ne impoverisce l'identita' stessa. E' dunque urgente arrivare a coniugare la tecnica con una forte dimensione etica, poiche' la capacita' che ha l'uomo di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo per mezzo del suo lavoro, si compie sempre a partire dal primo dono originale delle cose fatto da Dio (Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 37). La tecnica deve aiutare la natura a sbocciare secondo la volonta' del Creatore. Lavorando in questo modo, il ricercatore e lo scienziato aderiscono al disegno di Dio, che ha voluto che l'uomo sia il culmine e il gestore della creazione. Le soluzioni basate su questo fondamento proteggeranno la vita dell'uomo e la sua vulnerabilita', come pure i diritti delle generazioni presenti e future. E l'umanita' potra' continuare a beneficiare dei progressi che l'uomo, per mezzo della sua intelligenza, riesce a realizzare. Consapevoli del rischio che corre l'umanita' dinanzi a una tecnica vista come una "risposta" piu' efficiente del volontarismo politico o del paziente sforzo educativo per civilizzare i costumi, i Governi devono promuovere un umanesimo rispettoso della dimensione spirituale e religiosa dell'uomo. Infatti, la dignita' della persona umana non cambia con il fluttuare delle opinioni. Il rispetto della sua aspirazione alla giustizia e alla pace consente la costruzione di una societa' che promuove se stessa quando sostiene la famiglia o quando rifiuta, per esempio, il primato esclusivo delle finanze. Un Paese vive della pienezza della vita dei cittadini che lo compongono, essendo ognuno consapevole delle proprie responsabilita' e potendo far valere le proprie convinzioni. Inoltre, la tensione naturale verso il vero e verso il bene e' fonte di un dinamismo che genera la volonta' di collaborare per realizzare il bene comune. Cosi', la vita sociale puo' arricchirsi costantemente, integrando la diversita' culturale e religiosa attraverso la condivisione di valori, fonte di fraternita' e di comunione. Dovendo considerare la vita in societa' anzitutto come una realta' di ordine spirituale, i responsabili politici hanno la missione di guidare i popoli verso l'armonia umana e verso la saggezza tanto auspicate, che devono culminare nella liberta' religiosa, volto autentico della pace. Arturo Paoli, scrive: Nella tempesta suscitata dalla lezione magistrale pronunziata da Benedetto XVI nell’aula magna della Università di Regensburg il dodici settembre, nella preghiera mattutina mi sono ricordato improvvisamente di un libro che mi proponevo di leggere in un oggi sempre spostato nel tempo. E quale migliore oggi di questa polemica che invita tutto l’occidente cristiano a montare la guardia? La Piccola Sorella Annunziata mi presenta dei particolari sul viaggio del beato Charles de Foucauld nel Marocco che mi erano sconosciuti. Nella lontana gioventù lessi il libro di Renè Bazin come un libro di avventure. È noto che, stanco della vita militare, come per un improvviso accorgersi di una vita inutile, l’ufficiale de Foucauld decide di fare un viaggio di esplorazione in Marocco chiuso agli europei “cristiani”.Non è possibile riportare qui tutte le espressioni di entusiasmo per l’accoglienza affettuosa, fraterna ricevute in quell’occasione. Il francese individualista, aristocratico non trova parole per esprimere la sua gioiosa sorpresa di incontrare gente che non avrebbe mai pensato esistessero: << La devozione ai loro amici la spingono fino agli estremi limiti. Questo nobile sentimento fa fare ogni giorno le più belle azioni…non un uomo che non abbia rischiato varie volte la vita per i suoi compagni, per degli ospiti di qualche ora >>[1]. L’eremita di Tamarrasset ricordando queste esperienze di ospitalità assolutamente impensabili nel nostro mondo cristiano troppo colto e civilizzato, dirà che il suo vero grande dolore è stato sempre separarsi da questi amici. È come se questi incontri avessero la capacità di cancellare l’io egoista che incoscientemente inquietava la sua esistenza, e facessero nascere quello che diverrà poi il fratello universale. E lo commenterà più volte nelle sue oltre settecento lettere che invia alla cugina Madame di Bondy. <>. È partito per il Marocco unicamente per fare dei rilievi geografici, prestando un servizio alla Francia sempre in attesa di estendere il territorio delle sue colonie, e vi trova la dimensione umana che gli è sconosciuta e di cui incoscientemente ha sempre sentito la mancanza per la morte precoce dei genitori. Subito appare a lui che la liberazione di questa forza affettiva repressa è la verità intera dell’essere, la sola che possa dar senso all’esistenza. La piccola Sorella Annunziata dall’ampia documentazione del viaggiatore in terra musulmana trae questa conclusione:<< L’esperienza del Marocco lascia nel suo animo un’impronta indelebile, tanto da costituire per lui il modello, lo stile di preghiera e d’ospitalità, sia riguardo a se stesso, sia riguardo alle future fraternità. Né va dimenticato il contatto che cercherà di mantenere direttamente o indirettamente, e per tutta la vita, con il Marocco, anche quando, divenuto prete, e stabilitosi a Beni Abbes, gli sarà impedito di tornarvi. In periodi differenti, alle persone più importanti, padre Huvelin, Madame de Bondy, padre Guèrin, padre de Foucauld rivelerà fino a che punto il Marocco lo ha segnato, e continua ad interpellarlo. Questa esperienza che è per noi piccoli fratelli il modello delle relazioni, superando le differenze di razza, di religione, di opinioni politiche, pone oggi la chiesa di fronte ad una domanda che non può eludere: è possibile una conciliazione, una convivenza pacifica e una condivisione positiva ed esemplare per la società attuale attraverso incontri di carattere dottrinario-filosofico? Se nell’incontro di Assisi Giovanni Paolo II avesse chiesto ai religiosi partecipanti di riunirsi nel Sacro Convento per esporre sinteticamente il contenuto e il senso della propria religione per metterle a confronto, ne sarebbero usciti in pace? Sappiamo che le religioni hanno una lunga storia di conflitti, di guerre e di delitti. La luminosa esposizione del professore Ratzinger anche fra noi non può non creare controversie e separazioni. Ho assistito per qualche momento al dibattito di Ballarò in tv, ed è venuta fuori la solitudine del Papa in questa iniziativa della sua agenda di viaggio e qualcuno ritorna al solito lamento sulle radici cristiane dell’Europa, molto simile al lamento degli Ebrei sui resti del tempio. Mi chiedo spesso se questi cristiani hanno riflettuto sulle parole di Gesù che “un albero buono si conosce dai frutti”? Dovremmo finalmente aprire gli occhi sul mondo cristiano e non tenerli sempre aperti sul messaggio di Gesù. In un secolo quante guerre abbiamo organizzato e quanto tempo abbiamo dedicato la nostra superiorità intellettuale a progettare le armi che nel minor tempo possibile possano alleggerire la comunità umana del maggior numero di esseri “esuberi”. Da dove sono partiti i missili nucleari caduti sul Giappone e sulla Russia? E mi fermo qui: il cristianesimo è pace, giustizia, fratellanza universale e i noi cristiani ogni otto secondi spediamo un bambino fra gli angeli, malato solo di fame. Gesù, che conosco, mi appare sempre disposto a perdonare i peccatori più peccatori ma non può perdonare quelli che innalzano i monumenti ai profeti del passato e condannano alla morte, quelli in vita. Ed è proprio la filosofia celeste, quella astratta, purissima, la responsabile di questa contraddizione insanabile. Eppure questa nostra terra del tramonto continua a produrre tante speranze di vita da affidare al mondo. Una di queste speranze possiamo coglierla nel discorso del Papa che ci fa pensare al discorso di Paolo all’Areopago di Atene. Il Logos, cui fa riferimento il Papa, un giorno nella sinagoga di Nazareth, ha dichiarato <>. Ha rivelato la sua identità e si è fatto conoscere come amore compassionevole, amore misericordioso, e l’aggettivo misericordioso copre una relazione con la miseria. Questo Logos sa che la gente ha fame e si muove a compassione perché non mangiano da tre giorni, che potrebbero essere tre secoli. Il logos greco è lontano dalla terra e si muove a suo agio nel mondo delle idee; quando la ragione si incontra con altra ragione, è scontro; quando scende fra gli uomini e ne accoglie il clamore, e si solidarizza con loro, diffonde amore e pace. <>. Questo logos è Colui che invita i laici di buona volontà a spogliarsi del mantello, dei sandali, a gettare in terra il bastone, a presentarsi così disarmati nelle case annunziando una sola parola: Pace. Il logos non è restato invisibile e ha preso un’identità che può essere quella sola. Paolo entra in mezzo ad un conflitto creato dal confronto fra i logos greci e pronunzia un verdetto biblico senza commenti <>. Un segno della discesa di questo logos che misteriosamente vigila sulle nostre vite, mi sembra essere la svolta della filosofia occidentale che si è sentita accusata dal confronto con la crudeltà e la stoltezza della nostra vantata civiltà. Ed è stato un ebreo a scoprire la vera causa di questa svolta nell’apparizione improvvisa di un volto marcato da tutte le sciagure di cui l’occidente è la causa. Evidentemente il volto è un simbolo e il pensiero filosofico non potrà mai più distogliersi da questa visione, che inchioda il pensiero e prima di farlo proseguire lo obbliga a rispondere. La filosofia si licenzia per sempre dal servizio prestato alla teologia, cancella l’assioma di ancilla theologiae, e si fa filosofia dell’ascolto del logos che dalla creazione del mondo è saggezza, amore misericordioso, solidarietà infrangibile con l’uomo. Questo nuovo illuminismo messo in cammino dall’apparizione dell’oppresso, che i filosofi non hanno avuto tempo di vedere, illumina il senso di una identità che lo spirito Santo ha dato chiaramente alla Chiesa del nostro tempo: <>. Naturalmente Chiesa del dialogo ma anche della denunzia della struttura economica che semina morte nel mondo. Perché struttura economica e non politica? Perché la globalizzazione ha sottomesso la politica all’economia. In questo quadro si presenta sola la teologia della Liberazione e il Cristo liberatore. Non come un prodotto del pensiero dei teologi, ma come una discesa gridata, attesa dalle vittime accumulate dalla razionalità europea. Un’ultima domanda si presenta alla mia mente: è possibile la pace senza una conversione personale? E una conversione di fondo del pensiero? La risposta è contenuta nella domanda. Il Papa nella sua lezione magistrale tocca un punto nevralgico: <>. Anche se giusto questo rilievo, e documentabile da tutte le follie che appaiono in questo scorcio di tempo nella terra del tramonto: il consumismo, la sessualità divenuta oggetto di consumo, un progetto globale che sta in piedi solo provocando guerre e la distruzione di parte dell’umanità, non risponde ad una domanda: il rimedio? La discesa del logos cioè la ragione diventata saggezza, responsabilità, presa di coscienza della solidarietà che non è una decisione ma una legge intrinseca della condizione umana. E la sola forza su cui possiamo contare è l’apparizione del volto del fratello oppresso. <>. Il cardinale Martini uscendo dal Conclave annunziò: <>. E lo Spirito Santo è pratico di queste sorprese. Il Papa filosofo imposta nel suo discorso un grande problema umano, a cui hanno già dato risposta i filosofi laici: che cos’è finalmente il logos? È amore. Colui che ascolta il lamento degli oppressi e viene in loro aiuto. È il logos che ha dichiarato di dare la vita al mondo, e c’è tanta morte in questo nostro mondo. La fede deve accettare l’abbandono dell’ancella fedele, e si alleerà con un’etica che sarà risposta concreta al lamento degli schiavi di questo tempo. Questa parola: vita, così essenziale al Vangelo, è certamente eterna ma non è quella dei beati abitanti in un mondo che non è il nostro. Il logos si è fatto carne, ha preso un volto, un corpo, delle mani che si sono stese sulle piaghe dell’umanità per sanarle. E non possiamo pensarlo fuori da questa identità e da questo impegno che si è preso per tutti i secoli. Solo così l’occidente potrà mutare la sua razionalità non nel vuoto, non nella stoltezza ma a quella in saggezza che sola può produrre la pace che è il più urgente bisogno dell’umanità attuale.