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Algebra Da Euclide A Al-tusi - Le Scuole Medioevali - Math

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29 LM Storia Mat. 1 - a.a 2014-15 Capitolo II Algebra e Aritmetica nel Medioevo islamico1 Con l’espansione della dominazione araba, fra il VII e il XII secolo, i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo assumono una posizione di grande rilievo non solo dal punto di vista politico, economico e commerciale, ma anche culturale, come principale ponte di trasmissione del sapere teorico e pratico delle civiltà antiche: greca, indiana, babilonese e perfino cinese. Nuove piante e nuovi prodotti, frutto di elaborate tecniche di lavorazione, vengono introdotti in occidente dagli arabi: il cotone, l’arancio, il limone, l’albicocco, il banano, il carciofo, l’asparago, gli spinaci, il cuoio lavorato, i tessuti preziosi, il vetro e i metalli forgiati, l’avorio e il legno intarsiati e si diffonde il processo di fabbricazione della carta con il lino e la canapa. Tramite gli arabi si diffonde in Occidente nel secolo XI anche l’ago magnetico di origine cinese e l’uso della vela “latina” triangolare che permette di navigare contro vento, adottata nel Mediterraneo nel XV secolo. Nell’ambito degli studi scientifici e in particolare del pensiero matematico si assiste al fecondo connubio fra la matematica orientale, indiana e babilonese, e quella occidentale, greco-ellenistica. Dalla prima derivano le conoscenze di aritmetica e di astronomia, il sistema di numerazione posizionale e l’introduzione dello zero, mentre dalla seconda le trattazioni sulla geometria piana e solida, sulle coniche e sui fondamenti logici e filosofici delle scienze. Dopo un primo periodo nel quale predominano i saperi giunti dall’esterno, assimilati gradualmente grazie alle traduzioni, si passa all’elaborazione originale delle conoscenze acquisite nei settori più vari della scienza: dall’aritmetica all’algebra, dalla geometria all’astronomia, dall’ottica alla meccanica, alla medicina, all’ingegneria, all’agricoltura, alla geografia. E proprio per merito delle traduzioni effettuate nei paesi islamici dei testi greci e indiani, e reiterate dall’arabo al latino nella Spagna dei mori, e grazie ai contributi originali degli studiosi musulmani alla scienza, un ricchissimo patrimonio di manoscritti greci e arabi raggiungerà nel Medioevo l’occidente latino e creerà fra il X e il XIII secolo quel travaso di conoscenze e quel substrato culturale che permetterà la ripresa delle attività intellettuali e la rinascita del sapere scientifico, dopo i secoli bui conseguenti alla caduta nel 476 dell’impero romano d’occidente e alle invasioni barbariche. Poiché è soprattutto nel campo dell’algebra e dell’aritmetica che i semi gettati dagli arabi, e trasmessi in Italia dalle opere di Leonardo Fibonacci Pisano, uno dei più acuti interpreti del loro sapere scientifico, daranno i frutti più copiosi, con la scoperta nel Rinascimento della soluzione delle equazioni di terzo e quarto grado, ci soffermiamo principalmente sui contributi dati in questi settori, cercando di delineare le tappe salienti e il ponte culturale attraverso il Mediterraneo costruito dalla civiltà araba. I califfi e la casa della saggezza a Baghdad Com’è noto l’era islamica inizia il primo anno del suo calendario nel 622, quando il profeta Maometto, nato a La Mecca nel 570, compie la celebre fuga, detta Egira (in arabo higra), a Medina. Le tribù guerriere dell’Arabia felix si sono fuse, sotto la sua guida, in un unico popolo, unito dalla fede nella nuova religione da lui predicata, secondo la quale l’uomo deve seguire l’Islam, cioè, dal significato letterale del vocabolo, “sottomettersi totalmente alla volontà di Allah”, il Dio unico. L’abitudine beduina alla razzia viene sublimata al rango di guerra santa (gihad), concepita da Maometto e dai suoi successori, i califfi, anche come mezzo per superare i contrasti interni fra le tribù, e si trasforma presto in volontà di 1 Saggio di C.S. Roero, Algebra e Aritmetica nel Medioevo islamico, in E. Giusti (a cura di) Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano, la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente, Firenze, Giardino di Archimede, 2002, p. 7-43. 30 espansione e di conquista dei territori circostanti. Nel volgere di pochi secoli gli islamici dominano un impero sterminato, i cui confini si estendono dal fiume Indo, in Asia, al fiume Ebro, in Spagna. Fra il 622 e il 945 l’irresistibile avanzata degli arabi procede infatti dall’Asia all’Europa, dal Caucaso ai Pirenei, conquistando la Persia, la Mesopotamia, la Siria, la Palestina, parte del Turkestan, del bacino dell’Indo e del Kirgizistan, l’Afghanistan, l’Egitto, la Cirenaica, la Tripolitania, Creta e la Sicilia, Cipro, l’Africa settentrionale e la Spagna. All’era dei primi califfi detti rashidun, cioè “ben diretti”, fa seguito quella degli Omayyadi che si spingono ad est fino al Tien-Shan, con la vittoria nel 751 a Talas contro i cinesi, mentre altre unità sottomettono nel 710 le tribù del Maghreb e si spingono, alla testa del berbero Tarik ibn Ziyad, oltre lo stretto che porterà il nome di Gibilterra, da Gebel-el-Tarik “la montagna di Tarik”. Dai cinesi gli arabi apprendono le tecniche di fabbricazione della carta e impiantano a Samarcanda e poi a Baghdad le prime fabbriche i cui prodotti saranno importati persino da Bisanzio. È però soprattutto alla dinastia degli Abbasidi che si deve l’alto livello intellettuale e il grande sviluppo delle scienze raggiunto dagli arabi. La matematica che nei secoli VII e VIII era considerata unicamente per la sua utilità nella risoluzione di problemi pratici, sorti dal commercio, dall’architettura, dall’astronomia e in genere legata alle esigenze di vita quotidiana, grazie al mecenatismo dei califfi abbasidi Giafar al-Mansur, Harun al-Rashid e Abdallah al-Mamun2 conosce fra il IX e il XIII secolo un periodo di straordinaria fioritura. Quest’epoca d’oro, densa di risultati originali, decolla in seguito allo studio e all’assimilazione delle opere dei greci, degli indiani e delle culture dei popoli conquistati. Dopo il 750 molti scienziati, filosofi e traduttori dalla Siria, dalla Persia e dalla Mesopotamia sono chiamati a Baghdad, la “città della pace” fondata da al-Mansur con pianta circolare, destinata a diventare la nuova capitale della cultura, la nuova Alessandria. Anche la sua posizione geografica, fra India e Grecia, contribuisce a farne il centro del potere sia politico, che culturale. Fedeli ai dettami di Maometto che aveva collocato gli uomini istruiti “al terzo posto, dopo Dio e gli angeli”, i califfi abbasidi affidavano l’educazione dei loro figli a eruditi, scienziati, poeti e musicisti, persuasi del detto popolare che “istruire l’infanzia è scolpire nella pietra”. Lo storico Masudi narra come Harun al-Rashid avesse scelto per suo figlio il grammatico al-Ahmar, ammonendolo con queste parole: “Il principe dei credenti ti affida il suo sangue più prezioso, il frutto del suo cuore. Ti lascia piena autorità su suo figlio e gli fa un dovere di obbedirti. Sii all’altezza del compito che il califfo ti ha assegnato: insegna al tuo allievo il Corano, fagli conoscere le tradizioni; orna la sua memoria con le poesie classiche; istruiscilo nelle nostre sacre usanze. Che egli misuri le parole e sappia parlare a proposito; regola le ore dei suoi svaghi. Insegnagli ad accogliere con rispetto gli anziani … e a trattare con riguardo i capi che assisteranno ai suoi ricevimenti. Non lasciar passare un’ora della giornata senza trarne profitto per la sua educazione. Non essere né tanto severo da mortificare la sua intelligenza, né tanto indulgente da far sì che si abbandoni alla pigrizia e ci si abitui. Correggilo, per quanto dipenderà da te, usando l’amicizia e la dolcezza, ma se queste non hanno effetto su di lui, usa la severità e il rigore.”3 Lo stesso Harun aveva avuto dal padre Mahdi come pedagogo il famoso intellettuale Kisai e come tutore Yahya il barmecide, uno degli uomini più notevoli e intelligenti che abbiano governato i paesi arabi. Sotto i califfi abbasidi la corte di Baghdad si apre alla cultura e alle raffinatezze e soprattutto Harun tende ad attirare nella sua orbita gli uomini considerati più eminenti nelle scienze, nelle lettere e nella teologia. Questi personaggi di talento, chiamati nadim, “compagni del califfo”, sono ricompensati con elevati stipendi e doni e hanno come 2 3 al-Mansur regna dal 754 al 775, Harun al-Rashid dal 786 al 809 e al-Mamun dal 813 al 833. Clot 1991, pp. 38-39. 31 compito quello di interessarlo e distrarlo. Devono saper insegnare senza pedanteria, saper conversare sui temi più disparati, eccellere nella caccia, nel tiro a segno e nei giochi della palla, degli scacchi, del tric-trac. Uomini e donne con queste qualità frequentano il fastoso palazzo e gli incantevoli giardini, dove i fiori sono disposti in modo da riprodurre famose poesie, gli alberi sono rivestiti di metalli preziosi tempestati di gemme e nei laghetti le ninfee disegnano le lettere di un versetto in gloria del califfo. Si narra che Harun amasse pure circondarsi delle donne non solo più seducenti, ma anche più intelligenti e più dotate nel gioco degli scacchi, nel canto e nella musica. Pare che egli ricompensasse con favolosi doni le giovani schiave del palazzo, che erano le migliori giocatrici di scacchi, e che avesse inviato alcune sue spose e concubine a Medina a imparare nelle famose scuole di musica e avesse incaricato il celebre cantante e poeta Ishak di istruirle. Nelle Mille e una notte troviamo pittoresche descrizioni dell’atmosfera raffinata e colta che si respirava alla corte di Harun alRashid e di al-Mamun: “Quel giardino … si chiamava giardino delle delizie e in mezzo ad esso c’era un palazzo che si chiamava palazzo delle meraviglie ed era di proprietà del califfo Harun al-Rashid. Quando il califfo si sentiva il cuore oppresso veniva in quel giardino e in quel palazzo a cercare sollievo e distrazione… L’intero palazzo era formato da un’unica immensa sala, illuminata da ottanta finestre … quella sala si apriva soltanto quando veniva il califfo. Allora si accendevano tutte le lampade e il grande lampadario centrale e si aprivano tutte le finestre, e il califfo si sedeva sul suo grande divano foderato di seta, di velluto e d’oro, poi ordinava alle sue cantanti di cantare e ai suonatori dei vari strumenti di allietarlo con la loro musica… ed è così che nella calma delle notti e nel dolce tepore dell’aria profumata dai fiori del giardino che al califfo si apriva il cuore, nella città di Baghdad. …Il califfo che amava Ishak di grandissimo amore gli aveva dato come dimora il più bello e il più raffinato dei suoi palazzi. E là Ishak aveva come compito e missione quella di istruire nell’arte del canto e nell’armonia le fanciulle più dotate fra quelle che si acquistavano nel suk delle schiave e sui mercati di tutto il regno per l’harem del califfo. E quando una di esse si distingueva fra le compagne e le superava nell’arte del canto, del liuto e della chitarra, Ishak la conduceva dal califfo e la faceva cantare e suonare davanti a lui. E se piaceva al califfo, la si faceva immediatamente entrare nel suo harem.”4 Queste descrizioni, che potrebbero forse apparire un po’ troppo fantastiche, sono in realtà avvalorate dai resoconti degli ambasciatori inviati a Baghdad per concludere armistizi o per missioni diplomatiche. Basti citare la cronaca del monaco di San Gallo sui doni recati a Carlo Magno dai due dignitari musulmani appartenenti alla corte di Harun al-Rashid e dell’emiro di Kairuan, Ibrahim b. Aghlab: scimmie, balsami, unguenti, profumi, spezie e medicinali di ogni sorta “in quantità tale che pareva avessero svuotato sia l’Oriente che l’Occidente”, oppure i racconti negli Annales Regni Francorum sulla seconda ambascieria inviata nell’802 che recò in dono a Carlo Magno una tenda di lino di straordinaria bellezza, pezze di seta colorata, due candelabri di bronzo dorato e un orologio “che lasciava stupefatti tutti coloro che lo vedevano”. Pare si trattasse di una clessidra che ad ogni ora, al suono di un campanello, lasciasse cadere in una vaschetta palline colorate e a mezzogiorno dodici cavalieri si affacciassero da altrettante finestrelle. Si ricordano infine i resoconti, stilati nel secolo successivo dai bizantini Rhadinos e Toxaras mandati dall’imperatore di Bisanzio per riscattare i prigionieri greci. Se pure ammantati di leggenda questi aneddoti riflettono l’apertura degli Abbasidi verso gli orizzonti culturali e intellettuali dei paesi conquistati, che erano invece stati un po’ trascurati in precedenza. Sotto l’influsso delle scuole nestoriane di Edessa e di Nisibe e dell’accademia di Gundeshapur dove si traducevano opere greche di 4 926a Notte, in Clot 1991, p. 53. 32 teologia, filosofia, medicina, astronomia, matematica e agricoltura, il califfo Harun ospita a Baghdad gli intellettuali, transfughi dall’oriente e dall’occidente, e incoraggia l’opera dei traduttori e la raccolta di trattati greci e indiani che arricchiscano le biblioteche. Sotto il suo regno si traduce l’opera indiana di astronomia i Siddharta, considerata importante per i risvolti che ha sul culto religioso (basti pensare all’orientamento verso la Mecca, alla scansione delle ore di preghiera, alla determinazione del mese del digiuno,…). Segue poco dopo la traduzione degli Elementi di Euclide, poiché gli astromi arabi si accorgono della carenza che hanno di conoscenze matematiche e soprattutto di geometria per capire a fondo l’astronomia. Il califfo al-Mamun, figlio di Harun, prosegue nell’iniziativa avviata dal padre e in seguito ad un sogno in cui gli era apparso Aristotele, invia una missione all’imperatore di Bisanzio con l’incarico di portargli i manoscritti greci conservati nei monasteri. Già alMansur aveva chiesto ai bizantini dei libri come indennità o bottino di guerra e in particolare aveva preteso i trattati di matematica di Euclide. Verso l’830 al-Mamun fonda a Baghdad la “casa della saggezza”, in arabo Bayt al-Hikma, dotata di una ricchissima biblioteca, paragonabile a quella del Museo di Alessandria, dove dimorano studiosi, scienziati e molti traduttori. Questi ultimi hanno il compito di volgere dal greco i testi classici scientifici e filosofici. La traduzione avveniva di solito dapprima in siriaco, poi in arabo. Ciò dipendeva dal fatto che era necessaria allo scopo non solo una buona cultura di base, ma anche la conoscenza del greco, noto soprattutto nelle comunità religiose siriache. I siriaci cristiani infatti, fin dai tempi della loro conversione al cristianesimo, nutrono un grande interesse per la cultura greca, in particolare per le opere filosofiche e scientifiche. Studiano i testi di Aristotele, di Ippocrate di Cos e di Galeno, e quando i califfi si trasferiscono a Baghdad e hanno bisogno di cure mediche a causa dei disturbi derivanti dal mutato regime di vita, sono curati dai medici siriaci, molto più preparati dei beduini arabi. Il medico di Harun, Gibril, è il nipote di uno degli insegnanti di medicina di Gundeshapur, il medico Ibn Bakhtyashu, e curerà l’edizione in siriaco del Kunnash, un’opera ispirata agli studi di Ippocrate, di Galeno e di Paolo di Egina, che avrà notevole fortuna anche in occidente nella scuola di Salerno. La fama dei dottori e degli scienziati siriaci si diffonde in breve nel mondo islamico e si trasmette a poco a poco ai testi classici dai quali provengono le loro conoscenze. Iniziano così le prime traduzioni degli scritti di Ippocrate e di Galeno, per passare poi a quelli di Aristotele e di altri autori classici. Si vengono a poco a poco a creare delle vere e proprie scuole di traduttori e di studiosi che si tramettono di padre in figlio. All’epoca di Harun si distinguono per i lavori scientifici Hunayn ibn Ishaq con il figlio Yakub e il nipote Hubayas, cristiani nestoriani islamizzati, e i tre figli di Musa ibn Shakir, il primo esperto astronomo, l’altro abile geometra e il terzo esperto di meccanica, che lasciano un trattato poi tradotto in latino col titolo Liber trium fratrum de geometria. Anche le esigenze di tipo istituzionale e amministrativo, conseguenti all’estensione del vasto impero arabo, contribuiscono al proliferare delle traduzioni e allo sviluppo della matematica. Dai popoli conquistati vengono riprese sia le regole di governo che le strutture organizzative e di amministrazione, ma i califfi che colgono pure l’importanza di una forza di coesione e di unità dello stato pretendono che i registri si tengano in arabo. Così, a poco a poco, la lingua araba diviene l’elemento unificatore dell’immenso dominio, sia dal punto di vista politico, che culturale. L’epoca di più intense traduzioni per la matematica è il IX secolo, che vede le versioni delle principali opere dell’antichità classica, come pure di quelle dell’antichità tarda. Di Euclide sono tradotti sia gli Elementi che i Data, che altri scritti di ottica e di meccanica; di Archimede l’intera produzione, di Apollonio le Coniche e l’opera De sectione rationis, andata perduta in greco. E non sono dimenticati neppure autori e commentatori del periodo tardo ellenistico come Pappo, Diofanto, il neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa ed Erone di Alessandria. Di una stessa opera inoltre si trovano anche più traduzioni e varie revisioni. Esse hanno particolare importanza dal punto di vista storico sia perché 33 diedero impulso a far proseguire, presso gli arabi, un’attività matematica già esistente, sia anche perchè costituirono il tramite attraverso il quale le opere classiche greche vennero conosciute in occidente. Gli Elementi di Euclide, ad esempio, penetrano per la prima volta in Europa nel 1142 da una versione latina, fatta da Adelardo di Bath, da un manoscritto arabo, e i tre ultimi libri delle Coniche di Apollonio sono perduti in greco e, non esistono se non in arabo. Addirittura le rilegature di molti volumi manoscritti del periodo medioevale, decorate con fregi in puro stile arabo, testimoniano questo passaggio. Alle traduzioni si deve però anche guardare con spirito critico poiché il loro scopo non era quello di essere fedeli all’originale, quanto piuttosto di diffondere le conoscenze, arricchendole di commenti, osservazioni e interpretazioni personali originali. L’Arithmetica di Diofanto, ad esempio, appare nelle versioni di Qusta ibn Luqa e di Abul-Wafa, con uno stile ed un lessico algebrizzati, che rivelano chiaramente l’influenza esercitata su questi, dagli algebristi islamici del IX secolo. Gli stessi titoli Arte dell’Algebra e Trattato d’Algebra, dati da questi traduttori all’Arithmetica di Diofanto, rispecchiano chiaramente questa influenza. Nei secoli XI e XII il fenomeno delle traduzioni si ripete nelle città della Spagna conquistate dalla dinastia degli Omayyadi e studiosi da tutta l’Europa si recheranno nei centri di Cordova, Segovia, Toledo, Saragoza e Barcellona alla ricerca di manoscritti, da portare in patria, delle opere classiche, di cui fino ad allora conoscevano solo degli estratti. Un ponte culturale attraverso il Mediterraneo Nella storia della trasmissione del sapere scientifico arabo all’Occidente si possono individuare tre vie principali: quella che fa affluire soprattutto le opere di medicina che parte dall’Ifriqiya e raggiunge dapprima la Sicilia e poi la scuola di Salerno; quella aperta ad ogni ramo dello scibile che passa attraverso la Sicilia e l’Italia meridionale e si sviluppa grazie alla tolleranza e all’interesse culturale dei re normanni, degli Hohenstaufen e degli Angioini, e infine quella che attraversa la Spagna e il Portogallo e impianta nei centri e nelle scuole di traduzione veri focolai di cultura. Per quanto riguarda la prima si narra che libri di medicina araba furono portati in Italia e tradotti da un medico e mercante di Cartagine che si convertì prendendo il nome di Costantino e che da quelle opere la scuola di Salerno abbia ricevuto un apporto così significativo da divenire famosa in tutta Europa. In Italia meridionale è Federico II di Svevia, “stupor mundi”, a catturare gli intellettuali più rinomati. Michele Scoto, illustre traduttore di Toledo soggiorna a lungo alla sua corte e per lui redige un sommario in latino del De animalibus di Ibn Sina, più noto come Avicenna, e di vari altri testi. Teodoro di Antiochia, forse inviato a Federico dal sultano d’Egitto nel 1236, è per un certo periodo suo segretario e astrologo personale e cura versioni latine del saggio Secretum secretorum dello pseudo-Aristotele e di trattati di falconeria e sui cani, composti dal falconiere arabo di Federico, tal Moamyn. Il matematico Leonardo Fibonacci è fra i frequentatori più assidui della corte sveva, composta di “notari e protonotari”, “magistri” e “philosophi”, al punto che dedica all’imperatore e ai personaggi del suo circolo, diventati suoi amici e sostenitori, alcuni suoi scritti, oggi disponibili grazie all’edizione curata nel XIX secolo da Baldassarre Boncompagni. A Michael Scotto è indirizzato il Liber abbaci (1202; 1228), a maestro Teodoro l’Epistola e a maestro Dominicus, forse Dominicus Hispanus, astronomo e astrologo suo contemporaneo, la Practica geometriae (1220) e il Liber quadratorum (1225). Inoltre Leonardo cita spesso, nel corso delle sue opere, studiosi e scienziati incontrati al cospetto di Federico che amava intrattenersi in discussioni e assistere a sfide fra intellettuali. A Teodoro, a maestro Domenico e a Giovanni da Palermo, filosofo dell’imperatore, Leonardo offre la soluzione di problemi di aritmetica e di teoria dei numeri, ad esempio nel Flos e nel Liber quadratorum. Le prefazioni dei suoi scritti sono ricche di particolari interessanti sulla sua formazione culturale nei paesi islamici e il contenuto dei suoi trattati è denso di contributi originali che vanno molto al di là 34 delle conoscenze aritmetiche e algebriche dei greci. Se pure è oggi universalmente riconosciuto il debito culturale che la matematica medioevale e del Rinascimento italiano deve a Leonardo Fibonacci, resta tuttavia ancora in ombra l’ambiente intellettuale e scientifico della corte sveva e di quella angioina. Le cronache dell’epoca ascrivono a Federico II la fondazione dell’Università di Napoli nel 1224 e la creazione nell’Italia meridionale di un centro culturale di grande avanguardia. Secondo lo storico arabo Ibn Wasil fra il 1230 e il 1240 questioni difficili di matematica e di filosofia, fra cui alcune sulla creazione del mondo e sull’immortalità dell’anima, sono poste da Federico a dotti arabi. Lo stesso imperatore scrive un’opera, il De arte venandi cum avibus, che avrà grande diffusione. Pare che anche suo figlio Manfredi fosse dedito agli studi scientifici e che avesse aggiunto alcuni commenti all’opera paterna Giamàl ad Din che lo incontrò a Barletta riferisce che egli conosceva a memoria gli Elementi di Euclide. Di certo anch’egli amava circondarsi di studiosi e scienziati arabi e per questo fu bollato dal papa come “signore dei saraceni”. Carlo d’Angiò che sconfigge gli Hohenstaufen è noto invece per aver fatto tradurre l’enciclopedia medica di Razi e aver proseguito e consolidato in Sicilia un vero e rprio centro di traduzioni in latino, arabo e italiano che permetterà il diffondersi delle opere greche e orientali. È però soprattutto in Spagna e in Portogallo che si compie il maggior numero di traduzioni e si concentrano gli sforzi di studiosi cristiani, ebrei e musulmani di tutte le nazionalità. I re e i principi, sia musulmani che cristiani, che governano piccoli o grandi territori, incoraggiano infatti gli studi scientifici e favoriscono le traduzioni dall’arabo. Si assiste alla nascita e al proliferare dei centri di traduzioni nelle città di Cordova, Siviglia, Malaga, Granada, Maiorca, Almeria, Segovia, Toledo, Saragoza, Barcellona, Lisbona e Coimbra. Fra i primi studiosi che accorrono in Spagna per apprendere nuove conoscenze scientifiche, o per fornire versioni in latino, si ricordano il filosofo e matematico Gerbert d’Aurillac, che nel 999 diverrà papa Silvestro II, che cerca di diffondere il sistema di numerazione posizionale, gli inglesi Adelardo di Bath e Robert di Chester che traducono le opere di al-Khwarizmi e gli Elementi di Euclide, e Platone da Tivoli, traduttore del Trattato di astronomia di al-Battani, dell’Opus quadripartitum di Tolomeo, dell’Algebra di Abraham bar Hiyya e del De mensura circuli di Archimede. Gherardo da Cremona si dedica invece all’edizione in latino dell’Almagesto di Tolomeo e di moltissime altre opere di Euclide, Archimede, al-Kindi, Ippocrate, Razi, Ibn Sina, Tolomeo, per un totale di ben ottantasette titoli, al punto da far pensare che dirigesse una scuola di traduzioni. Non mancano pure versioni di opere classiche in lingua ebraica, curate da studiosi ebrei, come i Tibbon, che per generazioni si tramandano questo mestiere. Si ritrovano membri della famiglia operare a Granada, Lunel, Marsiglia e Montpellier; fra i più noti ricordiamo Mosé Tibbon che redige una trentina di traduzioni e Profazio che a Marsiglia cura un Almanacco di astronomia che resterà in uso fino al XVI secolo. Anche in Spagna e in Portogallo principi e regnanti amano circondarsi di intellettuali e talvolta coltivano essi stessi gli studi scientifici. Il più celebre è senza dubbio Alfonso, detto “il saggio”, che nel XIII secolo redige le famose Tavole alfonsine, utilizzate per tutto il Rinasimento dagli astronomi e dai navigatori. Suo nipote Dionigi, che regna in Portogallo, fonda l’Università di Lisbona, che sarà poi trasferita a Coimbra, e si prodiga a far tradurre in portoghese opere arabe, latine e spagnole. Al-Khwarizmi, padre dell’algebra Nell’VIII secolo, presso le popolazioni dominate dagli arabi, si assiste ad un progressivo interesse per l’aritmetica e per i sistemi di numerazione. Inizialmente non vi erano simboli appositi per i numeri che erano semplicemente espressi a parole. In seguito alle conquiste, dovendosi tenere i registri amministrativi in arabo, si pose anche il problema di come scrivere i numeri e questo venne risolto in un primo tempo adottando, presso i singoli popoli, i loro rispettivi simboli (greci o siriaci in Siria, copti in Egitto, ecc.), e a partire 35 dall’VIII secolo usando le lettere dell’alfabeto e la numerazione in base dieci. Era un sistema additivo, non posizionale e ancora privo del simbolo per lo zero. Non appena iniziano gli interessi per l’astronomia, gli arabi si accostano ai testi indiani, dai quali apprendono il sistema di numerazione posizionale in base 10 e il simbolo dello zero. Ne comprendono subito l’importanza e l’utilità e iniziano ad elaborare un’aritmetica decimale che si rivela nella pratica quotidiana molto semplice e efficace. Il matematico cui si deve la prima esposizione del sistema di numerazione indiano e delle operazioni effettuate in questo sistema è il persiano Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi (780-850 circa), che opera a Bagdad, nella casa della saggezza. Della sua vita non si conosce quasi nulla, tranne forse il fatto che, come indica il nome, egli era originario di Khwarizm (oggi Khiva), città del Turkestan, entrata a far parte del dominio arabo nel 712. Di al-Khwarizmi si sono conservate cinque opere, in parte rimaneggiate, di aritmetica, algebra, astronomia, geografia e sul calendario. In particolare le due opere sull’aritmetica e sull’algebra sono diventate famose e hanno esercitato una notevole influenza sullo sviluppo della matematica medioevale in Occidente, oltre che sugli studiosi arabi successivi. Il libro di aritmetica ci è pervenuto in una versione latina del XIII secolo, conservata a Cambridge e pubblicata a Roma nel 1857 dal principe Baldassarre Boncompagni, col titolo Algoritmi de numero indorum, e successivamente, a cura di Kurt Vogel, nel saggio Mohammed ibn Musa Alchwarizm’s Algorithmus (Aalen 1963) e da A. P. Juskevič nel suo Über ein Werk des Abu’ Abdallah Muhammad ibn Musa al-Huwarizmi al Magusi zur Arithmetik der Inder (Leipzig 1964). Un’edizione critica delle varie traduzioni latine, con versione francese a fronte, è dovuta ad André Allard, Le calcul indien (Algorismus), Paris-Namur 1992. Il termine algoritmus che compare nel titolo deriva dal nome latinizzato di al-Khwarizmi e ha finito per designare fino al XVII secolo il sistema di numerazione posizionale decimale e successivamente un procedimento sistematico di calcolo. Forse questo fu uno dei motivi per cui si è diffusa nei secoli l’errata convinzione che il sistema di numerazione oggi in uso sia di origine araba, anziché indiana. Il trattato di algebra, composto da al-Khwarizmi fra l’813 e l’833, si può invece considerare l’atto di nascita di questa disciplina. Il senso di quest’affermazione sarà più chiaro in seguito, dal confronto fra i metodi algebrici utilizzati nelle civiltà arcaiche (egizia, sumera, babilonese) e in quella greca, con quelli ideati dai matematici arabo-islamici. L’opera di alKhwarizmi si è conservata in un manoscritto arabo del 1342, attualmente ad Oxford, e in alcune versioni latine, di cui le più famose sono quella di Robert of Chester, redatta nel 1145 a Segovia e pubblicata, con traduzione e commento inglese, da L. C. Karpinski nel 1915, e quella di Gherardo da Cremona, scritta a Toledo nel XII secolo. Il testo arabo si intitola AlKitab al-muktasar fi hisab al-jabr wa-l-muqabala, cioè Breve opera sul calcolo di spostare e raccogliere.5 Si compone di un breve capitolo introduttivo sui contratti commerciali effettuati con l’aiuto della regola del tre, secondo l’algoritmo trasmesso dagli indiani; di una parte propriamente algebrica; di un breve capitolo di geometria relativo al calcolo di aree e volumi e di una vasta parte dedicata ai problemi di divisione di eredità, particolarmente complessi nel diritto musulmano, sancito dal Corano. I manoscritti latini a noi pervenuti non contengono le ultime due parti e presentano alcune varianti rispetto all’originale arabo. Lo scopo principale che al-Khwarizmi si prefigge è di scrivere un manuale utile alla risoluzione dei problemi della vita quotidiana, ma l’opera avrà una diffusione e un’influenza ben più ampie di ciò che l’autore si aspettava. Fra i principali concetti utilizzati si trova la nozione di equazione di primo e di secondo grado, a coefficienti numerici, una caratteristica nuova rispetto alla matematica precedente. Non si tratta più, come presso gli Egizi, i Babilonesi e i Greci, di risolvere problemi aritmetici e geometrici, che si possono esprimere in termini di equazioni, 5 L’opera di al-Khwarizmi si può leggere, oltre che nella versione inglese e latina, nel testo arabo Kitab at-jabr wa’l mugabala a cura di A.M. Mashrafa e M. Mursi Ahmad, pubblicato al Cairo nel 1968. 36 ma al contrario si parte dalle equazioni e i problemi vengono dopo. Il fatto che al-Khwarizmi si limiti a considerare equazioni di primo e secondo grado è legato all’esigenza di avere una soluzione per radicali, cui segue la verifica geometrica della correttezza di tale soluzione. L’algebra di al-Khwarizmi è interamente retorica: egli non usa alcun simbolo e le sue spiegazioni sono piuttosto prolisse. Nella storia dell’algebra si distinguono convenzionalmente tre tipologie: l’algebra retorica, che si serve unicamente di parole, anche nelle dimostrazioni matematiche più complesse; l’algebra sincopata, che utilizza sia parole che simboli e fu introdotta per la prima volta da Diofanto nell’Arithmetica e l’algebra simbolica, che procede con simboli e sarà caratteristica dell’epoca moderna, da François Viète in poi. La nozione di base è, come si è detto, quella di equazione a coefficienti numerici. I termini dell’equazione sono indicati con nomi diversi: i numeri con dirham, probabilmente dal nome dell’unità monetaria greca dracma, l’incognita è designata con say’ (letteralmente cosa) o gizr (radice), dal termine arabo per la radice di una pianta, e viene usato anche per la radice quadrata, e infine mal (bene, possedimento) denota il quadrato dell’incognita. In latino questi termini sono tradotti con res, radix e census, rispettivamente, e saranno trasferiti, con gli stessi significati, nella matematica medioevale dell’occidente. All’inizio dell’opera alKhwarizmi distingue sei tipi canonici o normali di equazione, che egli presenta semplicemente a parole, come nello schema riportato sotto (a sinistra), che corrisponde, in notazioni moderne, alle equazioni (scritte a destra) in cui a, b, c indicano numeri interi positivi: 1. I quadrati sono uguali alle radici ax 2  bx 2. I quadrati sono uguali a un numero ax 2  c 3. Le radici sono uguali a un numero ax  c 4. I quadrati e le radici sono uguali a un numero ax 2  bx  c 5. I quadrati e i numeri sono uguali alle radici ax 2  c  bx 6. Le radici e i numeri sono uguali ai quadrati bx  c  ax 2 . Dunque nelle sei forme canoniche i coefficienti sono sempre positivi e i termini appaiono come grandezze additive. Ogni equazione viene sistematicamente ricondotta ad uno dei tipi indicati e per la sua risoluzione si impiegano due operazioni fondamentali: l’al-jabr (letteralmente: completamento, riempimento; in latino restauratio), che corrisponde ad eliminare i termini negativi, aggiungendo termini uguali nei due membri, e l’al-muqabala (messa in opposizione, bilanciamento; in latino oppositio) che consente di addizionare i termini simili nei due membri. Inoltre il coefficiente del termine di secondo grado viene spesso ridotto all’unità con l’operazione al-hatt che è applicata in particolare nella risoluzione delle equazioni dei tipi 4 e 5. Ad esempio l’equazione x 2  10  x   58 2 cioè 2 x 2  100  20x  58, con l’al-jabr diventa 2 x 2  100  20x  58, e con l’al-muqabala, 2 x 2  42  20x e infine, tramite l’al-hatt si ottiene x 2  21  20x , che riconduce l’equazione di partenza al tipo 5. Le locuzioni al-jabr, da cui è derivata la parola algebra, e al-muqabala caratterizzeranno i titoli delle opere successive dei matematici islamici sull’algebra e si estenderanno infine a indicare i testi sulla teoria delle equazioni. Esse faranno la loro apparizione in Occidente nel XIV e XV secolo, dapprima nei manuali in uso nelle scuole d’abaco e poi nei volumi a 37 stampa, per designare esplicitamente una trattazione di algebra, ma il termine al-muqabala cadrà in disuso dopo il XV secolo. Nella risoluzione delle prime tre forme canoniche di equazione si notano alcune particolarità: innanzitutto il fatto che al-Khwarizmi tratti l’equazione ax 2  bx esattamente come l’equazione ax  b , senza considerare la soluzione x  0 . Questa esclusione, dovuta forse al fatto che essa non aveva interesse nei problemi concreti, persisterà a lungo nella storia dell’algebra, almeno fino al XVII secolo. Inoltre egli fornisce sempre non solo la radice dell’equazione considerata, ma anche il suo quadrato. Per esempio per il primo tipo di equazione x 2  5x , egli afferma: “La radice del quadrato è 5 e 25 costituisce il suo quadrato”. E conserva lo stesso atteggiamento anche per le equazioni lineari, ad esempio per 12 x  10 egli ottiene sia x  20 , che x 2  400. Uno dei punti più importanti e innovativi della trattazione di al-Khwarizmi è la ricerca della soluzione algoritmica, cioè il fatto che per le equazioni di secondo grado la soluzione si può esprimere per radicali. L’autore infatti dapprima enuncia, a parole, la regola risolutiva sotto forma di “precetto” o di “ricetta di calcolo” da seguire passo a passo, e poi ne fornisce la dimostrazione geometrica, sfruttando le proprietà dimostrate per esempio negli Elementi di Euclide. È vero che già prima degli arabi si sapeva calcolare la soluzione di equazioni di primo e di secondo grado, ma non si era mai sentita l’esigenza di costruire una teoria apposita per lo studio delle equazioni, considerate per i loro legami con problemi specifici. I Greci cercavano concretamente una o due incognite ben distinte e in un’equazione vedevano semplicemente una relazione fra queste grandezze concrete. In questo modo l’incognita risultava avere un solo valore, salvo nel caso in cui le ipotesi non fossero sufficienti, oppure la stessa relazione potesse adattarsi a due casi diversi. Al-Khwarizmi invece studia l’equazione come oggetto matematico in sé, ne cura la classificazione, il metodo risolutivo e la discussione di ogni caso. Non tiene però mai conto delle soluzioni negative, forse perché restava comunque un forte legame con le grandezze geometriche (sempre positive), ravvisabile nelle verifiche delle regole risolutive, e un ancoraggio ai problemi concreti della vita quotidiana. Peraltro questo atteggiamento rimarrà a lungo immutato anche negli algebristi del tardo Medioevo e del Rinascimento e non verrà messo in discussione se non nel XVII secolo. Ancora nella Géométrie (1637) di René Descartes troviamo esempi di equazioni quadratiche di cui esplicitamente è data solo la radice positiva. Esaminiamo ora in dettaglio, su alcuni esempi6 tratti dall’opera di al-Khwarizmi la risoluzione delle equazioni complete in secondo grado dei tipi 4, 5 e 6, elencati sopra. L’autore inizia studiando l’equazione x 2  10x  39 , che rappresenta il tipo 4“Radici e quadrati uguali a numeri” e afferma: La soluzione è: dividi a metà il numero delle radici, che in questo caso dà 5. Moltiplica questo per se stesso: il prodotto è 25. Aggiungilo a 39, ottenendo 64. Ora prendi la radice di questo, che è 8 e sottrai da questo la metà delle radici, 5; il resto è 3. Questa è la radice del quadrato che cercavi e il suo quadrato è 9. In notazioni moderne l’equazione si può scrivere come x 2  px  q e la sua soluzione è 2 p  p x q   . 2 2 Alle regole risolutive con i radicali, come si è già detto, al-Khwarizmi fa seguire la dimostrazione geometrica che in questo caso presenta due diverse costruzioni, corrispondenti al procedimento noto come “completamento del quadrato”. Esse ricordano quelle dell’algebra 6 Se pure presentata su esempi particolari, la trattazione ha validità generale. 38 geometrica dei Greci e in particolare la seconda rivela una certa analogia con la proposizione II.11 degli Elementi di Euclide. La prima verifica di al-Khwarizmi consiste nel costruire sui lati del quadrato x 2 quattro rettangoli di altezza 10/4 e nel completare la figura così ottenuta con quattro quadratini di lato 10/4. Sapendo poi 2  10    64  4 che x 2  10x  39 il quadrato così costruito ha area 39  4  e il suo lato x  2 10 è dunque 8, da cui si deduce x  3. Queste 4 trasformazioni geometriche 2 trasformazioni algebriche su x  px  q : 2 2 corrispondono 2 alle seguenti 2 2 p p  p  p p   p  p  x  4 x   4   q  4    x  2   q  4  x  2  q  4  , 4 4 4  4 4 ,  4 , 4 2 da cui la regola fornita all’inizio da al-Khwarizmi. La seconda verifica geometrica è presentata solo in figura, senza spiegazioni, forse perché è ottenuta anch’essa con il 5 “completamento del quadrato”. A x 2 si affiancano qui due rettangoli 5x e si completa col quadrato 52. La trasformazione cui corrisponde è dunque 2  p   p  p x 2  2 x      q    2  2 2 2 . Nel caso dell’equazione del tipo 5, al-Khwarizmi sa che si possono avere due radici oppure una sola (doppia) o nessuna (quando le radici non sono reali). Per mostrare la completezza della sua trattazione riportiamo per esteso il ragionamento effettuato relativamente all’equazione x 2  21  10x , affiancandolo dalla traduzione in simboli moderni delle operazioni espresse a parole dall’autore. Tipo 5 “Quadrati e numeri uguali a radici” Un quadrato e 21 unità uguali a 10 radici. La regola risolutiva è la seguente: x 2  21  10x dividi per 2 le radici, ottieni 5. Moltiplica 5 per se stesso, hai 25. Sottrai 21 che è sommato al quadrato, resta 4. Estrai la radice, che dà 2 e sottrai questo dalla metà della radice, cioè da 5, resta 3. Questa è la radice del quadrato che cerchi e il suo quadrato è 9. Se lo desideri, aggiungi quella alla metà della radice. Ottieni 7, che è la radice del quadrato che cerchi e il cui quadrato è 49. 10 : 2 = 5; 5 · 5 = 25 25 – 21 = 4, 4  2 5–2=3 x  3 , x2  9 2+5 = 7, x  7 , x 2  49 . 39 x 2  q  px 2 x p:2 p p p2   2 2 4 p  p    q 2 2 2 p  p x    q 2 2 2  p   q 2 Sono così presentate le due soluzioni positive dell’equazione, seguite dal commento: Se tu affronti un problema che si riconduce a questo tipo di equazione, verifica l’esattezza della soluzione con l’addizione, come si è detto. Se non è possibile risolverlo con l’addizione, otterrai certamente il risultato con la sottrazione. Questo è il solo tipo in cui ci si serve dell’addizione e della sottrazione, cosa che non trovi nei tipi precedenti. Devi inoltre sapere che se in questo caso tu dividi a metà la radice e la moltiplichi per se stessa e il prodotto risulta minore del numero che è aggiunto al quadrato, allora il problema è impossibile. Se invece risulta uguale al numero, ne segue che la radice del quadrato sarà uguale alla metà delle radici che sono col quadrato, senza che si tolga o si aggiunga qualcosa. Gli ultimi due casi corrispondono ad avere discriminante negativo (p/2)2 < q, dunque nessuna soluzione in campo reale, e discriminante nullo, vale a dire due soluzioni coincidenti (x=p/2). La dimostrazione geometrica di al-Khwarizmi, distingue due possibilità, corrispondenti alle due soluzioni. Della prima è data una costruzione dettagliata, mentre per la seconda si hanno pochi cenni nel testo arabo e alcune figure nelle versioni latine che possono suggerire il ragionamento seguito. Ecco come viene presentata la M L K prima costruzione: il rettangolo GCDE di lati GC=p e CD=x è formato dal quadrato ABCD=x2 e dal rettangolo I H A D GBAE=(p–x)x =q. Se si considera x E

p/2 il punto F, medio di GC=p, cade all’interno di BC=x. Se si prende allora AB=BC, il quadrato BFHI, avendo il lato BF=x–p/2 è uguale alla differenza fra il quadrato GFKM=(p/2)2 e lo gnomone composto dalla somma delle aree GBLM+IHKL=GBAE=q. Così si ottiene BF= 2 2 p  p  p    q e x=CF+BF=     q . 2 2 2 G B F C Al-Khwarizmi presenta poi, come esempio di equazione del tipo 6, 3x  4  x 2 di cui considera solo la soluzione positiva e non quella negativa. La regola, espressa in notazioni moderne, relativamente all’equazione px  q  x 2 , corrisponde alla soluzione 2 x M p  p    q. 2 2 La dimostrazione geometrica consiste nella costruzione del quadrato ABCD=x2, composto dai rettangoli ARHD=px e RBCH= x 2  px  q. Sia G il punto medio di HD e si costruisca il quadrato TKHG=(p/2)2. Sul prolungamento di TG si prenda TL=CH=x–p. Si innalzi in L la perpendicolare a LG, che incontri BC in M e il prolungamento di KH in N. Ora GL risulta uguale a CM e uguale a CG poiché GL=GT+LT=GH+HC e TL=CH=MN, per cui LTKN=BMNR. Dunque MCHN+BMNR=BCHR=q=MCNH+LTKN e inoltre  p 2 2 LMCG=TKHG+q=    q e CG = 2  p   q, 2 2 p  p da cui CD=x=CG+GD=    q  . 2 2 Dopo aver discusso i sei tipi canonici di equazioni di primo e secondo grado, alKhwarizmi espone alcune regole fondamentali per operare sulle espressioni algebriche. Ad esempio illustra come effettuare la moltiplicazione di monomi e di binomi, come ridurre i termini simili in somme e differenze di monomi e le trasformazioni del tipo a x  a 2 x o viceversa. Trattando addizioni e sottrazioni di segmenti, al-Khwarizmi sottolinea l’esigenza di rispettare sempre l’omogeneità dimensionale; insiste cioè sul fatto che non si può operare su grandezze che non abbiano le stesse dimensioni. Inoltre egli utilizza pochissimo il numero irrazionale, che chiama gizr asamm (letteralmente radice sorda o cieca). Gherado da Cremona, nel XII secolo, traduce il termine asamm col vocabolo latino surdus e forse è 41 per questo motivo che fino al XVIII secolo i numeri irrazionali erano anche detti numeri surdi. Abu Kamil La teoria algebrica elaborata da al-Khwarizmi viene completata ed ampliata dall’egiziano Abu-Kamil (850-930) nel suo Libro sull’al-jabr e l’almuqabala, scritto fra la fine del IX e l’inizio del X secolo. Questo trattato, che sostanzialmente contiene la teoria delle equazioni di primo e secondo grado, ebbe numerosi lettori e commentatori, fra i quali Leonardo Fibonacci, il più importante matematico del Medioevo in Occidente, che nel Liber abaci (1202) riporta parte dei problemi qui affrontati. Fra le caratteristiche più salienti della trattazione di Abu Kamil si nota un elevato livello teorico e la tendenza all’aritmetizzazione. Abu Kamil considera ad esempio anche potenze dell’incognita superiori a due e impiega le locuzioni cubo per indicare x3 e, seguendo il principio additivo, quadrato-quadrato per x4, quadrato-quadrato-cosa per x5 e così via. Egli utilizza più ampiamente e con maggior sicurezza, rispetto ad al-Khwarizmi, sia operazioni di calcolo algebrico, che trasformazioni complicate sulle espressioni irrazionali, del tipo a  b  a  b  2 ab . Inoltre enuncia regole precise per la determinazione immediata di x2, sotto forma di radicali, per le equazioni di secondo grado dei tipi 4, 5, 6, studiate da al-Khwarizmi, per le quali fornisce le seguenti espressioni: 2 p2 x  q 2  p2   p q    2  p2 x  q 2  p2     p 2 q 2   2 2 x2  p2 q 2 2 2 2  p2   . p 2 q    2  Ogni regola è dimostrata geometricamente, ma, a differenza di al-Khwarizmi, si prescinde dall’omogeneità dimensionale, per cui segmenti e superfici, possono indicare sia numeri, che incognite di primo o di secondo grado. All’occorrenza Abu Kamil fa uso di più incognite, che chiama con nomi diversi, e, per semplificare la risoluzione di un problema, sceglie talvolta una incognita ausiliaria. Ad esempio, nel problema: Dividere 10 in due parti (x e 10 – x) di modo che x 10  x   5, 10  x x Abu Kamil trova dapprima 2  5 x 2  100  20  500 x  che, moltiplicata per    5  2, diventa x 2  100 5  200  10 x e con l’al-jabr x 2  50000  200  10 x Non contento di questa espressione, Abu Kamil ne trova subito dopo una più semplice ponendo come incognita (10 – x)/x = y . Il problema si traduce quindi nell’equazione y 2  1  5y , la cui soluzione è y  1  1 4  1 2 . 42 Partendo poi dall’equazione lineare 10  x 1 1  1  x 4 2 Abu Kamil determina dapprima x con denominatore irrazionale: x  20 5 1 ed elevando poi al quadrato l’equazione in x, scritta sopra, ottiene 1 1 1 1 10  x  1  x  x , da cui 10  x  1  x , 2 4 4 2 e giunge infine ad un valore dell’incognita senza irrazionali al denominatore, 1 5 100  x 2  10 x  x 2 4 4 x 2  10 x  100 x  125  5 . Aritmetica e algebra Tra la fine del X e il XII secolo si assiste ad un notevole sviluppo dell’algebra islamica, che si articola in due correnti relativamente distinte, l’una di indirizzo aritmeticoalgebrico, l’altra geometrico-algebrico. In esse si fa tesoro delle innovazioni e dei risultati ottenuti in ciascuna delle singole discipline a favore dell’altra e viceversa, in un rapporto dialettico molto fecondo. L’indirizzo aritmetico-algebrico si avvale da un lato dei contributi e progressi degli studiosi di aritmetica dei secoli IX-X, dall’altro della traduzione in arabo dell’Arithmetica di Diofanto nel X secolo da parte di Abul-Wafa e di Qusta ibn Luqa.. Fra il 961 e il 976 Abul-Wafa scrive il Libro sull’aritmetica necessaria agli scribi e ai mercanti, in cui riassume e sviluppa le conoscenze dell’aritmetica araba e la teoria delle frazioni. Particolarmente potenziati sono in quest’epoca pure gli algoritmi per l’estrazione delle radici quadrate e cubiche. Già al-Khwarizmi, nel suo trattato di aritmetica, aveva dato, come regola di approssimazione della radice quadrata del numero N  a 2  r , il valore N a Successivamente approssimazioni al-Uqlidisi (morto r . 2a intorno al 952) fornisce le seguenti r r 1 e N a  . 2a  1 2a 2 Ulteriori progressi si avranno nei secoli XI e XII, principalmente ad opera di ibn Labban e del suo allievo an-Nasawi che li estendono anche alle radici cubiche. Il primo e principale esponente dell’indirizzo aritmetico-algebrico è il persiano alKaraji, vissuto tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, che fonda a Baghdad una vera e propria scuola di allievi e seguaci. Viene perciò spesso citato come al-hisabi, cioè maestro di aritmetica, per le sue eccezionali doti didattiche. Scrive molte e importanti opere, di cui si ricordano in particolare il manuale sulla scienza dell’aritmetica e il vasto trattato di algebra intitolato Al-Fahri dal soprannome Fachr’al mulk (gloria del regno), dato al vizir Abu Galeb, cui lo scritto era dedicato. N a 43 Nella prefazione dell’Al-Fahri al-Karaji dichiara fra l’altro per la prima volta in modo esplicito qual è lo scopo dell’algebra: determinare le grandezze incognite mediante quelle note, utilizzando i metodi più efficaci. Egli espone qui anche lo studio delle potenze dell’incognita e, seguendo Diofanto, preferisce utilizzare il principio moltiplicativo per designare le potenze superiori, per cui ad esempio x5=x2 x3 è chiamato quadrato-cubo, x6=x3 x3 cubo-cubo, e così via. Al-Karaji sottolinea inoltre il legame che esiste fra le potenze successive dell’incognita, sancito da proporzioni continue che, espresse a parole, corrispondono in notazioni moderne a 1:x=x:x2=x2:x3=x3:x4=... e, per le potenze reciproche, a 1 1 1 1 : 2  2 : 3  ... x x x x Nell’Al-Fahri si riprende sostanzialmente la trattazione algebrica di Abu Kamil, integra però sia nella parte teorica, che in quella dei problemi, dove si sfrutta ampiamente l’eredità diofantea. In particolare al-Karaji applica le operazioni aritmetiche ai monomi e poi a quantità composte da monomi, cioè a polinomi. Fornisce inoltre le formule per il quadrato e per il cubo di un binomio, presentando cosi i primi elementi di quella che oggi chiamiamo l’algebra dei polinomi. Uno dei suoi allievi, as-Samaw’al, gli attribuisce per di più la tabella dei coefficienti di (a+b)n fino a n = 12, dicendo che la si può prolungare all’infinito se si segue la legge, da noi nota come triangolo di Tartaglia o di Pascal, per cui  m   m  1  m           n   n  1   n  1 Relativamente alle teoria delle equazioni, oltre a quanto aveva già trattato Abu Kamil, vengono affrontate e risolte equazioni del tipo ax 2n  bx n  c; ax 2n  c  bx n ; bx n  c  ax 2n ed anche del tipo ax 2mn  bx nm  c n . Inoltre al-Karaji espone le trasformazioni da effettuare per eliminare gli irrazionali quadratici che compaiono al denominatore. Nell’Al-Fahri si trovano anche proprietà di teoria dei numeri, ad esempio le formule per la somma dei primi n quadrati e cubi. Quest’ultima, che si può esprimere in notazioni 2  n  moderne con  i    i  , viene presentata da ali 1  i 1  Karaji con una dimostrazione geometrica semplice ed elegante. Sia 1+2+3+...+n il lato di un quadrato ABCD e si costruisca lo gnomone DCBB’C’D’ con BB’=DD’=n. L’area di questo gnomone è n 3 2 ’ D ’’ ’ C ’’ B ’’ 2n1  2  ...  n  n 2  n 3 , essendo 1  2  ...  n  nn  1 / 2. Si costruisca poi lo gnomone D’C’B’B’’C’’D’’ con B’’B’=n–1, che avrà ’ perciò area (n–1)3. Proseguendo in modo analogo al-Karaji ottiene alla fine il quadrato di lato 1 e area 1. Il quadrato ABCD risulta quindi decomposto in aree di gnomoni successivi più il quadratino 1, per cui vale l’uguaglianza: 1  2  ...  n2  1  23  33  ...  n 3 . Il principale successore di al-Karaji è as-Samaw’al (XII secolo), figlio di un erudito ebreo, emigrato dal Marocco e stabilitosi a Baghdad, e di una letterata originaria dell’Iraq. Filosofo, medico e matematico, as-Samaw’al è pure un profondo conoscitore sia delle opere greche che di quelle indiane. All’età di soli 19 anni scrive il Libro luminoso sull’aritmetica in cui sintetizza e raggruppa i risultati ottenuti fino ad allora, in particolare 44 quelli dovuti ad al-Karaji. È il primo ad esporre sistematicamente la regola dei segni, cioè le regole da usare con le quantità negative; per esempio: –(–ax2)= ax2 e –axn –bxn=–(a+b) xn. Fornisce inoltre la definizione di potenza nulla xo=1 con x0 e le operazioni aritmetiche sulle potenze della stessa base. Per visualizzare queste proprietà, as-Samaw’al introduce una tabella del tipo seguente: 4 3 2 1 0 1 2 3 4 ... _______________________________________________ ... x4 x3 x2 x 1 1 x 1 1 1 2 3 x4 x x ... che illustra su esempi: per moltiplicare x2 per x3 sarà sufficiente spostarsi di tre colonne verso sinistra, a partire da x2, trovando così x5. Se invece si ha x2·x-1 ci si dovrà spostare a destra di una colonna, sempre a partire da x2, ottenendo così x. Le tabelle sono da lui utilizzate anche per rappresentare un’espressione polinomiale, mediante la successione dei coefficienti. Tale rappresentazione è particolarmente utile nella divisione fra polinomi e costituisce un primo passo verso il simbolismo matematico. Visualizzazioni del tipo indicato si ritroveranno nel Rinascimento e nel XVII secolo, ad esempio negli scritti di Michael Stifel, di François Viète o di John Wallis. A proposito della divisione as-Samaw’al estende alle espressioni polinomiali l’algoritmo euclideo per la divisione dei numeri interi e continua l’operazione anche con potenze negative dell’incognita. Ottiene, ad esempio, 20x 2   1 1  2 1 1  1 1 1  2 1 1   30 x : 6 x 2  12   3    5   6   2  10 3  13   4  20 5   26   6  40 7 , 3 x  3 x 3 x 3 x x x x    e riconosce che, nel risultato, i coefficienti seguono una particolare legge di formazione: a n2  2a n , ma non precisa che questa legge vale solo per x sufficientemente grande. Nella sua opera, inoltre, è presentato un algoritmo per l’estrazione di radici quadrate di espressioni polinomiali e pare che si debba attribuire ad as-Samaw’al anche un metodo di approssimazione numerica di un’equazione del tipo x n  q  0. Molti dei risultati e dei procedimenti escogitati dai matematici della scuola di al-Karaji, fra la fine del X, l’XI e il XII secolo, sono stati invece attribuiti ingiustamente al matematico di molto posteriore, al-Kashi (XV secolo), che li riprende nella sua opera principale, la Chiave dell’aritmetica, vera enciclopedia delle conoscenze algebriche degli arabi. Geometria e algebra La seconda corrente che contribuisce al rinnovamento dell’algebra islamica nei secoli X, XI e XII, è quella costituita da quei matematici che cercano di far progredire l’algebra mediante la geometria. Lo stimolo iniziale è fornito dai problemi geometrici classici o da problemi astronomici che si traducono in equazioni di terzo grado. Si ricorda ad esempio il problema della duplicazione del cubo, o quello equivalente dell’inserzione di due medi proporzionali x e y fra due numeri dati a e b, cioè a : x  x : y  y : b , che porta alle equazioni x 2  ay o y 2  bx e xy  ab , da cui si trae l’equazione cubica x 3  a 2 b oppure y 3  ab 2 . Il matematico greco Menecmo nel IV sec. a.C. aveva trovato la soluzione in modo geometrico, come ascissa del punto di incontro di una parabola ( x 2  ay ) e di un’iperbole ( xy  ab ). Risolse con questo stratagemma anche il problema della duplicazione del cubo che si presentava come un caso particolare del precedente. Si 45 trattava infatti di trovare lo spigolo di un cubo, il cui volume fosse il doppio del volume di un cubo dato, cioè di risolvere l’equazione x 3  2a 3 , cosa che egli ottenne con l’intersezione della parabola x 2  ay e dell’iperbole xy  2a 2 . Ancora più interesse suscita presso gli arabi il problema posto da Archimede nell’opera Sulla sfera e sul cilindro (II, 4): Dividere una sfera data in modo tale che il rapporto fra i volumi dei segmenti ottenuti sia uguale ad un rapporto dato. Se si indica con r il raggio della sfera e con x  r l’altezza di uno dei segmenti sferici, l’altro segmento avrà altezza 2rx r. Il volume V1 del segmento di altezza x e quello V2 dell’altro segmento dovranno dunque stare fra loro nel rapporto dato K, con K1, cioè V1 K 1 V V1:V2= K e se V indica il volume della sfera, si avrà K  , da cui e  V  V1 K V1 x 2 K 1 4r 3 4r 3 3r  x  e V  poiché V1  , si ha , da cui  2 3 3 K x 3r  x  4K 3 x3  r  3rx 2 . K 1 Una soluzione di quest’equazione era già stata data da Eutocio nel VI secolo, nel suo commento all’opera di Archimede, con l’intersezione di una parabola e di un’iperbole, ma questa soluzione non era nota agli arabi, che si accaniscono nella ricerca. Il primo ad occuparsi del problema e a darvi una espressione algebrica è al-Mahani che non riesce, però, a costruire la radice dell’equazione. Altri matematici islamici del X secolo, come alKhazin e ibn al-Haytham (965-1093), riprendono la questione e studiano altri problemi geometrici classici, quali quelli della duplicazione del cubo, della trisezione dell’angolo, della costruzione dei poligoni regolari di 7 e 9 lati inscritti nel cerchio, cercando di risolverli mediante intersezione di coniche. Al-Biruni (973-1048) affronta invece il problema della trisezione dell’angolo e dell’inscrizione di un ennagono regolare nel cerchio. Per quest’ultimo giunge all’equazione x 3  3x  1, in cui x rappresenta la corda di un arco uguale ai 2/9 della circonferenza. Il gran numero dei problemi che si riconducono ad equazioni di terzo grado e l’incapacità di risolvere queste equazioni con una formula per radicali portano all’esigenza di costruire una teoria sistematica generale delle equazioni di terzo grado, analoga a quella esposta da al-Khwarizmi per le equazioni di primo e secondo grado. In ciò gli arabi si differenziano dai greci: mentre questi per ciascun problema escogitavano una particolare soluzione, gli arabi riducono il problema ad un’equazione algebrica che risolvono inquadrandola in una teoria generale. Il creatore di questa teoria è Omar ibn Ibrahim alKhayyam (1048-1131), noto universalmente come il poeta persiano dei Rubai’yat tradotti in inglese e resi famosi da Edward Fitzgerald nel 1859. Nato a Nishapur, nel Khorassan, Omar a-Khayyam si dedica alla matematica, all’astronomia e alla filosofia, operando nelle province orientali dell’impero selgiuchide e soprattutto all’osservatorio di Samarcanda. Verso il 1074 è incaricato dal vizir Nizam al-Mulk di collaborare con altri scienzati a una riforma del calendario e in questo periodo scrive, a Samarcanda, il suo grande trattato Sulle dimostrazioni dei problemi di al-jabr e al-muqabala.7 In esso al-Khayyam definisce l’algebra come “teoria delle equazioni”, nettamente distinta dall’aritmetica. Le grandezze 7 L’opera è disponibile nella traduzione francese di F. Woepke, apparsa nel 1851, e nell’edizione L’oeuvre algebrique d’al-Khayyam, a cura di R. Rashed e A. Djebbar, del 1981. 46 incognite possono essere numeri interi o grandezze geometriche (linee, superfici, volumi) e la risoluzione necessita sia di soluzioni numeriche, che di verifiche geometriche. Egli riconosce il suo fallimento nei confronti della soluzione per radicali delle equazioni cubiche e intuisce felicemente che “Forse uno di quelli che verranno dopo di noi riuscirà a trovarla.” Il trattato di Omar-Khayyam presenta una classificazione delle equazioni di secondo e di terzo grado. Queste ultime, se si escludono le equazioni che si possono ridurre di grado, si possono distinguere in tre specie: le binomie, le trinomie e le quadrinomie, per un totale di 14 tipi. Se indichiamo con a, b, c delle costanti positive, la prima specie contiene semplicemente l’equazione binomia x 3  a , mentre la seconda è formata dalle trinomie dei seguenti tipi: 1) senza termine di secondo grado, cioè x 3  bx  a x 3  a  bx x 3  bx  a 2) senza termine di primo grado, cioè x 3  cx 2  a x 3  a  cx 2 x 3  cx 2  a. Infine la terza specie è costituita da 3) equazioni in cui tre termini positivi sono uguali ad un termine positivo, cioè x 3  cx 2  a  bx x 3  a  bx  cx 2 x 3  a  bx  cx 2 x 3  bx  cx 2  a 4) equazioni in cui due termini positivi sono uguali a due termini positivi, cioè x 3  cx 2  bx  a x 3  a  cx 2  bx x 3  bx  cx 2  a. Le specie di ciascun tipo, che differiscono fra loro solo per i segni dei coefficienti, sono trattate separatamente e per ciascuno è spiegata la scelta delle coniche da usare. Il metodo è però uniforme, per cui è sufficiente indicare qui un unico esempio per ogni specie. Omar al-Khayyam è attento a rispettare sempre l’omogeneità dimensionale, per cui nel trattare l’equazione del tipo 1, x 3  bx  a , dapprima la pone sotto la forma x 3  p 2 x  p 2 q , e poi la risolve con l’intersezione di un cerchio ( x 2  y 2  qx) e di una parabola ( x 2  py). L’ascissa AX del punto P di incontro delle due curve, diverso dall’origine A delle coordinate, è una soluzione dell’equazione. In modo analogo, per l’equazione del tipo 2, x 3  cx 2  a , si pone a  p 3 , per cui l’equazione diventa x 2 ( x  c)  p 3 e le coniche scelte sono l’iperbole ( xy  p 2 ) e la parabola ( y 2  px  pc ). 47 L’equazione del tipo 3, x 3  cx 2  a  bx è trasformata, ponendo b = p2 e a = p2s, in x 2 ( x  c)  p 2 ( s  x) ed è risolta con l’intersezione fra il cerchio y 2  ( x  c)(s  x) e l’iperbole x( y  p)  ps . Infine l’equazione del tipo 4, x 3  bx  cx 2  a 2 2 avendo posto b = p ; a = p s, diventa x 2 (c  x)  p 2 ( x  s) che si può risolvere intersecando il cerchio y 2  ( x  s)(c  x) con l’iperbole x( p  y)  ps. Omar al-Khayyam considera, come i suoi predecessori, soltanto le soluzioni positive e quindi, trasferendo il discorso ad un sistema di assi cartesiani, soltanto le intersezioni delle curve nel primo quadrante. Inoltre fra le curve, privilegia i cerchi, le iperboli equilatere per le quali asintoti e assi di simmetria sono paralleli agli assi coordinati, e le parabole il cui asse di simmetria è anche uno degli assi coordinati. Vengono inoltre discusse le condizioni di esistenza delle radici positive e il numero di queste, ma nonostante l’analisi sia profonda, ad al-Khayyam sfugge il caso di tre soluzioni positive per l’equazione x 3  bx  cx 2  a. Soluzioni con metodi approssimati Uno dei continuatori dell’opera di al-Khayyan è il persiano Sharaf Al-Din al-Tusi, che vive alla fine del XII secolo e riprende la trattazione delle soluzioni geometriche delle equazioni cubiche, sviluppando notevolmente lo studio delle curve. Alla teoria elaborata da al-Khayyam ad esempio egli aggiunge una discussione sistematica dell’esistenza delle radici positive, legata al ruolo del discriminante. Nel caso dell’equazione x 3  a  bx alTusi afferma che l’esistenza delle radici positive è legata al fatto che sia b3 a 2   0. 27 4 Questo discriminante non appare però mai in una formula risolutiva del tipo di quella fornita da Niccolò Tartaglia e da Girolamo Cardano nel XVI secolo. Probabilmente fu proprio l’impossibilità di ottenere una soluzione algebrica diretta dell’equazione cubica a portare il matematico persiano alla ricerca di soluzioni numeriche approssimate. A queste al-Tusi giunge nell’opera intitolata Teoria delle equazioni che raccoglie l’eredità e i progressi compiuti precedentemente sia nell’indirizzo aritmeticoalgebrico, sia in quello geometrico-algebrico. Particolare importanza rivestono, in questo contesto di approssimazioni, gli algoritmi per l’estrazione delle radici quadrate e cubiche, ottenuti da al-Khwarizmi e alUqlidisi, e ulteriormente elaborati e migliorati da ibn-Labban e da an-Nasawi. Anche alBiruni pare avesse composto un saggio su L’estrazione delle radici cubiche e di quelle di grado più elevato e pure al-Khayyam scrisse su questo argomento, ma purtroppo le loro opere sono andate perdute e non è perciò possibile stabilire quale influenza abbiano esercitato su al-Tusi. 48 Nel caso dell’equazione cubica Tusi afferma che l’esistenza delle radici positive è legata al fatto che sia b3 a 2 − ≥ 0. 27 4 x 3+ a = bx al- Questo discriminante non appare però mai in una formula risolutiva del tipo di quella fornita da Niccolò Tartaglia e da Girolamo Cardano nel XVI secolo. Probabilmente fu proprio l’impossibilità di ottenere una soluzione algebrica diretta dell’equazione cubica a portare il matematico persiano alla ricerca di soluzioni numeriche approssimate. A queste al-Tusi giunge nell’opera intitolata Teoria delle equazioni che raccoglie l’eredità e i progressi compiuti precedentemente sia nell’indirizzo aritmeticoalgebrico, sia in quello geometrico-algebrico. Particolare importanza rivestono, in questo contesto di approssimazioni, gli algoritmi per l’estrazione delle radici quadrate e cubiche, ottenuti da al-Khwarizmi e al-Uqlidisi, e ulteriormente elaborati e migliorati da ibn-Labban e da an-Nasawi. Anche al-Biruni pare avesse composto un saggio su L’estrazione delle radici cubiche e di quelle di grado più elevato e pure al-Khayyam scrisse su questo argomento, ma purtroppo le loro opere sono andate perdute e non è perciò possibile stabilire quale influenza abbiano esercitato su alTusi. Vediamo ora in dettaglio il procedimento impiegato dal matematico persiano nella ricerca della soluzione numerica di un’equazione cubica del tipo x 3 + px = N . L’equazione studiata da al-Tusi è x3+36x=91 750 087, e il metodo consiste nel ritrovare ogni potenza di N a partire dal gruppo di termini che derivano dall’elevazione al cubo dell’incognita e dalla moltiplicazione per 36 dell’incognita stessa, rappresentata in simboli moderni da x = x1 + x 2 + x 3 , dove x1 = a10 2 , x 2 = b10, x 3 = c , con a, b, c cifre intere comprese fra 0 e 9. Il procedimento di al-Tusi consiste dunque nello scrivere x3 e 36 x in funzione di x1, x2, x3, ovvero di a, b, c e potenze di 10, cioè x3=(x1+x2+x3)3=x13+x23+x33+3x12 x2+3x1x22+3x22 x3+3x1 x3 2+6 x1 x2x3=a3106+3a2 b 105+ +3ab2 104+3 a2c 104+6abc 103+3ac2102+3b2c102+3bc210+c3 36 x = 36 x1+36 x2+36 x3 = 36 a 102+36 b 10+36 c. In un primo tempo si cerca a, cioè il più grande intero tale che a3 < 91, cioè a=4, e si sommano allora tutti i termini che si possono scrivere a partire da a, annotando in una tabella ciò che resta: N1 = N– a3 106− 36 a l02 N1 = 91 750 087−64000 000−14400 N1 = 27735687. Successivamente si cerca b, cioè il più grande intero tale che 3a2b<277, cioè 3 16b<277 da cui b=5, e si prosegue calcolando N2=N1− 3a2b·105 – 3ab2104 – b3103 – 36b10N2=27735687−240000003000000-125000– 1800 N2=608 887. Infine si cerca c, tale che 3a2c< 60, cioè 3 16c<60 da cui c = 1 e si può scrivere x = 4·102+5·10+1=451. 49 L’ultimo matematico arabo ad occuparsi di algebra, degno di essere qui citato, è alKashi, che muore a Samarcanda nel 1429. La sua opera più celebre è la Chiave dell’aritmetica, composta intorno al 1427, che era destinata non solo ai matematici, ma a tutti gli uomini di cultura, dai letterati ai mercanti. Essa rappresenta la summa delle conoscenze scientifiche dell’epoca e avrà una grandissima diffusione sia nei paesi arabi che in Occidente. Al-Kashi condensa qui le proprietà e i metodi dell’aritmetica e dell’algebra elaborati precedentemente, ed espone sia l’aritmetica col sistema sessagesimale, sia con quello decimale, allo scopo di mostrare che le operazioni si possono effettuare indifferentemente nell’uno e nell’altro sistema. Riprende fra l’altro anche il metodo di estrazione delle radici quadrate e fornisce un valore per  con sedici decimali esatti. Influenze dell’algebra su altri settori della matematica A partire dal IX secolo, con la nascita dell’algebra presso gli arabi, si formano, come si è visto, nuovi rapporti fra algebra e aritmetica e fra algebra e geometria. L’algebra entra così a poco a poco nei più disparati settori della matematica e permette importanti sviluppi, di cui qui ne ricordiamo alcuni. Dalla tradizione della scrittura polinomiale, con l’uso di tabelle, nasce la teoria delle frazioni decimali, che si fa risalire, al più tardi, al XII secolo. Anche la teoria dei numeri riceve nuovi impulsi sia nell’ambito dell’analisi diofantea, con la risoluzione in numeri razionali di equazioni e sistemi di equazioni, sia nella ricerca di terne pitagoriche, di numeri primi, di numeri congrui, di numeri amici, di resti quadratici e nell’ideazione di quadrati magici. Nell’opera di al-Khayyam troviamo inoltre la prima teoria delle frazioni continue e nel trattato La scienza del calcolo del maghrebino Ibn Mun’im del XIII secolo i primi studi sull’arte combinatoria, applicata sia in campo linguistico che matematico, ad esempio sulle permutazioni senza ripetizione o con ripetizione di una o più lettere, e sulle combinazioni. Nella seconda metà del XIII secolo Ibn al-Banna aggiungerà contributi importanti al calcolo combinatorio con alcune proprietà, ritrovate poi da Blaise Pascal nel XVII secolo. L’ambito numerico si amplia: gli irrazionali positivi, a partire da Abu Kamil in poi, entrano a far parte dell’algebra e dell’aritmetica, proprio come i razionali, e fanno il loro ingresso i numeri negativi e i numeri decimali. Nella geometria, nella trigonometria, nel calcolo di aree e volumi e nell’astronomia, il calcolo algebrico porta a metodi più semplici e più veloci. La fusione fra la cultura indiana e quella greca, che si è verificata nel mondo arabo nei secoli IX e X, ha favorito la realizzazione di risultati originali e importanti da parte dei matematici islamici che devono aver esercitato un’influenza notevole sullo sviluppo della matematica medioevale e rinascimentale, soprattutto nei campi dell’aritmetica e dell’algebra. È vero che quest’influenza della cultura scientifica araba su quella occidentale è ancora in gran parte da documentare, a causa del gran numero di testi non ancora esaminati sia nelle biblioteche dei paesi arabi, sia in quelle europee. Sappiamo tuttavia che ci furono frequenti contatti fra studiosi islamici e intellettuali occidentali durante il Medioevo: in Spagna, come si è accennato, soprattutto nei centri di traduzione; in Italia tramite Leonardo Fibonacci Pisano, con i suoi viaggi in Oriente e le frequentazioni in Sicilia con il circolo di Federico II di Svevia, amico personale del sultano al-Kamil. Inoltre, da quando nel 1258 Baghdad fu conquistata dai mongoli, si verificò un nuovo esodo di studiosi verso l’Occidente e con ciò una maggiore penetrazione in Europa della cultura scientifica araba. Non si può dunque prescindere dalla conoscenza dell’eredità lasciata dagli arabi, soprattutto per quanto concerne l’algebra, una disciplina destinata ad assumere una 50 posizione centrale nella matematica italiana del XVI secolo, per cui concordiamo con il giudizio espresso da Roshdi Rashed: Le résultat final qui se dégage de tout cela, c’est que, de même qu’il est impossible de comprendre ces mathématiques arabes sans les mathématiques hellénistiques, il est également impossible de comprendre les mathématiques des XVIe et XVIIe siècles sans les mathématiques arabes.8 IL PERIODO MEDIOEVALE Breve schema cronologico: 476 caduta Impero romano d'Occidente 1453 caduta Impero romano d'Oriente 529 chiusura delle scuole filosofiche "pagane" di Atene da parte di Giustiniano. Nei secoli che seguirono alla spaventosa crisi del crollo dell'Impero Romano di Occidente, e che usiamo chiamare i secoli dell'Alto Medioevo (500-1100 d.C. circa), l'economia dell'Europa è spezzettata e debolissima (sistema del "feudo", isolato e chiuso), mentre gli Indiani e gli Arabi percorrono i mari: dal Mediterraneo al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, estendono i loro commerci dalla Spagna alla Persia, al Madagascar, alla Cina. Non è un caso che si debba a Leonardo Pisano, detto Fibonacci, l'introduzione in Occidente del sistema di numerazione arabo-indiano (1202, Liber abaci), che essendo figlio di un ispettore doganale a Bugia nell'Africa del nord ebbe la possibilità di conoscere le culture orientali. Matematica in Occidente nel Medioevo Sorge un nuovo, vasto indirizzo di pensiero ispirato non più alla tradizione classica, ma all'insegnamento di Cristo, indirizzo legato quindi al generale orientamento dell'epoca in esame, che contribuì con la sua affermazione a far prevalere le esigenze religiose su quelle critiche, la fede sulla ragione. Le questioni teologiche sono più importanti di quelle scientifiche, inessenziali per la salvezza dell'anima. Fra le scienze esatte, la meno colpita dal disinteresse fu la matematica, in cui taluni Padri della Chiesa, forse sotto l'ispirazione neoplatonica, videro qualcosa di divino: un ponte per elevare l'uomo verso l'Assoluto. Sant'Agostino (354 - 430) nella sua prova dell'esistenza di Dio si richiama alle verità matematiche e presenta nella sua opera un'intuizione di eccezionale valore sull'esistenza dell'infinito attuale, che aveva tanto preoccupato i Greci. Aristotele aveva negato l'esistenza dell'infinito attuale. Sant'Agostino si oppone a questa pretesa aristotelica affermando che è pensabile e cioè logicamente non contraddittoria, la nozione di "totalità dei numeri interi". L'argomento su cui Agostino si basa è di ordine più teologico, che scientifico, in quanto afferma che la mente divina non può arrestarsi ad un numero finito. Questo tipo di argomentazioni si ritroverà nella matematica del secolo XVII. La cultura del periodo in Occidente era in piena decadenza, non era quindi idonea ad accogliere e sviluppare le intuizioni di Agostino. Il livello culturale è documentato da numerosi compendi che diventano via via più scheletrici, più poveri di novità, più banalmente semplici. Diminuisce il numero degli autori capaci di scrivere lavori scientifici e diminuisce il numero dei lettori capaci di seguire ed apprezzare la ricerca scientifica. Tra le figure che compaiono in tarda epoca romana, possiamo ricordare: BOEZIO (480 - 525) è l'ultimo matematico originale perché nelle sue Institutiones arithmeticae raccoglie nozioni elementari a cui aggiunge osservazioni personali. 8 Rashed 1985, p. 160. 51 CASSIODORO (V - VI sec.) scrive le Institutiones divinarum et saecularium notionum che è un'opera di pura compilazione. Nei 5 secoli successivi i compendi sono sempre più rari e più elementari, fra questi ricordiamo: di ISIDORO di SIVIGLIA (VI - VII sec.), Etimologie, che fornisce notizie sul calcolo con numeri interi; del VENERABILE BEDA (VIII sec.) scritti sul calcolo del calendario e sul computus digitalis; quest'ultimo si lamenta dello stato troppo basso in cui versava la cultura scientifica, per questo si è soliti dire che nel Medioevo in Europa non si sentiva altro che il graffiare della sua penna. ALCUINO di York (VIII - IX sec.) è l'organizzatore della prima scuola, la Scuola Palatina di Carlo Magno. Nel 1000 si avverte una certa ripresa e rinascita degli studi scientifici: GERBERTO o Papa SILVESTRO II (XI sec.) scrive testi di aritmetica e geometria e insegna ad usare le cifre indiane, oltre a instillare una certa curiosità scientifica. Verso la metà del 1100 cominciano ad organizzarsi veri centri di traduzione dei classici dall'arabo al latino e questo avveniva in Spagna (a Toledo, Siviglia, ...), in Sicilia, in Inghilterra: ADELARDO di BATH (XII sec.) effettua la prima traduzione degli Elementi di Euclide dall'arabo intorno al 1142. GERARDO da Cremona, a Toledo, traduce l'Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide. GUGLIELMO di MOERBEKE nel 1269 traduce le opere di Archimede. Sorgono, nel XII - XIII sec., le prime Università: Bologna, Parigi, Oxford e Cambridge. Vi lavorano dotti ed ecclesiastici: ALBERTO MAGNO, ROBERTO GROSSETESTE, TOMMASO d'AQUINO, RUGGERO BACONE, GIORDANO MEMORARIO, GIOVANNI SACROBOSCO. Si viene a formare, in questo periodo, una duplice corrente: quella degli abacisti, che eseguono i calcoli con l'abaco e i sistemi tradizionali, quella degli algoristi, che usano il sistema di numerazione con le cifre indo-arabe. Il primo matematico di rilievo in Occidente è LEONARDO PISANO detto FIBONACCI perché figlio di Bonaccio (XII - XIII sec.). Il padre, impiegato nella repubblica marinara di Pisa, nel 1192 fu invitato a dirigere la dogana di Bugia, in Algeria. Andò in quella città e dopo poco tempo fece venire lì anche il figlio perché si aggiornasse sui metodi di calcolo usati dagli arabi. Leonardo si appassionò a tal punto, che non solo apprese quei metodi, ma cercò di indagare e imparare i principi più elevati presenti nella matematica araba. Leonardo compì inoltre altri viaggi nell'oriente mediterraneo, dedicandosi sia al commercio, che all'informazione scientifica. Ritornato in patria ebbe stretti contatti con il circolo culturale di Federico II di Svevia, che lo stimava moltissimo. Da allora cominciò a raccogliere in alcune opere le principali dottrine scientifiche e riflessioni personali su di esse. Morì, in data incerta, dopo il 1240. Tra le sue opere ricordiamo: Liber Abaci (1a stesura 1202, 2a stesura 1228), Practica geometriae (1225), Flos (una raccolta di problemi), Lettera al maestro Teodoro, Liber quadratorum. In questi scritti Leonardo dimostra di aver assimilato il meglio prodotto da arabi e greci. Il Liber Abaci, considerato la sua opera principale, ha in realtà un titolo inesatto perché fa pensare ad un'esposizione dei calcoli mediante l'abaco, mentre in realtà vi è esposto il sistema di numerazione con nove cifre, chiamate "indiane", e con lo zero, e ne viene spiegata tutta l'utilità. Vi si trovano inoltre diverse applicazioni dell'aritmetica a 52 problemi commerciali, una vasta esposizione sulle frazioni e sui calcoli con frazioni, sulle equazioni di 1° e di 2° grado, senza però alcun simbolismo (algebra retorica). Uno dei problemi del Liber Abaci ha ispirato i matematici futuri, che di lì hanno ricavato i cosiddetti "numeri di Fibonacci": “Quante coppie di conigli verranno prodotte in un anno, a partire da un'unica coppia, se ogni mese ciascuna coppia dà alla luce una nuova coppia, che diventa produttiva a partire dal secondo mese?” 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, ... Questa successione venne appunto detta dei numeri di Fibonacci, che hanno la caratteristica che un = un-1 + un-2 e godono di alcune proprietà: per esempio due termini successivi sono primi fra loro e il loro rapporto è un rapporto aureo: u 51 lim n1  n u 2 n La Practica geometriae fornisce invece regole teoriche e pratiche per il calcolo di aree, per la ripartizione di un’area in parti proporzionali a certi numeri dati e per il calcolo di volumi. Le altre opere sono decisamente inferiori e sono interessanti solo perché rivelano la grande abilità di Leonardo a risolvere anche problemi sottili. Fra l’altro Leonardo si trova a discutere un’equazione di terzo grado e dopo aver dimostrato che non possiede radici fra gli irrazionali, ne dà una soluzione approssimata (assai vicina a quella esatta), senza però spiegare come vi sia giunto. Questo fatto costituisce un punto di partenza delle ricerche che nel 1500 condurranno alla risoluzione delle equazioni di terzo grado. La trattazione è vivace e spesso non si accontenta di un solo procedimento, ma ne espone più d'uno. Dovunque si avverte grande interesse e curiosità oltre che fiducia nella possibilità di superare gli antichi. In Italia, dopo Fibonacci, non abbiamo alcun continuatore di rilievo per circa tre secoli e ciò è in parte dovuto al fatto che la morte di Federico II fa scomparire anche l'ambiente culturale vivo e spregiudicato, costituitosi intorno alla sua corte. Nei secoli XIII e XIV bisogna rivolgersi oltralpe per trovare qualche matematico degno di menzione, anche se inferiore a Fibonacci. Nel sec. XIII possiamo citare: GIORDANO NEMORARIO, un domenicano aristotelico, che vive a Parigi e inizia studi di meccanica. Scrive le opere De ponderibus e Elementa arithmetica (1496; 1a edizione a stampa nel 1514) sotto l'influenza di Euclide e di Boezio. La sua trattazione è rigorosa, ma scarsamente originale. GIOVANNI CAMPANO da NOVARA, cappellano di papa Urbano IV, traduce gli Elementi, che verranno editi a stampa nel 1482. 53 JOHN HOLYWOOD o Giovanni Sacrobosco (XIII sec.) insegnava all'Università di Parigi ed è più famoso come astronomo (Tractatus de sphaera mundi) che come matematico, anche se scrisse in versi il De arte numerandi (in essa sono enunciate chiaramente le regole delle operazioni aritmetiche). Scuola Mertoniana di OXFORD La scuola mertoniana di Oxford, dal nome del MERTON COLLEGE di quella città, vede svilupparsi una corrente di pensiero di tipo filosofico-scientifico. Le teorie elaborate rientrano, grosso modo, nell'ambito della meccanica e portano contributi a quello che sarà il concetto di funzione. Attiva nel sec. XIV, la scuola inglese comprende tra i principali esponenti: THOMAS BRADWARDINE (1290 - 1349) di Oxford, era l'Arcivescovo di Canterbury e scrisse l’Arithmetica speculativa e la Geometria speculativa. Le opere più importanti sono però dal nostro punto di vista il Tractatus de proportionibus velocitatum in motibus (1328) e il Tractatus de continuo, che gli valsero l'appellativo di Doctor profundus. Nel libro VI della sua Fisica, Aristotele aveva formulato un certo numero di argomentazioni per negare la composizione di un continuo mediante indivisibili. Tali argomentazioni vengono elaborate e commentate dai filosofi scolastici. Nel suo Tractatus de continuo Bradwardine espone, alla maniera euclidea, una teoria matematica critica nei confronti dell’atomismo. Ci sono 24 definizioni, 10 postulati e 151 proposizioni o conclusioni che mirano a mostrare l'assurdità dell’atomismo in tutte le branche della scienza (aritmetica, musica, geometria, astronomia, ottica, medicina, filosofia naturale, metafisica, logica, grammatica, retorica ed etica). La posizione assunta dagli atomisti del XIV secolo consisteva nel sostenere che un continuo esteso (per esempio un segmento) era composto da indivisibili non estesi (cioè da punti). Bradwardine cercò di mostrare le contraddizioni fra geometria e atomismo. Per esempio disse che, se valeva l'atomismo, allora non era vera l'incommensurabilità del lato e della diagonale di un quadrato, esistendo una corrispondenza biunivoca fra i punti della diagonale e quelli del lato. Un altro esempio è quello delle circonferenze concentriche, che nell'ambito dell’atomismo sarebbero uguali, poiché i raggi individuano tutti gli indivisibili inestesi (punti). In questo modo Bradwardine demolisce la posizione degli atomisti che sostengono che gli atomi, che compongono i segmenti geometrici, le superfici e i solidi, siano in numero finito e a contatto fra loro. Il successo di Bradwardine era però limitato a queste due interpretazioni, perché nel caso di coloro che pensavano ad un’infinità di indivisibili, tali che fra due di essi ne esiste sempre un altro, le sue argomentazioni non erano applicabili. Può essere ricordato il fatto interessante che Bradwardine pensò ad una corrispondenza biunivoca fra insiemi infiniti e loro sottoinsiemi propri: " Le grandezze continue, sebbene comprendano un numero infinito di indivisibili, non sono fatte di atomi matematici, ma sono invece composte di un numero infinito di elementi continui dello stesso genere ". 54 Richard SWINESHEAD (XIV sec.) fu uno dei successori di Bradwardine. Scrisse il Liber Calculationum, in cui classificava diversi tipi di cambiamento: uniforme, difforme, uniformemente difforme, ecc... Le due principali dottrine della scuola, che influenzeranno gli sviluppi successivi sono relative all'impetus e alla variabilità. Per quanto concerne l’impetus, ci limitiamo a ricordare che i filosofi medioevali ritenevano che dato un certo quid, un impetus ad un corpo, questo per un po’ di tempo farà proseguire il corpo nel suo movimento, anche se non sollecitato da altre forze, ma poi l'impetus sfuggirà lentamente dal corpo, così come una palla di ferro scaldata perde a poco a poco il suo calore. Riguardo alla traiettoria di un proiettile lanciato con una certa forza orizzontalmente, i filosofi di Oxford ritenevano che esso seguisse inizialmente la traiettoria orizzontale, essendo ancora in possesso dell'impetus datogli, ma che in seguito la sua traiettoria diventasse verticale In un secondo tempo essi pensarono che dovesse inserirsi un arco di circonferenza prima di diventare verticale e solo molti anni più tardi, con Galileo, abbiamo la dimostrazione che tale traiettoria è parabolica. Sulla teoria della variabilità dobbiamo innanzitutto precisare che i filosofi medioevali operano in un ambito dinamico e non più statico, come presso i Greci. Gli enti studiati vengono detti FORME e l'attenzione è rivolta alle QUALITA' di queste forme, non alle quantità. Si avverte dunque lo spostamento da una visione della realtà di tipo quantitativo e atemporale ad una di tipo qualitativo, dinamico. Le qualità sono per esempio la velocità6, l'accelerazione (anche questa intesa in modo intuitivo, come variazione di velocità); la densità (qualità dei corpi); la temperatura (qualità dei corpi); l'intensità d'illuminazione (qualità dei corpi) e molti altri concetti che non hanno nulla a che fare con la scienza come l'odio, l'amore, ... Successivamente i filosofi scolastici discussero del problema della quantificazione delle forme e delle qualità. Ogni forma era soggetta a variazioni, ad una certa variabilità di qualità; poteva cioè subire una intensio, cioè un accrescimento di qualità, oppure una remissio, cioè una diminuzione di qualità. La quantificazione avviene mediante la rappresentazione con un segmento. Ricordiamo brevemente che il segmento nella geometria greca era visto come un ente geometrico, che spesso rappresentava una grandezza, cioè qualcosa di quantificato non con la teoria della misura (unità di misura, ecc.), ma con la teoria delle proporzioni. Ora invece il segmento serve a rappresentare la variazione di qualità (variazione di velocità, di accelerazione... ed anche di sentimenti come l’odio, l'amore, l'amicizia, ecc.). Vedremo questo processo di quantificazione farsi esplicito nella scuola di Parigi del XIV secolo, che vede come principale esponente Nicole Oresme (1323 - 1382). Ritornando ora alla scuola di Oxford esponiamo uno dei principali contributi scientifici, che è passato alla storia come la "regola mertoniana"7. Regola mertoniana "Se un punto materiale P si muove di moto uniformemente accelerato, la distanza percorsa nell'intervallo di tempo [t1, t2] (0 < t1< t2) è uguale a quella che percorre un altro punto materiale Q, dotato di moto uniforme nello stesso intervallo temporale [t1, t2] e con velocità pari a quella di P nell'istante medio dell'intervallo." 6 La velocità è per i filosofi medioevali una qualità del moto; è considerata in senso intuitivo e non s  s0 t  0 t  t o quantitativo come noi: lim 7 Esporremo tale regola con il nostro linguaggio, sottolineando però che i filosofi inglesi non attribuivano lo stesso significato alle parole usate. 55 Tale regola è per noi un semplice teorema di cinematica che si dimostra così: P si muove di moto uniformemente accelerato, dunque la sua legge di moto è s = 1/2 a t2 dove s = lunghezza percorsa in un intervallo [0, t] e ha le dimensioni di una l a = costante, che ha le dimensioni lt-2 t = tempo, che ha le dimensioni t In [t1, t2] (0 < t1< t2) t1  t 2 1 1  s  at 2 2  at12  a t 2  t1  distanza percorsa da P in [t1, t2] 2 2 2 t t t t La velocità di P all'istante 1 2 è data da v = a t, cioè è v = a 1 2 . 2 2 t t Il punto Q si muove di moto uniforme e ha velocità uguale ad a 1 2 dunque la 2 t1  t 2 distanza percorsa da Q in [t1, t2] è:  s  a t 2  t1  C.D.D. 2 Ora però ci vuole un commento che spieghi quale significato i filosofi di Oxford attribuivano alle parole impiegate e quale vi attribuiamo noi. FILOSOFI sec. XIV velocità qualità del moto (concetto intuitivo, vago sentore di ciò che sarà la velocità media, intesa NOI velocità scalare s(t) = ds/dt s(t  h)  s(t ) velocità istantanea lim h 0 h come rapporto spazio-tempo) moto uniforme concepito chiaramente anche senza definizione precisa; sul piano operativo concreto funzionava moto uniformemente accelerato intuitivo s=vt dove s = spazio percorso v = velocità costante t = tempo v = a t accelerazione costante s = 1/2 a t2 con s = spazio, a = accelerazione cost. t = tempo 56 Scuola di PARIGI Attiva nel secolo XIV, ebbe come principale esponente: NICOLE ORESME (1323 - 1382), vescovo di Lisieux e autore del Tractatus de latitudinibus formarum. Con questa scuola si abbandonano i ragionamenti verbali e si procede ad introdurre i diagrammi che servono a sviluppare l'intuizione geometrica. Per questi motivi Oresme viene considerato un anticipatore della geometria analitica, oltre al più illustre rappresentante della transizione nel processo di quantificazione dalla fase verbale a quella simbolica odierna. Abbiamo detto che i filosofi medioevali avevano un concetto intuitivo della velocità, un concetto primitivo della velocità media in un intervallo di tempo (come rapporto fra lo spazio e il tempo) e molta sarà ancora la strada da percorrere per giungere al nostro concetto di velocità istantanea 8. Tuttavia Oresme, ispirandosi ai concetti di longitudine e di latitudine propri della geografia, pensò di operare in modo analogo su una superficie piana. Per rappresentare la velocità considerò su una retta orizzontale dei punti, che rappresentavano gli istanti di tempo (o longitudini) e da questi tracciò un segmento perpendicolare, la cui lunghezza rappresentava la velocità nell'istante in esame (latitudine - intensità della velocità). Unendo poi gli estremi di questi segmenti otteneva una superficie che rappresentava la quantità della qualità, ovvero lo spazio percorso. Oresme studia via via qualità (in particolare velocità) uniformi, uniformemente difformi, difformemente difformi, secondo la sua terminologia. Di queste qualità fornisce la seguente rappresentazione grafica, corrispondente per noi rispettivamente al moto uniforme, al moto uniformemente accelerato (nel 1° caso con velocità iniziale nulla, nel 2° caso con velocità iniziale diversa da zero) e al moto vario. uniforme uniformemente difforme difformemente difforme In una accentuata intuizione le aree rappresentavano il percorso effettuato. Le figure geometriche (rettangolo, triangolo, trapezio, ...) riuscivano a rappresentare fenomeni fisici, legati alla variabilità. Ad esempio il trapezio forniva un’immediata rappresentazione della regola mertoniana9. Le longitudini e latitudini di Oresme si trasformeranno successivamente in assi cartesiani. Si tenga però presente che Oresme era interessato alle Latitudo formarum, cioè alla quantificazione delle qualità (nel caso citato sopra le velocità), ma non ancora alle relazioni algebriche tra longitudini e latitudini, che sarà una conquista del XVII secolo. La rappresentazione grafica di una quantità variabile è la grande novità che trapela dall'opera di Oresme. Tale opera venne molto studiata nel periodo che va da Oresme a Galileo e comparve in numerose copie manoscritte. Venne stampata almeno quattro volte fra il 1482 e il 1515. Il Tractatus de latitudinibus formarum era solo una parte di un’opera più vasta, il Tractatus de figuratione potentiarum et mesurarum in cui Oresme suggeriva una estensione tridimensionale della sua "latitudo formarum", in cui una funzione di due variabili indipendenti veniva raffigurata come un volume formato da tutte le ordinate innalzate, secondo una regola data, dai punti di una porzione del 8 9 s(t  h)  s(t ) h 0 h lim Il trapezio o il triangolo rappresentano la quantità delle velocità in [t 1, t2] relative al moto uniformemente accelerato. Il rettangolo fornisce la quantità delle velocità, relative al moto uniforme [velocità costante, uguale a (v1+v2)/2 ] nello stesso intervallo di tempo. La regola deriva dalla considerazione dell’uguaglianza delle aree. 57 piano di riferimento. Fra l'altro negli scritti di Oresme, come anche in quelli di Oxford, si trovano i termini di "fluente" e di "flussione", che saranno ereditati da Newton (1642-1727). CONTINUITA’ ED INDIVISIBILI Il problema del continuo interessò un grande numero di studiosi sia nell'antichità che nell'era moderna. Innanzi tutto occorre distinguere fra continuo fisico e continuo matematico. Occupandoci solo di questo, fissiamo l'attenzione su di un segmento. Possiamo qui assumere due atteggiamenti: 1) considerare il segmento come ente primitivo e concepire in esso dei punti geometrici 2) pensare al segmento come generato dal moto di un punto. L'atteggiamento 1) è statico. Il segmento, ente unidimensionale, è costituito dalla totalità dei suoi punti, enti privi di dimensioni. In quest’ottica, parlando di superficie (due dimensioni) la si pensa costituita da segmenti (unidimensionali) e parlando di solido (ente tridimensionale) lo si pensa costituito dalla totalità di superfici piane (enti bidimensionali). Grande difficoltà concettuale nell'ammettere che una totalità di enti ad n dimensioni (n = 0, 1, 2, ...) possa venire considerata costituente un ente ad n+1 dimensioni. D’altra parte non è concepibile il processo inverso, cioè passare per divisioni successive dell’ente n+1 dimensionale all’ente n dimensionale. Questa concezione sarà adottata nel sec. XVII da molti matematici per risolvere problemi di integrazione (Cavalieri, Torricelli, Roberval, Pascal, ...). L'atteggiamento 2) è cinematico. Il segmento è ottenuto col moto di un punto, la superficie dal moto di una linea, il volume dal moto di superfici. Questo secondo atteggiamento trova le sue radici nelle scuole medioevali. I termini fluxus e fluens si trovano in T. Bradwardine e R. Swineshead. Nota bene: Segue la Storia dell’algebra esposta nella presentazione in ppt. (vedi fotocopie, il cd N. 7 con presentazioni sulla Storia dell’Algebra è in vendita alla Portineria del Dipartimento).