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Religioni E Filosofie Dell'asia Orientale

Appunti di Religioni e filosofie dell'Asia Orientale (UniTO), 2017/2018.

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  Buddhismo antico martedì 19 settembre 2017 12:09 La discriminante fra tradizioni buddhiste e tradizioni precedenti, soprattutto di tipo vedico, sta nel trattamento dell' atman  - con cui il gruppo di testi noto come Upanishad indica una realtà del sé misteriosa, inafferrabile, qualcuno che vede e sente e conosce senza essere visto, sentito o conosciuto, coincidendo con la parte immortale dell'essere umano. Del sé le Upanishad parlano quindi con termini vaghi, opachi e di segno negativo, eppure lo pensano come il sé immutabile e indistruttibile dell'uomo che sta alla base di ogni esperienza o pensiero, senza esserne toccato; e non essendo toccato neanche dal dolore, la soluzione delle Upanishad alla sofferenza è quella di diventare consapevole di tale atman - che viene a sovrapporsi al Brahma , il fondamento dell'universo intero -, identificandovisi. Alcune scuole pensano poi che l'atman sia unico, altre che sia plurale, però tutte concordano fra loro su questa concettualizzazione di Io identico a se stesso, l'essenza eterna dell'uomo al di là della sofferenza e del cambiamento. La nozione di atman viene però intesa come inadeguata dal buddhismo antico, che la crede scorretta e illusoria, fondata su premesse discutibili o su usi contingenti - ad esempio l'uso dei pronome di prima persona, che fa credere che vi sia qualcosa di sostanziale al di sotto dell'esperienza e del mutamento; l'identità in questo caso avrebbe natura meramente linguistica, non coincidente con la realtà delle cose. Il buddhismo, specie all'interno del contesto Abhidharma - una delle tre parti fondamentali del canone buddhista, i commentari ai sutra -, cerca invece di analizzare l'esperienza dell'Io come un aggregato, non un'entità unica e monolitica, un insieme di diverse componenti fisici e mentali, gli skandha : l'Io non è che un composto psicofisico di rupa (in giapponese shiki  ), o materia/forma - tutto ciò che ha una forma, quindi i sensi e il mondo fisico -, e di naman , ovvero la risposta mentale agli stimoli del mondo esterno; le esperienze toccano l'uomo e provocano sensazioni   e sentimenti  , che vengono poi classificati dall'Io diventando delle vere e proprie esperienze , che a loro volta provocano desideri, volontà , tendenze, fino a costituire un' autocoscienza  di base, in cui il soggetto percepisce se stesso in quanto tale sulla base di tali esperienze e volontà. Per l'Abhidharma non vi è un individuo dietro tutto questo processo, che è totalmente impersonale; lo stato autoriflessivo della coscienza ha per fondamento questo suo sviluppo impersonale, appunto. Non esiste un controllore degli aggregati. Non abbiamo un controllo sul corpo e sulla mente, per l'Abhidharma: una volta che nasciamo, tutti quanti cresciamo indipendentemente da ciò che vogliamo - invecchiando, ammalandoci e morendo -, e non siamo neanche in grado di governare i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri desideri e stati mentali. Un argomento importante che l'Abhidharma spende contro l'idea del controllo di sé - contro il sé in generale - riguarda il problema fondamentale del buddhismo, il tema della sofferenza e dell'impermanenza: se cerchiamo di afferrare qualcosa che inevitabilmente cambia giorno dopo giorno, noi soffriamo - è come se cercassimo di tenere stretta una manciata di sabbia, facendola sfuggire tanto più velocemente quanto più stringiamo la presa; l'impermanenza delle cose non può essere arrestata, e non è possibile sfuggirvi rifugiandosi in una dimensione che si ritiene non cambiare mai, come invece fanno le Upanishad   con l'idea di atman immortale, un riparo dal mutamento e dalla sofferenza. Buddha controbatte all'idea delle Upanishad affermando: questo non è mio, io non sono questo, questo non sono io.  Il sé non significa propria nulla a prescindere dalle esperienze particolari che l'io teoricamente farebbe, perché esistono solo le esperienze, e nulla vi si può aggiungere, neanche un Io. L'Abhidharma sostiene che nessuna delle possibili relazioni fra soggetto ed esperienza è coerente: un sé permanente che coincide con l'esperienza impermanente comporta una contraddizione di base; un sé distaccato dall'esperienza comporta il problema di riconciliare queste due cose, e stabilire com'è possibile che il sé eterno abbia delle esperienze; e allo stesso modo un sé che ha l'esperienza come attributo dovrebbe essere distinto dall'esperienza stessa, ed è impossibile perché non possiamo immaginare qualcosa che non abbia esperienze; io ed esperienza vanno sempre di pari passo, ma è l'esperienza che genera l'io in quanto autopercezione. Al di là degli stati mentali, non esiste un io costante che ha le esperienze della realtà e degli stati mentali; esiste solo la realtà, esistono solo gli stati mentali. Per il buddhismo antico, il fatto che l'atman delle Upanishad sia misterioso e inspiegabile è semplicemente dovuto alla sua inesistenza, al di là  del flusso di fenomeni fisici e psichici che non ha nulla dietro di sé. L'atman è solo un nome, che ha un significato dal punto di vista pratico, e magari anche da quello logico, emotivo e sociale, ma non è una realtà immutabile dal punto di vista ontologico o metafisico; è un'etichetta che indica - per comodità - la connessione fra i vari processi psicofisici che interagiscono fra loro fino a far emergere l'autocoscienza. Un testo molto antico, il Milindapanha , narra di un monaco di nome Nagasena che incontra il re Milinda - da cui il nome del testo -, che altro non sarebbe che il re greco Menandro: presentandosi al re, Nagasena precisa subito che il suo nome è solo un'etichetta senza niente dietro di sé - in una posizione fortemente nominalista -, e quando il re gli fa notare che non ha senso ciò che dice, Nagasena chiede che cos'è il carro con cui è arrivato al palazzo - al che il re è portato ad ammettere che il carro è solo un nome utile per indicare un insieme di elementi, non una realtà fissa, costante e unitaria; le parole sono utili a raccogliere, selezionare, semplificare fattori complessi in una specie di stenografia mentale, ma questo ci induce a dimenticare la complessità che sta dietro i nomi, tutta la lunga e intricata storia che vi si nasconde, influenzando il nostro modo di organizzare le esperienze. Il linguaggio ci spinge allora a pensare che vi sia un sé dietro le esperienze, che le riceve e le coordina assieme. Eppure il buddhismo non è nichilista, non dice che non vi è proprio nulla - la posizione uccheda  -, perché non si tratta di scegliere fra due alternative estreme, bensì di notare come punto focale la connessione e la relazione fra i fattori dell'esperienza e fra le diverse esperienze; questa relazione esiste veramente, ed è il frutto di connessioni che non hanno bisogno di qualcosa di aggiuntivo rispetto ad esse, un sostrato che le tenga assieme come sono tenuti assieme i ricordi nella continuità identitaria di una persona. Esiste dunque una terza posizione fra eternalismo  e annichilazionismo , fra l'esistenza e l'inesistenza sostanziale di tutte le cose: solo le connessioni causali esistono, e la continuità personale dell'io è data solo da questa connessione causale contingente. Una critica tradizionale mossa a questa visione delle cose è l'interpretazione della memoria: cosa collega gli eventi del passato agli eventi del futuro? Un'altra riguarda invece il ruolo della rinascita, un background vedico che il buddhismo antico mantiene, ma che sembra impossibile da riconciliare con l'inesistenza di un'anima immortale che possa di volta in volta rinascere. E ancora, spesso la tradizione ha attaccato la posizione buddhista dal punto di vista etico, perché la responsabilità personale salterebbe totalmente se si parte dal presupposto che non esiste un sé immutabile - il crimine è determinato dalle circostanze, e comunque il colpevole non è già più colpevole, è già cambiato un momento dopo. Il sé evanescente spoglia inoltre di ogni senso la vita, cadendo nel nichilismo propriamente detto, ovvero l'assenza di valori, direzioni e fondamenti. Tutte queste obiezioni tendono però a dimenticare il fatto che il buddhismo non è tendente alla negazione di tutto - ovvero alla posizione annichilazionista -, bensì a sottolineare la relazione fra il sé contingente e la realtà, il passato e il futuro, in un approccio che non manca di affermazioni positive. La catena particolare a cui diamo il nome di Io e i dharma - nel senso di eventi reali - non avvengano a caso, ma sono il frutto di una relazione profonda di tipo causale fra gli eventi. È il genere di questa connessione ad essere uno dei punti centrali di tutto il buddhismo, e coincide con la Seconda Nobile Verità, la causa della sofferenza. La concatenazione causale o catena delle concause, ovvero il  pratitya samutpada  (in giapponese engi  , cioè l'insorgere co-dipendente delle cose, in senso non lineare), è uno degli insegnamenti centrali del Buddha storico - pur rimaneggiato in seguito dai commentari Abhidharma -, e connette fra loro dodici anelli causali, o nidana ,   attraverso i quali si sviluppano le catene specifiche di eventi di vita e di coscienza, costituendone uno schema comune. Ogni forma e/o forma di vita - l'interpretazione in India, Cina e Giappone è diversa da questo punto di vista - coincide con una connessione specifica di tali cause, che ha una tendenza innata a riprodursi e stabilizzarsi nel tempo, per poi cambiare e decadere. Da questo punto di vista, non possiamo dire di essere la stessa persona che eravamo quando eravamo bambini, ma fra noi e il bambino che eravamo esiste una relazione di continuità, e questa è il nesso causale che si è perpetuato; non siamo le persone che eravamo, però dipendiamo da tali persone in una catena di cause, e quindi non si tratta né di identità né di differenza, bensì di connessione. Neanche la rinascita può contraddire questo quadro teorico, perché per il buddhismo antico la connessione causale è così potente da andare al di là della morte, dando srcine a un altro individuo, che non è né lo stesso né completamente diverso. La morte non è la fine di una catena, ma solo la fine di una specifica configurazione temporale di eventi generata da tale catena, che però tende a riprodursi anche al di là della morte con la rinascita, riconfigurandosi in altri eventi sulla base di questo impulso a perpetuarsi. Ciò che determina quindi la natura della rinascita è un insieme di eventi etici e mentali, che includono pensieri, parole e azioni,  atteggiamenti e comportamenti. L'identità è sostituita nel buddhismo dalla continuità. Chi muore e poi rinasce non è esattamente uguale né esattamente distinto dalla sua nuova rinascita. Nagasena spiega a Milinda che se una persona rubasse un mango giustificandosi col fatto che il mango rubato non è lo stesso che è stato piantato, si tratterebbe di una pretesa infondata, perché esiste una relazione causale fra i due. Non si può dire che non esiste alcuna responsabilità personale, bensì il contrario: quello che faccio oggi è sì determinato da quello che ho fatto ieri, ma soprattutto determina ciò che farò domani. Il buddhismo non è un modo di fuggire nell'assoluto relativismo, ma piuttosto un modo per superare l'intendimento in un certo senso burocratico per cui un'etichetta è attaccata a una persona una volta per tutte, senza possibilità di scampo, di cambiamento e di miglioramento; l'uomo è troppo complesso e vasto per star dentro ad un codice fiscale. La nozione di anatman va interpretata come una via di mezzo fra l' ucchedavada , o insegnamento del nulla , e il contrario, ovvero il sasvatavada  - l'eternalismo, centrato sull'io immutabile delle Upanishad vediche -, posizioni estreme e discutibili, la prima molle e l'altra rigida; di fronte alla catena delle concause, la prima nega tutto, inclusa la relazione fra gli anelli della catena, mentre l'altra afferma che per spiegare la catena sia necessario aggiungervi una corda che tenga assieme gli anelli - pur essendo questi già di per sé legati -, ovvero il sé eterno. Nel pensiero buddhista si tende a fare una distinzione fra samvrti satya e  paramartha satya , ovvero fra verità convenzionale  e verità ultima , che permette di evitare di negare anche la natura linguistica dell'io assieme alla sua natura sostanziale, di abolire la sua utilità pragmatica e sociale assieme alla sua funzione ontologica. Le parole vanno utilizzate senza che queste a loro volta illudano e confondano chi le usa sulla realtà delle cose. La verità convenzionale è pur sempre una verità, non una falsità - semplicemente è una verità circostanziata, valida solo temporaneamente in un certo contesto, per certe persone e in relazione a determinati obiettivi e progettualità. Dal punto di vista filosofico, la teoria della duplice verità nasce dal presupposto che una cosa è la dimensione comunicativa - limitata, parziale, circoscritta -, un'altra la dimensione ontologica. La traduzione di queste due verità con relativa e assoluta è però inesatta, perché non ritroviamo nulla di equivalente nel canone buddhista: assoluto significa sciolto dai legami , ovvero qualcosa di talmente autosufficiente da non aver bisogno di nulla al di fuori di sé; è quindi un concetto che risulta molto più pertinente per le tradizioni religiose che contano su un Dio creatore ex nihilo , increato, che infonde di sé tutte le cose ma ne rimane distinto, con uno sbilanciamento estremo di valore a suo favore. In ogni caso, non è sufficiente la causa linguistica per spiegare il fenomeno dell'esperienza illusoria dell'io, perché vi è in gioco una ben più profonda tendenza degli esseri umani a distorcere la realtà - l' avidya ( ignoranza ), la trsna ( desiderio )  , l' upadana ( attaccamento ), che generano questa illusione anche linguistica e di conseguenza la sofferenza, il problema pratico che il buddhismo vuole risolvere, non avendo come obiettivo primario la costruzione di una teoria puramente speculativa sulla realtà delle cose, senza risvolti etici o soteriologici, più ancora di quanto sia successo in movimenti filosofici europei come lo stoicismo. L'io nasce dall'ignoranza ed è strettamente legato al desiderio e all'attaccamento. Colui che arriva a realizzare - non solo concettualmente - l'io come aggregato non si attacca più a nulla di ciò che trova nel mondo, e quindi non desidera più, e di conseguenza realizza il nirvana. L'illusione non è quindi, in senso buddhista, qualcosa di simile a un'illusione ottica, che coinvolge soltanto i sensi e l'intelletto; al contrario, l'illusione è fondata per intero sul desiderio esistenziale di affermare alcune parti dell'universo come proprie. Il sé è quindi una costruzione non disincarnata e razionale, bensì qualcosa di complesso, totalizzante e dai fortissimi risvolti emozionali e non solo, perché l'identità può essere solo sostenuta e alimentata - in quanto costrutto semiotico, linguistico - dalla società, dalle altre persone nella stessa comunità: così l'io è in realtà un allontanamento da ciò che effettivamente si è, una riduzione basata su determinati canoni, prototipi e modelli, quindi una semplificazione rispetto alla propria complessità; se fossimo davvero legati a ciò che realmente siamo, allora la nostra persona sarebbe il centro dei discorsi con cui si intesse l'io, mentre in questi quasi sempre ci si nasconde. Per costruire la corazza o maschera dell'io, si cerca da una parte di accumulare determinati possedimenti ed esperienze, dall'altra di difenderli e difendersi dalle molteplici minacce degli altri, affermando se stessi anche con la violenza, se necessario; la risposta sarà emotivamente positiva o negativa sulla base della propria capacità di mettere in atto queste due tendenze opposte, che comunque sono destinate al  deperimento e al fallimento per l'ineluttabilità del cambiamento, dell'invecchiamento, della malattia, della morte. A prescindere da com'è costruita, prima o poi la corazza si incrinerà, si infrangerà e scomparirà. La lotta a cui tutti sono partecipi è una lotta persa in partenza, perché mira a fissare, definire e affermare una volontà che è destinata ad esaurirsi. L'opera ossessiva legata al mantenimento, al rafforzamento e al miglioramento del nostro io è per il buddhismo un'illusione. Questo però non vuol dire che la si neghi semplicemente, facendo il rovescio estremo di ogni possibile progetto di sé, bensì si tratta nuovamente della via di mezzo: lasciar andare l'illusione del sé immortale e immutabile, diventando una persona vera, fondata su questa consapevolezza. Nel Brahmajala sutta , il Buddha parla di una serie di 52 concezioni errate, la grande maggioranza delle quali ha a che fare col sé: ad esempio viene smentita pure la pratica meditativa delle Upanishad  , che cercava di raggiungere uno stato di coscienza più profondo e intangibile, al di là del mutamento; altrove vengono invece forniti alcuni set di domande mal costruite, fissate su una determinata opinione rigida ed estrema - che siano ordinarie o straordinarie non conta -, di cui si è preda fino a generare una giungla soffocante che provoca sofferenza. Nei testi più antichi la catena delle concause - la Seconda Verità - non viene spiegata nei dettagli, viene solo nominata così com'è, e quindi ne possiamo cogliere la complessità solo a partire da testi più recenti, come ad esempio il Visuddhimagga  di Buddhagosa o l'  Abhidharmakosa di Vasubandhu. La catena è composta da 12 anelli ed è fondata sul karman,  ovvero la azione , in senso positivo o in senso negativo, creante dei meriti o dei demeriti - pur procedendo a caso, anche l'uomo cieco può finire per compiere qualche buona azione, e lo stesso vale per l'uomo mosso da avidya (i), il primo anello delle concause: il karma provoca infatti dei risultati e delle ripercussioni nella vita successiva, delle formazioni ( samskara, ii), create appunto dall' avidya , l'ignoranza, o meglio dalla delusione - non una semplice mancanza di conoscenza, bensì la presenza di idee sbagliate della realtà; nel momento in cui veniamo concepiti, per il buddhismo antico già disponiamo di una vijnana (iii), ovvero di una mente condizionata dagli eventi del passato, appartenenti a una certa catena karmica; questa coscienza fa sorgere una certa conformazione psicofisica - o nama - rupa  (iv) - che condiziona, appunto, le nostre esperienze del mondo, il che ci fa sviluppare i sei sensi della coscienza umana (v), ovvero i cinque sensi tradizionali più uno che li unifica, generando sensazioni (vi) e percezioni di piacere, dispiacere o indifferenza (vii), da cui deriva trsna (viii), il desiderio, e l'attaccamento (ix) ad alcune di queste percezioni - strettamente legato, fra l'altro, allo sviluppo della sessualità nell'uomo -; di conseguenza si sviluppa un particolare modo di essere, il bhava (x), che ci porta ad una nuova rinascita (xi) e infine a vecchiaia e morte (xii). I primi due anelli costituiscono la causa passata , passiva; quelli dal terzo al settimo costituiscono il  frutto presente ; gli anelli dall'ottavo al decimo sono invece la causa  presente , attiva; infine quest'ultima genera i due anelli finali, il  frutto futuro.  Ogni fenomeno è dunque parte di un sistema, di una concatenazione complessa. Il buddhismo rifiuta l'idea che tutta la responsabilità di un dato fenomeno dipenda da un singolo fattore o agente, perché è piuttosto la manifestazione di una rete di eventi, dove la causalità non è da intendersi in senso lineare, bensì in senso sistemico: non abbiamo una causa prevedibile, definita, per un certo effetto altrettanto prevedibile e definito, bensì una ragnatela ingarbugliata di cause-effetti ed effetti-cause comunque imprevedibili, senza una determinazione rigida, irrevocabile, capace di fondare una sorta di destino personale e ineluttabile. L'uomo nasce in determinate condizioni e situazioni che non ha scelto, fa esperienze che non ha potuto controllare totalmente, eppure può rispondere a tutto questo - al frutto presente, che è al di là del suo intervento - compiendo delle scelte, agendo e interagendo, e in questo modo può influenzare ciò che sarà di lui. L'unico problema è che, pur cercando di farlo, non riesce ad agire in modo efficace, esercita il proprio libero arbitrio - termine decisamente non buddhista - in maniera cieca e confusa, sulla base di un'idea sbagliata della realtà e dell'uomo entro di essa, perdendosi nelle situazioni quotidiane. L'unico modo che ha di cambiare la sua condizione è agire sull'ignoranza, sull'illusione, il primo anello della catena. Il sé è quindi non una sostanza bensì un aggregato di connessioni causali. Alcuni studiosi dell'Ottocento e del Novecento hanno per questo sostenuto che il buddhismo è nichilista, distruttivo di ogni responsabilità morale; altri invece hanno affermato che non è vero che l' anatman - il non-sé - è centrale nell'insegnamento del Buddha, ma che al contrario è frutto di una costruzione di studiosi successivi, mentre la filosofia buddhista sarebbe sostanzialmente in accordo col suo background induista, con l'idea di un sé che è semplicemente al di là del linguaggio, al di là di ogni espressione, assoluto. Per alcuni dunque il