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Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2009, Pres. Gemelli, Rel. Macchia – “CONSENSO INFORMATO E ATTIVITÁ MEDICO CHIRURGICA: QUANDO L’IRRILEVANZA PENALE VIENE MENO”- Anna CONFORTI Le Sezioni Unite con la sentenza in esame vengono chiamate a pronunciarsi su un tema già ampliamente discusso quale quello della rilevanza penale dell’attività medico chirurgica a fini terapeutici. Ripercorrendo i principali orientamenti dottrinali e l’evoluzione giurisprudenziale in materia la Suprema Corte giunge a conclusioni perfettamente compatibile con i principi costituzionali di tassatività e colpevolezza che, tuttavia, non desterà di suscitare riserve critiche. La sentenza, richiesta ai sensi dell’art. 618 c.p.p., prende le mosse da una vicenda tuttaltro che infrequente costituita da un intervento chirurgico a cui la paziente aveva prestato il proprio consenso sfociato, senza soluzione di continuità, nel rispetto della lex artis e secondo competenza superiore alla media, in un’operazione dal carattere più incisivo. Esclusa la sussistenza di un pericolo di vita e, quindi, dello stato di necessità sia il giudice di primo grado che quello di appello qualificano la condotta del medico come frutto di una scelta consapevole e volontaria integrabile la fattispecie di violenza privata. Dichiaratone l’avvenuta prescrizione nel giudizio di secondo grado l’imputato propone ricorso per ottenere un proscioglimento nel merito che tenga conto della sussistenza, quanto meno a livello putativo, della scriminante di cui all’art. 54 c.p. In via pregiudiziale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi sull’eventuale rilevanza penale dell’intervento chirurgico eseguito in assenza del consenso del paziente e dall’esito positivo; in caso di risposta affermativa, si richiede altresì, di precisare quale sia la fattispecie penale configurabile, alla luce dei discordanti orientamenti giurisprudenziali che qualificano la condotta descritta ora come violenza privata ora come lesione volontaria. La decisione, pertanto, ruota essenzialmente attorno a due profili, quello del rilievo del consenso informato (tenuto conto anche di recenti pronunce della Corte Costituzionale) e quello della configurabilità dei reati di cui agli artt. 582 e 610 c.p., concludendo per l’irrilevanza penale della condotta medica laddove l’esito sia positivo. L’esercizio dell’attività medico chirurgica è da tempo rientrata nel novero delle materie più discusse dagli operatori giuridici, non solo per la rilevanza penale che può assumere una condotta che sfoci in risultati lesivi se non addirittura letali ma altresì per il rilievo costituzionale dei beni giuridici sottesi. In particolare si è messo in evidenzia come l’intervento chirurgico sia da considerarsi sempre strumentale alla tutela del diritto fondamentale alla salute, costituzionalmente garantito dall’art. 32; da questo punto di vista addirittura qualsiasi azione terapeutica sarebbe funzionale all’obiettivo principale di cura del paziente, con la conseguente irrilevanza penale del fatto per mancanza dell’antigiuridicità anche ove l’esito sia infausto (Cass. sez. I, 29.5.2002, Volterrani, in cui si evidenzia come il medico sia sempre tenuto ad effettuare il trattamento terapeutico necessario anche in assenza di un espresso consenso, riconoscendosi un limite invalicabile solamente al dissenso esplicito da cui può derivare semmai la sussistenza della fattispecie di violenza privata). Ad una conclusione parzialmente discordante giungono coloro che attribuiscono al consenso del paziente un valore imprescindibile ai fini di ogni intervento medico chirurgico, non essendo attribuibile al sanitario un generale diritto di cura a prescindere dalla volontà dell’ammalato (Cass. sez. IV, 16 gennaio 2008). Questa seconda linea interpretativa appare preferibile alla luce di una rilettura in chiave personalistica della Costituzione, con particolare riferimento alla tutela di diritti fondamentali quali quello della libertà personale (art. 13) e della salute (art. 32); che tale soluzione ermeneutica sia oggigiorno la prevalente è dimostrato altresì dal contenuto di fonti sopranazionali (art. 24 Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989; art. 5 Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina firmata a Oviedo nel 1997; art. 3 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza nel 2000) e dalla più recente giurisprudenza costituzionale (sent. 438/2008). Nel sindacato di legittimità della legge della Regione Piemonte con la quale si richiede il consenso scritto, libero, consapevole, attuale e manifesto dei genitori per sottoporre il minore a determinati farmaci, la Corte Costituzionale ha evidenziato come il consenso informato rappresenti un vero e proprio diritto della persona sia sotto il profilo della libertà di autodeterminazione che per quello della tutela della salute: se è vero che ogni soggetto ha il diritto di essere curato è altresì suo diritto essere informato della natura e dei possibili sviluppi del percorso terapeutico al fine di effettuare una scelta libera e consapevole sul trattamento a cui sottoporsi. Sulla base di queste considerazioni si è andato pertanto delineando un nuovo concetto di salute, non più da intendersi come mera integrità fisica ma da ricondurre alla libertà di decidere e di autodeterminarsi in relazione a quelle scelte che investono il proprio corpo. Il trattamento sanitario, quindi, salvi i casi di necessità e di incapacità a manifestare il proprio volere, può ritenersi lecito solamente in presenza di un consenso espresso, libero, consapevole ed informato. La necessità di un’informazione completa ed esauriente costituisce un ulteriore elemento indispensabile alla luce anche di una nuova concezione del rapporto medico-paziente, non più in termini paternalistici ma più incentrata sul quoziente di fiducia reciproco (conferma di tale assunto si trova nel codice deontologico come revisionato a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione di Oviedo, in particolare agli artt. 30, 32 e 34). Riconosciuta la rilevanza costituzionale prima ancora che penale del consenso, le Sezioni Unite affrontano la questione dell’eventuale responsabilità in termini penalistici del medico che sottopone il paziente ad un intervento chirurgico più grave di quello a cui questi aveva espresso la propria adesione. I due principali filoni giurisprudenziali riconducono tale ipotesi alla fattispecie di violenza privata (art. 610 c.p.) ovvero a quella di lesioni volontarie (art. 582 c.p., con conseguente configurablità del reato di omicidio preterintenzionale ove ne consegua la morte del malato); da tali soluzioni si discostano, invece, gli ermellini nel caso di specie, escludendo la rilevanza penale della condotta. Brevemente è opportuno evidenziare quali siano le ragioni a fondamento dell’una o dell’altra scelta ermeneutica. In assenza del consenso del paziente il trattamento medico chirurgico dal risultato fausto sarebbe da qualificarsi comunque come lesione del diritto all’integrità fisica e del divieto di manomissione arbitraria del proprio corpo e, pertanto, riconducibile al delitto di violenza privata (Cass. Sez. IV, 21.4.1992, Massimo; Cass. sez. IV, 27.3.2001). Secondo questa linea interpretativa non si ravviserebbero gli estremi del reato di lesioni volontarie, stante la finalità curativa dell’intervento e, dunque, l’assenza del dolo di lesione richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 582 c.p. (a maggior ragione, ove ne derivi la morte, il fatto non sarebbe qualificabile come omicidio preterintenzionale che, mediante la formulazione “atti diretti a”, pare richiedere per il reato voluto di lesioni o percosse addirittura la sussistenza del dolo intenzionale Cass. sez. IV, 9.3.2001, Barese). Sul punto la dottrina ha evidenziato come la fattispecie di cui all’art. 610 c.p. verrebbe in rilievo quale forma di esercizio di una violenza fisica sul malato che, per la situazione in cui si trova, non è in grado di opporre alcuna resistenza. In diverso modo si esprimono alcune pronunce di legittimità nelle quali viene confermata la rilevanza penale del fatto sotto il profilo della fattispecie di lesioni, giacché qualsiasi intervento chirurgico ancorché mosso da intenti terapeutici e dall’esito fausto lederebbe l’integrità corporea del soggetto (Cass. sez. IV, 11.7.2001, Firenzani, in cui si riconosce un’eventuale responsabilità a titolo di colpa nei casi in cui il sanitario agisca in assenza del valido consenso ma nella convinzione, per negligenza o imperizia a lui imputabile, dell’esistenza del consenso, secondo lo schema di cui all’art. 59 comma 4 c.p.). Mediante una puntuale interpretazione ermeneutica della norma di cui all’art. 610 c.p. le Sezioni Unite escludono la rilevanza penale dell’intervento medico chirurgico dall’esito positivo in termini di violenza privata per due ragioni. Innanzitutto la fattispecie di cui all’art. 610 c.p. richiede, quale elemento oggettivo, il compimento di una violenza o minaccia che abbia l’effetto di costringere taluno a fare, omettere o tollerare qualche cosa; si tratta, quindi, di un comportamento da cui consegue un risultato determinato, distinto dalla violenza o dalla minaccia. Nel caso di specie non si può dire che il “tollerare” l’operazione chirurgica soddisfi tale requisito, appunto perché vi sarebbe una coincidenza tra la violenza e l’effetto. In secondo luogo ad integrare la fattispecie di cui all’art. 610 c.p. difetta anche l’elemento della costrizione, inteso come dissenso della vittima, costringimento al compimento o al subire una condotta contro la sua volontà. Nell’ipotesi del malato anestetizzato tale situazione non è ravvisabile, potendosi al più intravedere in capo al medico una comportamento di approfittamento o di abuso della condizione di incapacità in cui versa il paziente anestetizzato. Nel paradigma di cui all’art. 610 c.p. però non vi può rientrare la condotta di approfittamento né di abuso poiché non espressamente prevista dal legislatore; a sostegno di tale assunto si è osservato che quando si è voluto dare rilevanza penale a tali ipotesi il dettato normativo è stato espresso (come nel caso dell’art. 609 bis c.p. nel quale alla condotta violenta è equiparata quella di approfittamento o di abuso o di inganno), con la conseguenza che un ampliamento della fattispecie incriminatrice a situazioni non previste implicherebbe senza dubbio una violazione del principio di legalità sotto il profilo della tassatività. Esclusa la rilevanza penale della condotta del sanitario che intervenga in assenza del consenso del paziente ai sensi dell’art. 610 c.p. le Sezioni Unite ritengono di non poter riconoscere nemmeno la sussistenza del delitto di lesioni di cui all’art. 582 c.p.. Anche sotto questo profilo vengono in rilievo due considerazioni. In primis si evidenzia una sostanziale incompatibilità sotto il profilo dell’elemento soggettivo tra l’art. 582 c.p. e la condotta del medico; infatti, la finalità curativa che anima l’agente non può ritenersi integrare quell’intento lesivo che connota la fattispecie criminale nella parte in cui richiede che si cagioni una malattia nel corpo o nella mente. Oltre a questo profilo viene in gioco una ulteriore considerazione di carattere oggettivo, più specificamente dal punto di vista della tipicità del reato e che ruota essenzialmente attorno al concetto di malattia. Si ricordano sostanzialmente le due linee interpretative affermatesi nel tempo, l’una più restrittiva e marcatamente clinica e l’altra più estensiva. Secondo la prima integrerebbe il concetto di malattia solamente quella lesione che determina un processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo significativo, con la conseguenza che una mera alterazione anatomica del corpo non potrebbe ritenersi sufficiente (approccio prevalentemente seguito dalla dottrina e sostenuto dal riferimento codicistico alla diversa durata della malattia che lascerebbe sottintendere, appunto, un concetto scientifico in termini di processo morboso). La giurisprudenza di legittimità ha dimostrato in passato di accogliere una nozione più estesa mediante la quale farvi rientrare ogni alterazione oltre che funzionale anche solamente anatomica dell’organismo; di conseguenza ogni sensibile variazione dell’integrità fisica o psichica (potendo la malattia colpire tanto il corpo quanto la mente), anche in assenza di una modificazione sotto il profilo funzionale, andrebbe ricondotta alla nozione di malattia e renderebbe configurabile la fattispecie di lesioni (con conseguente riduzione della portata applicativa del reato di percosse). Ritenuta preferibile un’impostazione in chiave funzionalistica della nozione di malattia, si evidenzia come anche questo secondo evento richiesto dalla fattispecie incriminatrice debba essere sorretto dalla volontà intenzionale dell’agente; in altre parole non solo deve essere voluta, sia pure nelle forme del dolo eventuale la lesione ma altresì la malattia deve essere oggetto di previsione e volizione da parte del soggetto attivo. Escludere questo effetto dal profilo soggettivo implicherebbe una frattura nella struttura della fattispecie criminosa (nel senso, invece, che l’evento sarebbe unico e rappresentato dalla malattia mentre il riferimento alla lesione costituirebbe un’inutile superfetazione, E.Musco – G. Fiandaca, Diritto Penale. Parte speciale, p. 54) e una palese violazione del principio di colpevolezza sotto il profilo della responsabilità penale per un fatto proprio, a cui si è preso parte con piena consapevolezza psichica. Da tali osservazioni discende che la condotta del sanitario che agisce per finalità terapeutiche e comunque allo scopo di migliorare le condizioni del paziente non può dirsi sostenuta dal dolo richiesto dall’art. 582 c.p.. Dopo questa attenta analisi le Sezioni Unite escludono la rilevanza penale della condotta del medico chirurgo che effettui un intervento senza il consenso del paziente e dal risultato positivo, ritenendo ravvisabile semmai una responsabilità su altri piani in ragione del mancato consenso. Ciò non esclude che ove l’esito sia negativo e, quindi, ne derivi una malattia, possa ritenersi integrata la fattispecie di lesioni, con eventuale imputazione a titolo di colpa nel caso di errore sull’esistenza di una scriminante o di superamento dei limiti della medesima (secondo lo schema della cd. colpa impropria). La decisione a cui perviene la Corte assume una particolare importanza sotto vari profili; innanzitutto risolve, con tutti i limiti in termini di vincolatività che incontra una pronuncia giurisprudenziale nel nostro ordinamento, una questione che da lungo tempo dava luogo a contrasti giurisprudenziali assai rilevanti. In secondo luogo si è fatto buon uso delle tecniche ermeneutiche vigenti a disposizione, sia mediante una completa ricostruzione delle fattispecie penali sotto il profilo letterale (e, quindi, salvaguardando il principio di tassatività) sia per quanto concerne l’analisi dell’evoluzione nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, adottando un approccio conforme al diritto vivente e ad una lettura aggiornata della Carta fondamentale. La tutela del diritto di autodeterminazione del paziente e di disposizione del proprio corpo viene garantita mediante il necessario consenso che questi deve manifestare, quale frutto di una scelta libera, consapevole ed informata. Allo stesso tempo sembra riconoscersi in capo al medico chirurgo un ontologico diritto di cura sotteso da una finalità intrinsecamente benefica, incompatibile pertanto con l’intento di cagionare un male nel paziente. Se il primo profilo appare meritevole è altrettanto vero che un’eccessiva deresponsabilizzazione del sanitario può dar luogo ad alcune perplessità in fattispecie concrete complesse, nelle quali la risoluzione del quadro clinico presenta particolari difficoltà. La richiesta del previo consenso per una specifica operazione potrebbe risultare difficilmente realizzabile ovvero l’esito positivo dell’intervento potrebbe aver comunque determinato una menomazione nell’organismo del paziente sotto altri profili. Proprio per tale ragioni diviene indispensabile un’attenta analisi di ogni situazione concreta, con una indagine approfondita sia dal punto di vista scientifico, specificamente riguardo al risultato finale, che strettamente giuridico, per assicurare che effettivamente la fattispecie sia conforme al tipo di reato e, quindi, garantire il pieno rispetto dei principi di tassatività e di colpevolezza. …la condotta del medico è non solamente teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo “prossimo”… quanto e soprattutto per realizzare un beneficio per la salute del paziente…è questo ultimo il vero bene da preservare ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale alla legittimazione dell’atto medico… …le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità non potranno coincidere con l’atto operatorio in sé e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute… …ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis ed abbia raggiunto l’effetto, dall’atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacché l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui il paziente era affetto… …l’eventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale… Responsabilità medica, consenso informato, esito fausto