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Pop Music

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. L A B O R A T O R I O . . . . . Musica di chi? A proposito di storia e popular music  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marco Santoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Se è vero che i rapporti tra musica e storia sono tradizionalmente difficoltosi, ciò è ancor più vero quando quest’ultima scelga come suo fuoco non quella «creazione musicale alta» che costituisce il ramo nobile e legittimo di questa forma espressiva, ma precisamente quella «sua dimensione più popolare»1, come tale culturalmente meno legittimata, che è peraltro ciò che fa della musica un oggetto decisamente prezioso non solo per lo storico sociale ma anche e soprattutto per lo storico contemporaneo. Perché – se pure è vero che tutta la musica, in quanto arte performativa implicata in una grande varietà di contesti collettivi, è «la più sociale delle arti»2 – è poi questa musica «più popolare» ad avere normal- . mente costituito l’ambiente sonoro della vita quotidiana degli uomini e delle donne del Novecento, ad aver funzionato come risorsa simbolica per la loro mobilitazione politica in gruppi e categorie, ad avere attirato e messo in circolazione capitali economici anche ingenti dentro e tra le nazioni, ad aver alimentato l’immaginazione sociale di generazioni intere, fornendo un repertorio, certo mutevole ma anche normalmente significativo, di pratiche, simboli e narrative che sono parte integrante della nostra storia recente3. L’attenzione della storiografia per questo tema è stata purtroppo a lungo pressoché inesistente ed è ancora oggi sporadica, occasionale, insufficiente4. In fondo, non è un . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 673 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Traggo entrambe le citazioni dalla discussione che ha svolto su queste stesse pagine Carlotta Sorba ( Mu-  sica e nazione: alcuni percorsi di ricerca , «Storia contemporanea», 2003, n. 2, p. 394), e dedicata appunto, volutamente, al primo dei due rami. 2 Così W. Weber, Music and Dance , in P.N. Stearns (a cura di), Encyclopedia of European Social History. From 1350 to 2000 , Detroit, Scribner’s Sons, 2001, vol. 5, p. 141. 3 Vedi in particolare, su questi temi, G. Lipsitz, Time Passages . Collective Memory and American Popular  Culture , Minneapolis, University of Minnesota Press, 1990; 199 0; T. T. DeNora, Music in Everyday Life , Cambridge, Cambridge University Press, 2000; R.S. Denisoff, Tarnished Gold. The Record Industry Revisited , New Brunwick, Transaction, 1997; R. Eyerman e A. Jamison, Music and Social Mevements , Cambridge, Cambridge University Press, 1998; P. Willis, Profane Culture , London, Routledge 1978; D. Hebdige, Subcultura , Genova, Costa & Nolan, 1983 [London, 1979]. 4 Compresa, è bene precisare, la storiografia nella sua declinazione «sociale»: vedi quanto scrive ad esempio D. Russell, The ‘Social History’ of Popular Music: a Label Without a Cause? , «Popular Music», 12, 1993, n. 2, pp. 139-154. Peraltro, come vedremo non mancano alcune significative, talvolta vistose, eccezioni, tra cui lo stesso Russell (Popular Music in England, 1840-1914. A Social History , Manchester, Manchester University Press 1987). 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Contemporanea / a. VII, n. 4, ottobre 2004 . mistero che «la storia della musica è stata condizionata dagli interessi prevalsi nella musicologia sin dal diciannovesimo secolo»5: come dire, dall’esigenza di identificare, verificare, classificare e catalogare le fonti per le opere che hanno costituito il canone della musica colta occidentale – quella, come diceva polemicamente Adorno, «che chiamiamo classica per poterlesi sottrarre più facilmente». Attratta semmai dal polo élitario e legittimo della produzione e del consumo musicale, la storiografia – anche quella contemporanea – ha così dedicato ben pochi contributi all’altra grande sfera, nonostante gli stimoli che verso questa direzione poteva provenire da una figura di riferimento della storiografia sociale e «progressista» come Eric J. Hobsbawm, che alla vicenda del jazz dalle sue origini sino agli anni Sessanta ha dedicato un intero, pionieristico, studio – peraltro da lui pubblicato originariamente (e significativamente) sotto pseudonimo6. Ma l’attenzione, come dimostra del resto anche questo articolo, finalmente sembra esserci. Presumibilmente, al di là di alcuni loro limiti, anche libri recenti usciti nel no. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 674 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . stro paese e pubblicati da editori prestigiosi hanno avuto il merito di sollevare il problema, di destare l’interesse, di incrinare pregiudizi diffusi7. Tanto più che questa piccola produzione nostrana è poi solo un tassello, e periferico (ma in realtà, sembra, non del tutto consapevole), di uno specifico movimento di ricerca ormai più che ventennale, di natura interdisciplinare, a cui storici di varia nazionalità hanno dato il loro contributo insieme peraltro a studiosi e specialisti di altri settori di ricerca8. Non è solo per l’appartenenza disciplinare di chi scrive, dunque, che andremo spesso a parare su letterature ancora troppo poco frequentate dallo storico, e in particolare da quello contemporaneo, come la sociologia, la musicologia o gli stessi cultural studies , a oggi probabilmente le aree disciplinari (o transdisciplinari) che più hanno coltivato questo interesse di ricerca, spesso supplendo alla mancanza di ricerche storiografiche con proprie incursioni, talvolta anche brillanti, nei territori della storia. Al di là di questo, il corpus di dati e conoscenze accumulati in decenni di studi e ricerche, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è co- . . . . . . . . . . . . . . . . . T. Herbert, Social History and Music History , in M. Clayton, T. Herbert, R. Middleton (a cura di), The  Cultural Study of Music , New York, Routledge, 2002, p. 149. 6 E.J. Hobsbawm (Francis Newton), Il mondo del jazz , Roma, Editori Riuniti, 1963 [London, 1959], nuova edizione con il titolo Storia sociale del jazz , Roma, Editori Riuniti, 1982. 7 Il riferimento è ai libri, encomiabili nei loro intenti ma a mio parere carenti proprio dal punto di vista metodologico, di S. Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana , Bologna, Il Mulino, 2002; e di M. Peroni, «Il nostro concerto». La storia contemporanea tra musica leggera e canzone  popolare , Milano, La Nuova Italia, 2001, che pure ha il suo fuoco in un’esigenza di elaborazione metodologica. 8 Il campo dei cosiddetti Popular Music Studies conta ormai non solo insegnamenti ufficiali in molti paesi (Italia compresa), ma anche riviste, manuali, repertori, e un canone di autori e testi consolidato oltre a un’associazione internazionale (Iaspm) con sedi in decine di paesi, tra cui l’Italia: vedi per un primo, autorevole approccio, F. Fabbri, Canzoni e falsa coscienza. Perché occuparsi di popular music, «il Mulino», 2002, n. 5, pp. 943-951, e. per una recente messa a punto a livello internazionale D. Hesmondhalgh e K. Negus ( a cura di), Popular Music Studies , London, Arnold, 2002. 5 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . munque ingente, e si presenta oggi allo storico contemporaneo come una potenziale riserva di fonti utili anche per illuminare aspetti del fenomeno riferiti al passato, oltre che sotto il profilo metodologico. Basti dire, per fare solo un esempio, che i primi studi sociologici sui testi delle canzoni risalgono agli anni Quaranta, proprio agli inizi delle ricerche sui mezzi di comunicazione di massa, di cui avrebbero seguito l’evoluzione sino agli attuali sviluppi di impostazione semiotica e post-strutturalista9. Di questa letteratura, dei suoi risultati, dei suoi insegnamenti (in positivo o in negativo), non c’è traccia peraltro nella recente storiografia italiana sulla «canzone popolare», che paradossalmente (e certo involontariamente) finisce col ripetere, con questa disattenzione per la scholarship  accumulata, proprio quel pregiudizio intellettuale e accademico contro il loro oggetto che vorrebbero abbattere. Sia però subito chiaro. Quello che cercherò qui di tracciare non è una rassegna, o anche solo un bilancio, per cui non ci sarebbe spazio né avrei forse competenza, ma un percorso di lettura necessariamente breve e selettivo, attraverso letterature disparate e spesso tra loro non comunicanti, su un fenomeno trasversale, evanescente, controverso, trascurato, sfuggente eppure così centrale non solo come si è detto per la vita quotidiana di milioni di persone nella società contemporanea, ma anche per il funzionamento di segmenti significativi della vita economica, politica e naturalmente culturale di quella stessa società10: appunto, la musica nella sua dimensione più «popolare», o per meglio dire, la popular music . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ■ Che . cos’è la popular music ? Una prospettiva storica Cosa si intenda con questa espressione, non a caso lasciata anche qui, sin dal titolo, nella sua lingua originaria secondo un uso ormai consolidato anche nella letteratura italiana specializzata11, non è proprio facile dire, a . . . . . . . . . . . . . 675 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vedi ad esempio J.G. Peatman, Radio and Popular Music , in P.F. Lazarsfeld e F. Stanton (a cura di), Radio Research , New York, Duell, Sloan and Pearce, 1943; D. Horton, The Dialogue of Courtship in Popular Song , «American Journal of Sociology», 62, 1957; J.T. Carey, Changing Courtship Patterns in the Popular Song , «American Joural of Sociology», 74, 1969; D. Laing, Il Punk , Torino, Edt, 1991, [Milton Keynes, 1985]; B.L. Cooper, A Resource Guide to Themes in Contemporary American Song Lyrics , London, Greenwood, 1986; M. McLaurin e R. Peterson (a cura di), You Wrote My Life: Lyrical Themes in Country Music, Philadelphia, Gordon and Breach, 1992. Per una critica a questa tradizione di ricerca vedi S. Frith, Il rock è finito, Torino, Edt, 1990 [Oxford, 1988]. 10 Come ha scritto Dave Russell, «abbiamo bisogno di studiare la storia della popular music  – sia come genere estetico culturale, sia come attività sociale – per la semplice ragione che essa ha svolto un ruolo centrale nella vita della gente» (The «Social History» of Popular Music , cit., p. 152). Per considerazioni e qualche dato sull’impatto sociale della musica (soprattutto ma non solo popular ) riferito alla situazione italiana attuale ma facilmente estensibile anche ai decenni passati rimando al mio La musica, la sociologia  e 40 milioni di italiani , «Il Mulino», 2, 2002, n. 5, pp. 952-961. 11 Vedi ad esempio R. Middleton, Studiare la popular music , Milano, Feltrinelli, 1994 [Buckingham, 1990], e M. Favaro e L. Pestalozza, Storia della musica , Milano, Warner 1996 (testo specificamente rivolto agli studenti di conservatorio). Come ha scritto uno dei massimi esponenti delle ricerche etnomusicologiche nel nostro paese, Roberto Leydi, «effettivamente nella nostra lingua l’aggettivo “popolare” è ambivalente e può indicare sia quanto è folklorico, sia quanto, avendo diffusione di massa, è appunto «popolare» […] In inglese l’esistenza di due parole distinte,  folk e popular , evita questi rischi di confusione». Peraltro, come 9 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . testimonianza della sua intrinseca e irriducibile storicità, che significa appartenenza a una congiuntura temporale ma anche a una esperienza locale (seppure capace di influenza a livello globale). Alludo, naturalmente, all’esperienza anglo-americana, che come vedremo, pur essendo probabilmente quella maggiormente studiata, non è però certo l’unica storicamente (e culturalmente) significativa. L’impossibilità di darne una traduzione italiana soddisfacente («musica popolare») è rivelatrice sia della storicità delle categorie sia dello scarto che comunque separa, nonostante egemonie e imperialismi, la nostra storia culturale da quella americana e anche inglese. E tuttavia, la circolazione internazionale delle idee e dei concetti – oltre che delle musiche – è tale da rendere oggi impossibile quanto meno non sollevare il problema: come etichettiamo la musica dei Beatles o di Adriano Celentano, e come la distinguiamo da quella di Mozart e di un coro alpino? La soluzione a lungo invalsa in Italia12 – si tratta di musica «leggera» – benché significativa di una certa tradizione culturale e linguistica (che andrebbe indagata), non è parsa più da tempo soddisfacente, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 676 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . per lo scoperto pregiudizio negativo che essa veicola, e che l’espressione anglofona popular music  parrebbe, o comunque vorrebbe, neutralizzare o almeno ridurre, se non altro perché con questa etichetta si identifica ormai pacificamente l’oggetto specifico di un filone di studi riconosciuto e consolidato in campo accademico – con tanto di cattedre, manuali e riviste: appunto i popular music studies , di cui anche in Italia vi sono ormai segni indubitabili di presenza. Si tratta peraltro di un campo non solo interdisciplinare (e come tale strutturalmente instabile), ma anche sostanzialmente sempre aperto e in divenire, come aperto e in divenire è il campo della popular music , categoria i cui significati sono stratificati storicamente e radicati socialmente e come tali non solo sono mutevoli ma non sono mai neppure neutrali. Del resto, sono fin troppo noti i problemi di identificazione del «popolare» perché li si debba qui ricordare più che con brevi cenni. Per tutto l’Ottocento, per molti, come noto, il «popolo» coincideva con la nazione e includeva quindi tutti i suoi membri; ma per altri la parola si riferiva solo al mondo contadino, escludendo quindi persino le classi ope- . . . . . . . . . . . . . . ricorda lo stesso Leydi, sia in Italia che in area anglosassone il «disordinato consumo» che si è fatta della parola folk ha indotto gli specialisti del suo studio, gli etnomusicologi, a ridenominare «etnica» o «tradizionale» quella che un tempo si chiamava musica  folk o – da noi – «popolare»: cfr. R. Leydi, L’altra musica , Firenze, Giunti, 1991, p. 299. Per una ricostruzione della ricerca su questa canzone «popolare» nel nostro paese, dall’angolo visuale dell’esperienza importante del Nuovo Canzoniere Italiano, e da parte di uno dei suoi protagonisti, rimando a C. Bermani, Una storia cantata , Milano, Jaca Book, 1997. 12 Come riconosce G. Sibilla, I linguaggi della musica pop , Milano, Bompiani, 2003, p. 21, l’aggettivo «leggera» denota un campo in modo molto impreciso e ideologico (ovvero parziale), spesso implicando, di fatto, che la musica compresa in questi «recinti» non sia rilevante né artisticamente né intellettualmente. Una definizione di questo genere è adatta al linguaggio quotidiano: è interessante soprattutto per i pregiudizi che porta con sé. Diventa insufficiente quando si voglia capire come funzione l’oggetto definito. E tuttavia l’espressione è ancora in uso nella storiografia, compresa quella che vorrebbe riabilitare lo studio delle canzoni nel discorso della storia: cfr. ancora Peroni, «Il nostro concerto». La storia contemporanea tra musi-  ca leggera e canzone popolare , cit. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . raie. Se da un punto di vista economico «popolare» evoca «povero», in termini politici (e gramsciani) si parla di «classi popolari» per intendere quelle dominate o subalterne. Ancora più ampio lo spettro dei significati quando ci si focalizzi sugli aspetti culturali – soluzioni che possono tutte riscontrarsi negli studi sulla popular culture  e che Raymond Williams ha autorevolmente enumerato: «apprezzato da molta gente», «tipo inferiore di opera», «opera deliberatamente prodotta per conquistare il favore della gente», «cultura prodotta dalla gente a proprio uso»13. Tutti questi significati risuonano evidentemente nella formula popular music , sebbene alcuni di essi abbiano acquisito più rilevanza almeno nella letteratura. Secondo Richard Middleton, autore di un testo a distanza di quindici anni ancora di riferimento nel campo dei popular music  studies  che ha contribuito a fondare, posto che è possibile identificare, storicamente , almeno quattro categorie di definizioni di musica popular , tutte in qualche modo insufficienti o insoddisfacenti14, sarebbero due oggi le caratterizzazioni più diffuse nel discorso quotidiano e nel mondo accademico. Il primo, definibile positivista , si concentra sul senso quantitativo di «popolare», e suggerisce di considerare come tali quelle musiche che sono effettivamente più diffuse dai mass media. Il secondo, che Middleton chiama essenzialismo sociologico, fa in- vece affidamento sulla possibilità di identificare una qualche essenza, come tale costante, in un qualche gruppo sociale (così identificato come il «popolo»), anche se variano poi gli attributi che si concedono a questa essenza (soggetto storico attivo o manipolato, creato dal basso o stabilito dall’alto ecc.). Nel primo caso, più che misurare la popolarità si misurano però le vendite e si tende alla reificazione, escludendo per definizione dal suo quadro di riferimento il problema del significato stesso di popular  music  e le connotazioni ideologiche che lo accompagnano. Nel secondo, si tende invece ad assolutizzare (essenzializzare) qualcosa che è invece profondamente storico, e come tale mutevole a seconda dei luoghi, dei tempi e anche dei punti di vista. Da qui la conclusione dell’autore: «la “popular music” (o quant’altro) può essere inquadrata opportunamente soltanto come fenomeno mutevole all’interno dell’intero campo mu-  sicale ; e questo campo, insieme ai suoi rapporti interni, non è mai immobile – è sempre in movimento»15. Ma quando si sarebbe costituito questo campo? Sempre secondo Middleton, che scrive in un’ottica gramsciana, è possibile individuare in una prospettiva storica di lunga durata tre momenti di cambiamento. Il primo è quello della «rivoluzione borghese», segnato dalla diffusione del sistema mercato in tutte, o quasi, le attività musicali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 677 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vedi R. Williams, Keywords. A Vocabulary of Culture and Society , London, Fontana Press, 1983, p. 237. E cioè: 1) definizioni normative (la popular music come tipo di musica inferiore); 2) definizioni negative (è musica che non sia qualche altro tipo di musica (generalmente, colta o f olk); 3) definizioni sociologiche (la popular music è prodotta da e per un certo gruppo sociale); 4) definizioni tecnologiche-economiche (è quella diffusa dai messa media o da un mercato di massa). Cfr. Middleton, Studiare la popular music , cit., pp. 20-21. 15 Ivi, p. 24. 13 14 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . È quello che la storia tradizionale della musica identifica come passaggio dal periodo classico a quello romantico, nascondendo peraltro dietro la facciata dei grandi musicisti (da Mozart a Beethoven) la trama dei rapporti sociali in cambiamento in cui il loro «genio» si è espresso, non senza profonde conseguenze sulla loro stessa persona oltre che produzione artistica 16. Durante la prima metà del XIX secolo si sviluppano nuovi tipi di canzone (sia teatrale che domestica) e di danza, sia borghesi che di classe operaia, si organizzano società corali e bande, in quello che può considerarsi un vero e proprio movimento sociale che investe tutte le società europee 17. Soprattutto, sorgono nuove istituzioni, come case editrici musicali, teatri, agenzie di impresariato, concerti a pagamento, e music hall, con una crescente differenziazione sociale dei rispettivi pubblici. Questi cambiamenti istituzionali sono stati accompagnati da notevoli trasformazioni sul piano simbolico e culturale, che hanno ridisegnato la mappa concettuale con cui si guarda, e si vive, la musica. Stando alle am. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 678 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pie e numerose ricerche di William Weber sulla cultura musicale europea, entro il 1870 si può comunque dire che le categorie moderne di musica popular  e classica sono ormai costituite. La popular music  era qualunque musica la gente dicesse che non c’era bisogno di conoscere troppo per poterne godere; la musica classica era qualunque musica la gente dicesse c’era bisogno di una seria acquisizione di gusto per apprezzare. Solo l’opera era ancora considerata alla vecchia maniera, come musica sulla quale non c’era bisogno di sapere molto, ma che era buona cosa se lo si sapeva 18. Alla fine del secolo, era ormai difficile che un compositore potesse scrivere per entrambi i mondi – una separazione che avrebbe colpito soprattutto le donne, un tempo attivamente presenti nel mercato della musica stampata per l’esecuzione domestica19. Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, come ha superbamente documentato oltre allo stesso Weber anche Lawrence W. Levine20 specificamente esaminando il caso . . . . . . . . . . . . . . Da un punto di vista sociologico, questa trama è viceversa resa visibile, oltre che da alcune pagine ormai classiche di Adorno, da libri come quelli di N. Elias, Mozart. Sociologia di un genio, Bologna, Il Mulino, 1992, rimasto purtroppo incompiuto per la morte dell’autore; e T. DeNora, Beethoven and the Construction  of Genius. Musical Politics in Vienna, 1792-1803, Berkeley, Universty of California Press, 1995, sui quali ha opportunamente attirato l’attenzione Carlotta Sorba nell’articolo già citato. Ma vedi anche, della stessa DeNora, e con un fuoco sui cambiamenti nei rapporti tra i sessi, Corpo e genere al piano. Repertorio, tecnologia  e comportamento nella Vienna di Beethoven , «Rassegna italiana di sociologia», 2000, n. 2, pp. 165-188. 17 Sul caso inglese lo studio più documentato su queste dinamiche resta quello di D. Russell, Popular Music  in England , cit. Vale la pena segnalare che l’importanza delle società corali nella società (e nella politica) tedesca dei primi del Novecento venne riconosciuta da Max Weber, che lo propose come tema di ricerca alla Società tedesca di sociologia, peraltro senza successo. Vedi M. Weber, Max Weber. Una biografia , Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 499-500. 18 W. Weber, Mass Culture and the Reshaping of European Musical Taste, 1770-1870 , «International Review of the Aesthetics and the Sociology of Music», VIII, 1977, n. 1, p. 20. 19 W. Weber, Music and Dance , cit., p. 147. 20 Il primo lavorando sull’Europa e in particolare sull’Inghilterra di fine Settecento, ha mostrato come si sia costituito per la prima volta un canone musicale composto da un repertorio di opere e compositori ricor16 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . americano, una nuova gerarchia estetica e culturale era ormai definitivamente emersa e si stava istituzionalizzando, costruita su una dicotomia – quella tra musica «seria» e musica «leggera» (light ) – che non esisteva nel diciottesimo secolo. È dunque nell’Ottocento, nel lungo Ottocento, che viene a costituirsi poco a poco, in Europa (a quanto pare partendo dall’Inghilterra) 21 quella distinzione tra «colto» e «popolare» che avrebbe a lungo (ancora oggi) strutturato in tutto il mondo occidentale22, pratiche e discorsi sulla musica (come su altre forme espressive). Ciò che più sembra interessante, a costituirsi non sarebbe stata solo la categoria di popular music in quanto tale, ma il sistema costituito dalla sua opposizione a un’altra musica – e in realtà a un’altra cultura – che si è progressivamente autonomizzata e soprattutto innalzata grazie al reciproco sostegno di intellettuali e ceti alto-borghesi23. La nascita della popular music  come categoria storica è dunque coincisa anche con la costituzione di nuovi confini sociali e simbolici, la creazione e il mantenimento di nuove forme di distinzione, sostenute e rafforzate da luoghi, spazi, istituzioni, discipline (dalle società del quartetto all’orchestra sinfonica alla stessa musicologia, che nasce in quel torno di tempo)24. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . renti, che venivano eseguiti anche a distanza dalla morte. Il secondo mettendo a fuoco il processo di costituzione delle gerarchie culturali (nei termini della triade Highbrow , Middlebrow  e Lowbrow ) negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento – proprio a ridosso dell’arrivo di Adorno – con particolare riguardo alla vicenda dei drammi shakesperiani e, ciò che a noi più interessa, dell’opera italiana e della sua ricezione americana. Cfr. W. Weber, The Rise of the Musical Classics in Eighteen-Century  England. A Study in Canon, Ritual, and Ideology , Oxford, Clarendon Press, 1992; Id., Music and Dance , cit.; L.W. Levine, Highbrow/Lowbrow. The Emergence of Cultural Hierarchy in America , Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988. Ritroveremo Levine, che è anche studioso della cultura afroamericana, parlando del jazz. 21 Ma vedi DeNora, Beethoven and the Construction of Genius , cit., che colloca l’avvio di questo stesso processo di costituzione di una gerarchia culturale in campo musicale, nella sua componente peraltro solo ideologica e non anche istituzionale, nella Vienna di fine Settecento. 22 Anche in quella Francia che ha visto nascere i primi chansonniers e il cui esempio è citato a prova di una presunta (e naturalmente negativa) eccezionalità italiana da Peroni, «Il nostro concerto» , cit., p. 10. Sulla persistenza delle gerarchie culturali nella Francia contemporanea il rimando d’obbligo è al celeberrimo libro di P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto , Bologna, Il Mulino, 1983, 2000. 23 Sempre secondo W. Weber, Music and Dance , cit., p. 146, la nascita dei concerti di musica classica nei primi decenni dell’Ottocento «avvenne in larga parte come reazione a ciò che sarebbe stata chiamata popu-  lar music ». Come ha mostrato P. DiMaggio, anche negli Stati Uniti quello che possiamo considerare come il «modello dell’alta cultura» si è costituito per reazione alla progressiva commercializzazione della vita culturale, compresa quella musicale, attraverso le strategie di distinzione perseguite dalle élite urbane, con la consulenza «estetica» di intellettuali europei o che si erano formati in Europa: cfr. P.J. DiMaggio, Cultural  Entrepreunership in Nineteenth Century Boston , I, The Creation of an Organizational Base for H igh Culture  in America , «Media, Culture and Society», 4, 1982, pp. 33-50. 24 Su questo lavoro intellettuale cfr. anche R. Chartier, Popular Culture: A Concept Revisited , «Intellectual History Newsletter», 15, 1993, pp. 3-13. Il libro che Jon Cruz ha dedicato alla «scoperta» degli spirituals negli Stati Uniti di fine Ottocento è in questo senso esemplare di come una ricerca insieme storica e sociologica sulla musica – e su una musica decisamente non di tipo colto come era quella degli schiavi neri, appunto, una musica «marginale» – possa produrre risultati sorprendentemente ampi, giungendo a mettere in luce (e in discussione) processi e meccanismi di costituzione dello stesso sapere intellettuale e dei suoi metodi. Ciò che Cruz ha scoperto è infatti il nesso profondo che unisce, in un rapporto di causa ed effetto, la ricerca sui canti religiosi neri di metà Ottocento, su basi abolizioniste, e lo sviluppo nei decenni successivi di una intera tradizione di studi culturali, che l’autore chiama «interpretazione culturale americana» ( Culture on  . . . . . . . . . . . . . . . . . . 679 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non è un caso che proprio tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX Middleton individui il secondo momento di rottura, con la crescente internazionalizzazione musicale associata alla nascita dell’egemonia americana (le cui tracce sono ad esempio visibili, per evocare un caso insieme ben noto e che ci riguarda direttamente, nella carriera internazionale di Toscanini, che ai primi del secolo lascia la Scala per il Metropolitan, e che negli Stati Uniti tra le due guerre avrebbe trovato la sua definitiva consacrazione)25. Sono gli anni del ragtime, della scoperta da parte dei bianchi della musica nera, della nascita e della diffusione un po’ ovunque del jazz, delle canzoni di Gerswhin e di Tin Pan Alley, dell’invenzione e della moda dei nuovi balli che fanno «impazzire» le nuove generazioni – come il foxtrot, il charleston e poi lo swing – e soprattutto dello sviluppo di una vera e propria industria discografica e del suo rapporto funzionale con la radio prima e il cinema poi, nuovi mezzi di produzione e di comunicazione che avrebbero cambiato drasticamente la vita musicale, non solo quella po-  pular 26. Da questo momento in poi, come . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 680 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . scrive Middleton, «industria» e «arte» musicali saranno sempre in «conflitto simbiotico», sia nel campo popular  che in quello colto, d’élite. Come vedremo, ciò avrà conseguenze rilevanti sullo sviluppo storico del  jazz, un genere musicale i cui praticanti e appassionati inizieranno almeno dagli anni Quaranta a trasformare in qualcosa di diverso e di più di quella musica «leggera» o (spregiativamente) popular  con cui era identificata. Terzo momento di rottura storica, nel cui orizzonte ancora si può dire viviamo musicalmente, è quello che si svolge nel secondo dopoguerra, e del quale è sintomo più «eclatante» la nascita di quello che verrà chiamato dapprima rock’n’roll  quindi, più semplicemente, rock. Come vedremo, un processo genetico non solo articolato e stratificato, ma anche di non breve durata. È su questi due ultimi momenti di transizione epocale nella storia musicale contemporanea – identificabili grosso modo come l’età del jazz e quella del rock – che la ricerca in questo campo si è soprattutto indirizzata negli ultimi anni, confidando che il prisma musicale potesse gettare luce nuova su . . . . . . . . . . . . . . . . . the Margins. The Black Spiritual and the R ise of the American Cultural Interpretation , Princeton, Princeton . . . . . University Press, 1999). 25 Sul significato sociologico e istituzionale di questo passaggio da Milano a New York mi permetto di rinviare al mio Alla Scala. Cambiamento istituzionale e trasformazioni sociali dell’opera italiana tra Otto e  Novecento, «Polis», 2000, n. 2. Ma sulla fortuna americana di Toscanini, e sul suo culto mediatico (e «popolare»), è fondamentale J. Horowitz, Toscanini , Milano, Mondadori, 1988 [New York, 1987]. 26 Un classico commentatore di questi cambiamenti da un punto di vista modernista, parziale certo ma anche brillante, è stato Adorno, emigrato negli Stati Uniti nel ’38 e lì coinvolto nella grande ricerca sulla radio (e sulla musica radiofonica) diretta dall’austriaco P.F. Lazarsfeld. Di quel lavoro è un documento storico straordinario, anche perché prefigura la successiva analisi dell’industria culturale contenuta nella celebre Dialettica dell’illuminismo scritta con Max Horkheimer, il saggio On Popular Music , del ’41, ora disponibile in edizione italiana a cura di chi scrive (cfr. T.W. Adorno, Sulla popular music , Roma, Armando, 2004), alla cui introduzione rimando per maggiori notizie. Un sintetico ma informato e autorevole profilo storico sull’industria discografica su scala internazionale è offerto da P. Gronow e I. Saunio,  An Internatio-  nal History of the Recording Industry , London-New York, Cassell, 1998. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . processi e istituzioni da tempo indagati (come il nazismo), ma anche con la precisa e consapevole volontà di aprire inedite piste di ricerca privilegiando un aspetto della vita contemporanea nel corso del Novecento divenuto inequivocabilmente più centrale. ■ Razze, nazioni, culture: il jazz e le sue storie Non è un caso che, se c’è un settore della musica popular in cui la storiografia ha edificato qualcosa di consistente, questo è comunque proprio quello del jazz – musica nera che è però anche, da mezzo secolo ormai, la meno «popolare» di tutte le forme storiche ed estetiche di popular music . Abbiamo già accennato all’incursione, alla fine degli anni Cinquanta, in questo campo su cui ancora gravavano forti pregiudizi tra gli storici professionali, di un autore di tutto rispetto come Eric Hobsbawm, pronto a coniugare la sua passione per questa musica (accompagnata peraltro da un atteggiamento piuttosto insofferente nei confronti del neonato rock) con le esigenze della (allora) nuova storia «dal basso»27. Peraltro, la sua storia sociale del jazz poteva già allora contare su una ricca messe di studi, anche di carattere storico, opera di critici musicali preparati, i cui celebrati lavori sin dagli anni Trenta avrebbero dato vita a una vera e propria «storia ufficiale del jazz», una «tradizione jazz», alla cui decostruzione storiografica, sulla scorta di suggestioni post-strutturaliste (alla Hayden White, per intenderci), ha dedicato un articolo per molti aspetti esemplare uno dei migliori studiosi del jazz in circolazione28, autore tra l’altro di una acclamata «storia sociale e musicale» sulla nascita del be-bop: lo stile con cui il jazz avrebbe smesso i panni del semplice intrattenimento commerciale per iniziare il suo cammino nel mondo dell’arte, sino a essere riconosciuto, secondo una formula citatissima, come la «musica classica dell’America», patrimonio nazionale da tutelare e promuovere con fondi pubblici. Il solido, intelligente e documentato studio che De Vaux ha dedicato all’emergere di questo stile mostrando peraltro le sue continuità con il precedente swing – che era poi un intero sistema culturale ed economico – e interpretandolo come risultato di precise strategie di professionalizzazione perseguite da alcuni musicisti neri (primo fra tutti Coleman Hawkins) negli anni della guerra 29, è una delle prove più brillanti di questa giovane storiografia americana sul jazz, spesso esito di tesi di dottorato discusse in prestigiose università sotto la guida di qualche autorevole storico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 681 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.J. Hobsbawm, Storia sociale del jazz , cit. S. De Vaux, Constructing the Jazz Tradition: Jazz Historiography , «Black American Literature Forum», 25, 1991, n. 3, pp. 525-60. Secondo De Vaux questa sorta di storiografia ufficiale del jazz è insieme sintomo e causa della sua accettazione, nell’università e nella società nel suo complesso, come musica d’arte. A questo approccio celebrativo, che altro non è se non un’ideologia (sotto forma di narrazione) del jazz come oggetto estetico, l’autore invita a sostituire un approccio «più attento a questioni di specificità storica» (p. 553). 29 S. De Vaux, The Birth of Bebop. A Social and Musical History , Berkeley, University of California Press, 1997. Una solida ricostruzione del mondo delle big band  dello swing nel contesto della storia culturale e sociale americana tra le due guerre è quella di L.E. Erenberg, Swingin’ the Dream. Big Band Jazz and the  Rebirth of American Culture , Chicago, University of Chicago Press, 1998. 27 28 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . È il caso del già citato Levine, che sviluppando le sue già ricordate ricerche sull’emersione negli Stati Uniti della gerarchia (eurocentrica) cultura alta/cultura bassa, e quelle ancora precedenti sulla cultura nera americana tra sette ed ottocento, ha suggerito come la vicenda dei rapporti tra jazz e «cultura» – intendendo questa, esplicitamente, come quella particolare costruzione simbolica e discorsiva che è la cultura cosiddetta «alta», quella insomma con la C maiuscola – siano stati tali da trasformare nel corso del Novecento e negli Stati Uniti non solo e non tanto il jazz in una forma d’arte, ma anche e soprattutto il «nostro [cioè americano] senso dell’arte e della cultura»30. Il tema della forza sociale del jazz – se vogliamo, del jazz come agente di storia – è peraltro anche al centro di due ampi studi dedicati alle fortune di questa musica nera nella vecchia Europa. Basandosi su una mole notevole di fonti archivistiche oltre che di interviste a protagonisti di quegli anni, in Different Drummers. Jazz in the  Culture of Nazi Germany 31, Michael H. Kater – già noto come storico sociale del nazismo32 – ha ricostruito minuziosamen. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 682 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . te la vicenda dello swing nel Terzo Reich, documentando con rigore la sua sopravvivenza nonostante la politica ufficiale di censura e di proibizione nei confronti di una musica «degenerata», perché di origine nera e suonata da ebrei o americani. Risultato tanto più rilevante poiché Kater ne mostra al contempo il progressivo costituirsi, almeno in alcune cerchie, a simbolo di libertà e di resistenza nei confronti del regime. Importato in Germania alla fine della prima guerra mondiale, dopo che era già arrivato in Francia e in Inghilterra, il jazz nel Terzo Reich si è rivelato un’arte elastica, capace di recupero (resilient ). A causa della imperfezione dei controlli, delle migliorate condizioni economiche dopo la depressione, e della centralità di Berlino, che ostentatamente ha ospitato le Olimpiadi del 1936, questa musica ha continuato non solo ad esistere, ma a fiorire in Germania dopo il 1933 sino agli inizi della guerra (p. 57). A consentire questa persistenza, non fu solo la tenacia e l’apprezzamento estetico di musicisti e anche musicologi (come noto, tra questi non vi era però Adorno, la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L.W. Levine, Jazz and American Culture , «Journal of American Folklore», 102, 1989, n. 403, p. 18. Ma vedi anche, dello stesso, Black Culture and Black Consciousness: Afro-American Thought from Slavery to Free-  dom , New York, Oxford University Press, 1977. Nasce dalla «scuola» di Levine, come quello di De Vaux, anche il libro di B.W. Peretti, The Creation of Jazz. Music, Race and Culture in Urban America , Chicago, University of Chicago, 1992. Di taglio più esplicitamente sociologico (ma anch’esso esito di una tesi di PhD) è invece P. Lopes, The Rise of a Jazz Art World , Cambridge, Cambridge University Press, 2003, che applica alla vicenda (artistica) del jazz la teoria sociologica dei mondi dell’arte di H.S. Becker ( Mondi dell’arte , Bologna, Il Mulino, 2004 [Berkeley, 1982]). 31 New York, Oxford University Press, 1992. Il libro è il primo di una trilogia sulla musica nel Terzo Reich, che oggi include The Twisted Muse. Musicians and their Music in the Third Reich , Oxford, Oxford University Press, 1999, e Composers of the Nazi Era , Oxford, Oxford University Press, 2001. 32 Vedi ad esempio M.H. Kater, The Nazy Party. A Social Profile of Members and Leaders, 1919-1945 , London, Blackwell, 1983. 30 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . cui resistenza estetica e ideologica al jazz in quanto musica triviale era tale da fargli approvare, nonostante fosse ebreo e antinazista, il bando nei suoi confronti) 33, ma alla fine anche la sua strumentalizzazione in quanto musica «popolare» a fini di propaganda da parte di un regime assai meno capace di tenere tutto sotto controllo di quanto non dica una certa storiografia 34. Allo stesso periodo cruciale, ma questa volta focalizzandosi sul caso radicalmente diverso della Francia è invece dedicato il recentissimo libro di Jeffrey H. Jackson, Making Jazz French: Music and Modern  Life in Interwar Paris 35. Se il fuoco è qui sul- la ricezione del jazz in una Francia non solo risparmiata dalla dittatura ma anche meta di numerosi afroamericani sin dal primo dopoguerra, il suo interesse sta però soprattutto nella dimostrazione che è impossibile comprendere il jazz, questa musica americana per eccellenza, senza prestare attenzione al fitto intreccio di scambi internazionali che hanno storicamente segnato la sua vicenda. E questo non solo perché i musicisti e gli appassionati francesi «hanno alterato il significato e la percezione del jazz» – in particolare associandolo con il primitivismo africano oltre che con il modernismo americano (che non tutti gradivano), e leggendolo romanticamente come un ritorno a quel mondo contadino francese che stava scomparendo – ma anche perché i nuovi significati acquisiti in Francia hanno poi influenzato la stessa percezione del jazz negli Stati Uniti – compresa quella costruzione di una jazz tradition di cui parla De Vaux (non a caso, Hugues Panassié, fondatore e guida del celebre Hot Club de France a cui si deve gran parte della storia francese del jazz e non solo, è anche l’autore del primo serio tentativo di definizione di questa nuova musica, il libro Le Jazz Hot , prontamente tradotto in inglese nel 1936, e collocato da De Vaux all’inizio della storiografia jazz) 36. Mentre la ricostruzione dei conflitti tra i diversi quartieri che incarnavano la scena musicale parigina negli anni Venti – Mont- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 683 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’atteggiamento critico verso il jazz di Adorno, le cui motivazioni sono sicuramente più complesse di quanto Kater lascia intendere, non sarebbe cambiato neppure in esilio, e avrebbe costituito una sorta di leitmotiv  della sua critica sociale della musica. Vedi J. Bradford Robinson, The Jazz Essays of Theodor   Adorno: Some Thoughts on Jazz Reception in Weimar Germany , «Popular Music», 13, 1994, n. 1, pp. 1-25; E. Wilcock, Adorno, Jazz and Racism: «Uber Jazz» and the 1934-1937 British Jazz Debate , «Telos», 107, 1996, pp. 63-80. 34 Come riconosce non nel libro, ma in un articolo che lo precede, Kater sviluppa qui note (e provocatorie) suggestioni originariamente avanzate da Detlev Peukert con la sua «storia della vita quotidiana» del Terzo Reich, che anche nell’ambigua cultura tedesca dello swing aveva individuato uno dei tanti paradossi lasciati irrisolti dalla storiografia più tradizionale. Vedi D. Peukert, Storia sociale del Terzo Reich , Firenze, Sansoni 1989 [1982]; M.H. Kater, Forbidden Fruit? Jazz in the Third Reich , «The American Historical Review», 94, 1989, n. 1 (suppl.), pp. 12-13. 35 Durham, Duke University Press, 2003. Ma vedi anche J.H. Jakson, Making Jazz French: The Reception of  Jazz Music in Paris, 1927-1934 , «French Historical Studies», 25, 2002, n. 1, pp. 149-170. 36 Vale la pena notare che secondo il critico Adriano Mazzoletti, autore di quello che è ad oggi la più completa e documentata ricostruzione storica del jazz in Italia, ciò che «mancò al jazz italiano furono i critici, gli animatori, i promotori che furono così attivi in altre nazioni europee, soprattutto Francia e Belgio. L’Italia non ebbe nella stessa epoca i suoi Panassié o Goffin» ( Il jazz in Italia. Dalle origine alle grandi  orchestre , Torino, Edt, 2004, p. 170). 33 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . martre alto, Montmartre basso, Montparnasse, ciascuno specializzato nell’offerta di un genere musicale – offre spunti anche per una lettura insieme storica e sociale del mutevole status  simbolico goduto dalla stessa chanson (che non è affatto quella forma culturale stabile e definitivamente legittimata che una certa retorica diffusa nel nostro paese lascia credere) 37 – la tesi della «francesizzazione» del jazz, della sua appropriazione e trasformazione in una struttura simbolica locale mostra quanto proficua possa essere, anche in campo musicale, una chiave di lettura della modernità come quella sviluppata dall’antropologo Arjun Appadurai, capace di articolare la globalizzazione in termini più complessi (e transnazionali) di quelli suggeriti da idee diffuse nel discorso storiografico come quelle dell’imperialismo culturale o della americanizzazione38. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 684 . . . . . . . . . . . . . . ■ Adolescenza, sessualità, guerra fredda: nascita e diffusione del rock Se nel caso del jazz la storiografia è già da tempo di casa, in quello del rock il contributo degli storici è ancora decisamente agli inizi39. Vi sono diversi contributi su quelli che sono considerati i prodromi del rock nella cultura (non solo musicale) americana – in realtà esperienze musicali in sé compiute e relativamente ancora ben radicate come il blues, il country, il bluegrass o la canzone politica40 – ma il rock è ancora soprattutto appannaggio della sociologia e – almeno per il periodo più recente, con un fuoco privilegiato dagli anni Settanta in poi – di quella corrente interdisciplinare che sono i cultural studies (da cui i popular mu-  sic studies sono un aspetto)41. Ciò detto, occorre però anche avvertire che gli studi sul rock scontano inevitabilmente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sulle alterne vicende della chanson posso qui solo rimandare al recente P. Hawkins, Chanson: The French  Singer-Songwriter from Aristide Bruant to the Present Day , Alderhsot, Ashgate, 2000. Ma vedi anche, con specifico riferimento ai rapporti di conflitto e contaminazione tra chanson – intesa come mito nazionale – e culture musicali anglosassoni, D.L. Looseley, Popular Music in Contemporary France. Authenticity, Politics, Debate , Oxford, Berg, 2003. 38 A. Appadurai, Modernità in polvere , Roma, Meltemi, 2001. Per il periodo successivo a quello trattato nel libro di Jackson cfr. L. Tournès, La popularisation du jazz en France (1948-1960): les prodromes d’une  massification des pratiques musicales , «Revue Historique», 617, 2001. 39 Ciò non significa che non ci siano studi anche di respiro sulla storia del rock: oltre a C. Belz, Storia del  rock , Milano, Mondadori, 1975 [Oxford, 1969], possiamo qui ricordare almeno il recente Rock and Roll: A  Social History , di Paul Friedlander (Boulder., Co., Westview, 1996). Ma si tratta, come si può intuire, di lavori di taglio più enciclopedico e in fondo giornalistico che non di ricerca storiografica. È tuttavia da segnalare il recente volume di G.C. Altschuler, All Shook Up: How Rock’n’roll Changed America , New York, Oxford Up, 2003, che avrebbe certo meritato, se ci fosse stato lo spazio, di essere discusso in queste pagine. 40 Vedi ad esempio R. Cantwell, Bluegrass Breakdown. The Making of the Old Southern Sound , Chicago, University of Illinois Press, 1984; R. Liebermann, «My Song Is My Weapon». People’s Songs, American Com-  munism, and the Politics of Culture, 1930-1950 , Chicago, University of Illinois Press 1989. Ma sulla canzone politica americana vedi anche A. Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America. Il mito di Woody  Guthrie , Roma, DeriveApprodi, 2004 (che è però la riedizione, con altro titolo, di un libro del 1975). 41 Tra i molti titoli, segnalo qui almeno quello di I. Chambers, Ritmi urbani , Genova, Costa & Nolan, 1996 [Basingstoke, 1985], e recentemente riedito con una nuova prefazione (Roma, Arcana, 2003). 37 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . la pluralità di significati attribuiti nel tempo e sempre attribuibili a questa etichetta non solo da parte di musicisti, discografici e fan, ma anche di giornalisti, critici e studiosi, che viene utilizzata più o meno a ragione per indicare stili e forme estetiche anche molto differenti (e in continua evoluzione), e che alcuni fanno coincidere addirittura con la popular music  stessa. Ma dovrebbe forse leggersi tutto ciò, più che come un freno al suo studio, come una spia della ricchezza straordinaria di un fenomeno storico alla cui formazione hanno contribuito molteplici fattori di vario ordine (economico, politico, demografico, oltre che strettamente musicale), che nel corso del tempo si è intrecciato con molteplici aspetti della vita sociale (dalla politica alla sessualità) e il cui successo e la cui diffusione su scala mondiale lo ha associato di volta in volta con valori, significati, paure, e strategie diverse e non generalizzabili. Nell’impossibilità di rendere qui conto di una simile complessità e variabilità, ho scelto di concentrarmi su due recenti studi che mi sembrano significativi del lavoro in corso. Il primo è un esempio di quella che possiamo chiamare sociologia storica del rock42. Si tratta di una ricerca (tuttora in corso) del sociologo americano William T. Bielby su un campione di soggetti della prima generazione che ha vissuto il rock and roll, e che vivevano allora (cioè tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta) in quartieri operai della periferia di Chicago, un’area mista sotto il profilo razziale ma fortemente segregata43. Si tratta dunque – benché l’autore non usi questa formula – di una ricerca di storia orale, su individui che erano adolescenti ai tempi della nascita del rock, e che hanno partecipato alla sua diffusione come musicisti amatoriali ( gras-  sroots musicians ), spettatori di esibizioni, o addetti al settore musicale (negozi, locali ecc.). Tra gli interrogativi che Bielby pone è: perché la banda rock and roll è emersa e si è istituzionalizzata sin dall’inizio, cioè quando non esistevano ancora convenzioni né pratiche consolidate, come una forma culturale maschile, quando tutte le cono- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 685 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A questo filone appartiene anche il sostanzioso lavoro di P.H. Ennis, The Seventh Stream. The Emergence  of Rock’n’roll in American Popular Music , Hannover, Wesleyan Press, 1992, che ha ricostruito l’avvento del rock come risultato di una trama complessa di forze insieme musicali, culturali e sociali a partire da sei «correnti musicali», che l’autore identifica come pop bianco, pop nero, country pop, gospel, jazz e folk. (Una corrente musicale, nel linguaggio di Ennis, è una forma culturale complessa ma dalla struttura flessibile composta di tre elementi, distinti e però interconnessi: un sistema artistico, un sistema economico e un insieme più o meno ampio di movimenti sociali. Con questo apparato concettuale, Ennis cerca di salvaguardare qualcosa che spesso viene meno nelle costruzioni del sociologo, e cioè la contingenza storica). È però a Richard Peterson che si deve quella che è probabilmente l’interpretazione sociologica più influente della nascita del rock. La sua è una ricostruzione insieme storica e analitica dell’avvento di questo genere dai confini incerti, convenzionalmente posta a metà degli anni cinquanta, a partire da un’analisi dettagliata dei fattori istituzionali, professionali, legali e tecnologici ( Why 1955? Explaining the Advent of Rock Music , «Popular Music», 9, 1990, n. 1, pp. 97-116). In entrambi i casi, a essere fortemente ridimensionata, contro una diffusa interpretazione, è l’influenza di una qualche personalità artistica eccezionale (leggi Elvis Presley) e del cambiamento nella struttura demografica e quindi nel pubblico (il baby-boom ). 43 W.T. Bielby, Rock in a Hard Place: Grassroots Cultural Production in the Post-Elvis Era , «American Sociological Review», 69, 2004, pp. 1-13. L’articolo – che riproduce il Presidential Address dell’American Sociological Association dell’anno precedente – è un’anticipazione dei risultati della ricerca in corso. 42 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . scenze a disposizione mostrano che prima dell’esplosione del rock a metà anni Cinquanta, la produzione di popular music non mostrava segni di dominanza maschile, e che ricerche famose, condotte proprio a Chicago44, anche dopo l’avvento del rock, dimostrano che le ragazze avevano tassi sistematicamente più alti di partecipazione alla cultura popular  dei maschi (ad esempio, come ascoltatrici di musica)? La risposta apparentemente più plausibile è quella, ben nota, che fa leva sulla ribellione adolescenziale maschile come cifra mitica della nascita del rock’n’roll, rappresentata originariamente e diffusa ovunque da film come Rebel Without a Cause  e impersonata nelle sue prime comparse televisive da Elvis Presley. Al contrario, prosegue questa spiegazione, le adolescenti erano più coinvolte nella cultura popular ma anche meno ribelli: erano così attratte da musiche più leggere, spesso con accompagnamento orchestrale, e con temi romantici. Purtroppo, questa spiegazione – che è stata spesso accettata anche dalla sociologia – contraddice dati raccolti in quegli anni, che mostrano che il rock and roll era lo stile musicale preferito anche dalle ragazze (almeno nella stessa misura dei ragazzi), e che all’apice del successo di Presley, il cantante più popolare per entrambi i generi era Pat Boone, cioè quello meno ribelle e più gradito ai genitori. Ciò che manca in questa spiegazione, sostiene Bielby – del tutto in linea con quella che è una delle strategie esplicative più . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 686 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . consolidate nell’attuale sociologia della cultura – è un’attenzione per l’organizzazione sociale delle scuole di allora e per come questa si intersecava con le scelte di vita degli adolescenti. In breve, la tesi del sociologo americano è che il rock’n’roll abbia costituito per quegli adolescenti una via di acquisizione dello status  nel gruppo dei pari alternativa a quella delle attività sportive, organizzate e sanzionate dalla scuola, e che esponeva soprattutto i maschi a un sistema di valori centrato sulla competizione e la gerarchia. Dimostrare competenza nel rock – una musica che per la prima volta poteva suonarsi con bassi costi e da autodidatti, e il cui codice culturale poteva apprendersi dalla radio e dalla televisione – era un modo per chi non riusciva nello sport di guadagnare lo stesso tipo di accettazione tra pari di chi era atleticamente competente. A fare la differenza tra maschi e femmine era però il diverso statuto istituzionale della partecipazione al rock e allo sport: se il secondo era infatti ben integrato nel sistema istituzionale scolastico, il primo era invece completamente separato e autonomo, non solo dalla scuola ma anche dal controllo, mediato e diretto, dei genitori: e questo – come sembrano dimostrare le interviste – è stato un fattore che ha tagliato fuori le ragazze dalla scena rock sin dagli inizi. Quello che sembra sottovalutare però Bielby è proprio la forza dei significati sessuali incorporati nel rock – anche grazie a sapienti operazioni di marketing – sin dalla sua nascita, come ha dimostrato la storica . . . . . . . . . . . . . . . . . J. Coleman, The Adolescent Society , New York, The Free Press, 1961. L’interesse del lavoro di Bielby sta dunque anche nel suo recupero, come fonte storica , di (peraltro celebri) ricerche sociologiche. 44 . . . . . . . . . . . Uta G. Poger studiando i primi tempi del rock’n’roll non in America ma nella Germania divisa dell’immediato dopoguerra 45. Qui non solo il rock venne interpretato, al suo arrivo, come un pericoloso fattore di «sessualizzazione delle quindicenni» (secondo un commento dell’epoca), ma venne immediatamente politicizzato come una minaccia alle norme tradizionali di genere, e in particolare di rispettabilità femminile e di mascolinità, che le autorità delle due Germanie avevano messo al centro dei propri progetti di ricostruzione. Una minaccia, tra l’altro, resa ancora più grave dal fatto che questa sessualità sfrenata si associava, agli occhi dei commentatori e dei funzionari tedeschi e diversamente che negli Stati Uniti, alla negritudine, simbolo di alterità razziale. A essere minacciata era insomma, ancora una volta, l’identità nazionale tedesca. I fan del rock and roll erano quindi doppiamente trasgressori, dei confini di genere e di quelli di razza. Al di là della loro consapevolezza, nella misura in cui potevano produrre cambiamenti sociali, le loro azioni e presenze erano per ciò stesso politiche, e come tali venivano spesso lette dalle autorità. Non era naturalmente questa la prima volta che la cultura popular americana appariva sovversiva in Germania: il caso del jazz già visto, ed esaminato anche dall’autrice, ne è una prova. Ma come il Terzo Reich non riuscì a impedire al jazz di resistere e anzi di fiorire nonostante la censura, così anche il rock non venne fermato. E in questa sua diffusione, da un certo momento in poi istituzionalmente favorita per i suoi nessi con l’espansione di una cultura del consumo nella Germania dell’Ovest, esso venne però alterato, «addomesticato» dice l’autrice, attraverso il lavoro congiunto di intellettuali e politici liberali (come Ludwig Erhard, ad esempio, o il sociologo Helmut Schelsky), tra l’altro facendo ricorso a teorie psicologiche – come quella della «generazione scettica»46 – per spiegare la ribellione adolescenziale che si esprimeva nel rock. Depoliticizzato, reso una forma culturale «privata» e sostanzialmente neutrale, il rock and roll poté integrarsi nella cultura degli adolescenti, non più solo di classe operaia ma anche di classe media e medio-alta, perdendo sempre più i suoi riferimenti razziali e producendo uno slittamento di significato del termine teenager , originariamente importato per indicare le fan di Presley, ma dal 1957 in poi divenuto una semplice etichetta valida per tutte i giovani indipendentemente dalla loro appartenenza di classe 47. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 687 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . U.G. Poger, Jazz, Rock and Rebels: Cold War Politics and American Culture in a Divided Germany , Berkeley, University of California Press. Ma vedi anche, della stessa, Rock’n’Roll, Female Sexuality, and the Cold  War Battle over German Identities , «The Journal of Modern History», 68, 1996, n. 3, pp. 577-616, e per un riferimento ormai classico sulla questione, da un punto di vista sociologico, S. Frith e A. McRobbie, Rock  and Sexuality , «Screen Education», 29, 1978, pp. 3-19. 46 H. Schelsky, Die skeptische Generation. Eine Soziologie der deutschen Jugend , Duesseldorf, Eugen Diederichs Verlag, 1963. 47 Quanto diversa possa essere la storia del rock nei paesi in via di sviluppo è dimostrato dalla sua traiettoria in Messico, dove è stato interpretato e accolto alla fine degli anni Cinquanta come una metafora della modernità e del progresso della classe media, per divenire nel corso del decennio successivo un significativo veicolo di ribellione giovanile e di protesta contro gli eccessi di quella stessa modernità: vedi E. Zolov, Refried Elvis. The Rise of the Mex ican Counterculture , Berkeley, University of California Press, 1999. 45 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nella Germania dell’Est, dove ancora negli anni Cinquanta, il jazz poteva essere attaccato come «decadente» e deviante – nonostante la sua origine nera, e quindi in una comunità repressa, costituisse un merito per l’ideologia comunista – il rock avrebbe incontrato sempre ostacoli alla sua diffusione, possibile solo se regolamentata, e non avrebbe mai perso la sua aura politica. Anche qui – come in tutti i paesi del blocco comunista48 – il rock sarebbe stato addomesticato, tramite forme di patronato di stato generalmente accettate dai musicisti. Ma, anche così regolamentato e di fatto integrato nel regime, esso pare che abbia comunque svolto un ruolo significativo, attraverso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . i musicisti meno allineati e i loro fan, e questi con le loro tante più o meno efficaci azioni di opposizione e sfida al regime, o anche solo con la costruzione e la propagazione di un discorso centrato sui valori della solidarietà, nelle lotte politiche che avrebbero infine portato alla caduta del Muro 49. Del resto, che la popular music , che le canzoni, possano essere agenti di storia si sa. Allo storico il compito di documentare, di raccontare, di discutere criticamente e se possibile di spiegare come questo avvenga, usando le sue competenze e le sue sensibilità, ma certo anche mettendo a frutto le tecniche, gli approcci e i risultati delle molte discipline che operano in questo campo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 688 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Per uno sguardo panoramico, in prospettiva storica, può vedersi T.W. Ryback, Rock Around the Bloc: A  History of Rock Music in Eastern Europe and the Soviet Union , Oxford, Oxford University Press, 1990. 49 È questa la tesi di P. Wicke, una delle autorità nel campo dei popular music studies , da lui argomentata in più luoghi, tra cui The Role of Rock Music in the Political Disintegration of East Germany , in J. Lull (a cura di), Popular Music and Communication , London, Sage 1992 2. Ma vedi anche le riflessioni critiche di J. Pekacz, Did Rock Smash the Wall? The Role of Rock in Political Transition , «Popular Music», 13, 1994, n. 1, 48 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pp. 41-49. . . . . . .