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Capitolo 5 - Cardiopatia Ischemica

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Capitolo 5 Gaetano A. Lanza Filippo Crea Definizione Il termine cardiopatia ischemica raggruppa una serie di quadri clinici che hanno in comune lo sviluppo di ischemia miocardica, ossia di una sofferenza o un danno delle cellule miocardiche conseguente a un insufficiente apporto di ossigeno rispetto alle loro richieste metaboliche. Epidemiologia La cardiopatia ischemica è di gran lunga la cardiopatia con maggiore incidenza (numero di nuovi casi insorti in un certo periodo di tempo in una popolazione) e prevalenza (numero di casi affetti dalla malattia in una popolazione in un dato momento) nei Paesi sviluppati. Negli Stati Uniti ogni anno muoiono per cardiopatia ischemica circa 550.000 soggetti e la prevalenza della malattia è di circa 13 milioni di individui. In Italia le malattie cardiovascolari sono causa del 45% circa della mortalità globale, e la cardiopatia ischemica è a sua volta responsabile del 35% dei decessi dovuti a malattie cardiovascolari, con un numero annuo di morti pari a circa 130.000. L’incidenza di infarto miocardico è di circa 120.000 nuovi casi per anno. La prevalenza della cardiopatia ischemica nella popolazione italiana è meno nota, ma è verosimilmente intorno al 4%, con una prevalenza simile di infarto miocardico pregresso e storia di angina pectoris. In Italia, quindi, vivono più di 2 milioni di soggetti affetti da cardiopatia ischemica nelle sue varie forme. © 2010 ELSEVIER S.R.L. Tutti i diritti riservati. Eziopatogenesi L’aterosclerosi coronarica è di gran lunga la causa più frequente di cardiopatia ischemica (si veda il Capitolo 4). Tuttavia, aterosclerosi coronarica e cardiopatia ischemica non sono sinonimi. Infatti, come si vedrà, può esservi una coronaropatia aterosclerotica anche grave senza che vi siano evidenti segni clinici di ischemia miocardica e, viceversa, manifestazioni cliniche di ischemia miocardica senza che sia evidenziabile una coronaropatia ostruttiva. L’ischemia miocardica, infatti, può essere causata anche da uno spasmo coronarico, da alterazioni del microcircolo coronarico o da cause extracoronariche. Inoltre, esistono altre cause di coronaropatia ostruttiva, anche se molto meno frequenti dell’aterosclerosi, quali un’embolia coronarica, una coronarite ostiale da aortite 103 Cardiopatia ischemica luetica, un’arterite coronarica nell’ambito di una vasculite (per esempio, poliarterite nodosa, sindrome di Takayasu, malattia di Kawasaki). Infine, anche anomalie congenite delle arterie coronarie possono essere responsabili di ischemia miocardica, alcune già nei primi mesi dopo la nascita (per esempio, l’origine di una coronaria dall’arteria polmonare), altre più tardivamente (per esempio, un decorso anomalo di un’arteria coronaria dopo un’origine dei due rami da un ostio unico). Fisiopatologia dell’ischemia miocardica L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare il consumo miocardico di ossigeno (MVO2). Per discutere i meccanismi fisiopatologici che possono essere causa di ischemia miocardica è opportuno rivedere prima brevemente i principali meccanismi che sono alla base della regolazione del circolo coronarico e i fattori che determinano l’MVO2. Anatomia delle arterie coronarie epicardiche Le arterie che irrorano il cuore sono due, l’arteria coronaria destra e l’arteria coronaria sinistra, che nascono dall’aorta, immediatamente dopo la sua origine, rispettivamente, dalle cuspidi valvolari aortiche anteriori destra e sinistra (Fig. 5.1). L’arteria coronaria destra irrora abitualmente la porzione infero-basale del ventricolo sinistro, la parete posteriore e la parte posteriore del setto (tramite l’arteria discendente posteriore) e il ventricolo destro. L’arteria coronaria sinistra, dopo un breve tratto, chiamato tronco comune, si divide in due rami, l’arteria discendente anteriore (o interventricolare anteriore) e l’arteria circonflessa. L’arteria discendente anteriore sinistra è certamente il ramo più importante e irrora abitualmente tutta la parete anteriore e antero-laterale del cuore, la parte anteriore del setto e la punta. L’arteria coronaria circonflessa, d’altro canto, irrora in genere solo la regione postero-laterale e infero-laterale della parete del ventricolo sinistro. In circa il 20% dei soggetti, tuttavia, l’arteria circonflessa ha un calibro maggiore e, dirigendosi posteriormente lungo il solco atrioventricolare, dà origine all’arteria discendente posteriore, irrorando il territorio infero-posteriore che è più comunemente di pertinenza della coronaria destra (arteria circonflessa dominante). 1 104 Figura 5.1 (a) origine e decorso delle arterie coronarie. (b) tagli trasversali che mostrano la distribuzione abituale dell’irrorazione dei territori miocardici da parte delle singole coronarie. Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO A  =  anteriore; AL  =  antero-laterale; AS  =  antero-settale; CDx  =  arteria coronaria destra; CX  =  circonflessa della coronaria sinistra; D  =  ramo diagonale della discendente anteriore; DA  =  discendente anteriore della coronaria sinistra; DP  =  discendente posteriore della coronaria destra; I  =  inferiore; IL  =  infero-laterale; IS  =  infero-settale; MD  =  ramo del margine acuto della coronaria destra; MO  =  ramo del margine ottuso della circonflessa; P  =  posteriore; PL  =  postero-laterale; PS  =  postero-settale; S  =  settale; TC  =  tronco comune della coronaria sinistra; VD  =  ventricolo destro. Fisiologia del circolo coronarico Dal punto di vista funzionale i vasi arteriosi coronarici ­possono essere suddivisi in due compartimenti principali (Fig. 5.2): (1) vasi di conduttanza, che comprendono i grossi rami epicardici e le loro diramazioni principali; (2) vasi di resistenza, che comprendono le prearteriole e le arteriole. I vasi di conduttanza che hanno un diametro maggiore di 500 mm non offrono significativa resistenza al flusso coronarico, mentre i vasi di resistenza determinano una marcata caduta della pressione di perfusione lungo il loro decorso. Le prearteriole hanno un diametro di 100-500 mm e sono la sede dell’autoregolazione del flusso coronarico, che consente di mantenere il flusso coronarico costante al variare della pressione aortica. Infatti le prearteriole si Figura 5.2 Schema delle sezioni principali della normale circolazione arteriosa coronarica (in alto) e del loro effetto sulla pressione arteriosa di perfusione (in basso). costringono quando la pressione aortica aumenta e si dilatano quando la pressione aortica si riduce, così da mantenere costante il flusso. Il loro tono, inoltre, è influenzato da vari meccanismi neuroumorali ed endotelio-mediati. Le arteriole hanno un diametro inferiore a 100 mm e sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico; esse, infatti, si dilatano quando il consumo miocardico di ossigeno aumenta e si costringono quando si riduce. Anche il tono arteriolare, inoltre, è influenzato da vari fattori neuroumorali. È importante ricordare che, in condizioni basali, l’estrazione di O2 da parte dei miocardiociti è molto alta (circa il 70%); ne consegue, che se la domanda metabolica aumenta, l’unico meccanismo per aumentare l’apporto di O2 è rappresentato da un proporzionale aumento del flusso coronarico, che si attua anzitutto attraverso la vasodilatazione del distretto coronarico arteriolare. La capacità di incremento massimo del flusso, rispetto alla base, in risposta a uno stimolo metabolico è definita riserva coronarica. I fattori che regolano il circolo coronarico sono molteplici e complessi (Fig. 5.3), ma il più importante è certamente rappresentato dalla richiesta metabolica del muscolo cardiaco. Quando questa aumenta, si determina idrolisi di adenosin-trifosfato (ATP) e conseguente liberazione di adenosina nell’interstizio. L’adenosina induce una vasodilatazione a livello delle arteriole, con un conseguente aumento del flusso coronarico proporzionale all’aumento delle richieste metaboliche. L’adenosina non è l’unica sostanza implicata nella regolazione metabolica del flusso coronarico, ma è verosimilmente la principale. Altri elementi che contribuiscono alla regolazione del circolo coronarico sono l’innervazione coronarica, alcune sostanze vasoattive circolanti, come le catecolamine, e le sostanze vasoattive sintetizzate dall’endotelio, in particolare l’ossido nitrico. Normalmente il flusso coronarico può aumentare fino a 4-5 volte durante richiesta massimale di ossigeno. Il flusso coronarico è ovviamente determinato, oltre che dalla resistenza dei vasi coronarici, dalla pressione di perfusione endoluminale (che nei vasi di conduttanza è praticamente identica a quella aortica), e avviene prevalentemente in diastole, poiché in sistole i rami intramurali vengono virtualmente occlusi dalla contrazione ventricolare. A questo proposito va ricordato che la tachicardia predispone allo sviluppo di ischemia miocardica non soltanto perché aumenta l’MVO2, ma anche perché determina un accorciamento della durata della diastole e, quindi, del tempo disponibile per il flusso coronarico. È importante notare che gli strati subendocardici della parete ventricolare miocardica sono generalmente più facilmente soggetti all’ischemia rispetto agli strati subepicardici, e ciò perché essi sono maggiormente esposti alla pressione diastolica endocavitaria, che tende a contrastare il flusso determinato dalla pressione endoluminale e determina anche un MVO2 di base più elevato a causa della maggiore tensione parietale alla quale le cellule subendocardiche vengono esposte. Determinanti del consumo miocardico di O2 La maggiore caduta di pressione (e quindi la maggiore resistenza al flusso) si osserva nelle arteriole, mentre le prearteriole offrono una resistenza al flusso più limitata rispetto alle arteriole. I vasi di conduttanza non offrono alcuna resistenza apprezzabile al flusso. (Da: Maseri A. Ischemic heart disease. New York: Churchill Livingstone Inc.; 1995, modificata.) Il cuore è un organo aerobio e, in condizioni fisiologiche, la determinazione del fabbisogno miocardico di O 2 fornisce un indice accurato del suo metabolismo complessivo. Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 105 1 Figura 5.3 Schema delle componenti che contribuiscono alla regolazione del flusso coronarico. La principale finalità del flusso coronarico è fornire un adeguato apporto di ossigeno (oltre che di sostanze metaboliche) al miocardio (offerta) in relazione al fabbisogno di ossigeno da parte delle cellule miocardiche (domanda), i cui determinanti sono schematizzati nella parte destra della figura. Un apporto ematico insufficiente a soddisfare le richieste metaboliche del miocardio causa ischemia miocardica. (Da: Camm AJ, Serruys PW, Lüscher TF, editors. The ESC textbook of cardiovascular medicine. 2nd ed. London: Blackwell Publ.; 2009, modificata.) Mentre la quantità di energia richiesta per i processi metabolici basali e per l’attivazione elettrica dell’organo è minima, la maggior parte della richiesta energetica, e quindi dell’MVO2, deriva dall’attività meccanica del muscolo cardiaco. Come conseguenza, i principali determinanti dell’MVO2 sono (si veda Fig. 5.3): • la frequenza cardiaca; • il postcarico; • il precarico; • la contrattilità. Come si può intuire, la frequenza cardiaca (ossia il numero di battiti cardiaci al minuto) è il fattore che più di tutti influenza l’MVO2. A ogni battito, infatti, corrisponde una contrazione; così, raddoppiando il numero di battiti, il consumo di ossigeno, in pratica, raddoppia. Il postcarico corrisponde alla tensione delle pareti delle camere cardiache durante la contrazione e dipende principalmente dalla pressione sviluppata al loro interno, che, a sua volta, è determinata dalle resistenze all’eiezione del sangue. Nel caso del ventricolo sinistro, in assenza di ostruzioni all’efflusso, un indice attendibile del postcarico è fornito dalla misurazione della pressione arteriosa sistemica, che rappresenta il secondo fattore principale come determinante dell’MVO2. La tensione sviluppata dalle pareti miocardiche, tuttavia, dipende anche dalla pressione endocavitaria sviluppata dal ritorno venoso, cioè dalla pressione telediastolica ventricolare (precarico). Infine, un aumento dell’inotropismo cardiaco aumenta il lavoro cardiaco, e quindi l’MVO2. In clinica non è possibile rilevare tutte queste variabili; alcune di esse tuttavia sono facilmente misurabili, come la frequenza cardiaca (FC) e la pressione arteriosa (PA). Poiché questi due parametri determinano gran parte della richiesta metabolica miocardica, il prodotto FC × PA sistolica, detto comunemente doppio prodotto, è ritenuto un indice affidabile, semplice e non invasivo, per la valutazione dell’MVO2 e viene comunemente utilizzato a questo scopo nella pratica clinica. Cause dell’ischemia miocardica Stenosi coronariche Come anticipato, il substrato più frequente dell’ischemia miocardica è rappresentato dallo sviluppo di stenosi nei vasi arteriosi coronarici epicardici, causate dalla formazione di placche aterosclerotiche. A tale riguardo sono importanti le seguenti considerazioni. • Perché una stenosi coronarica sia in grado di impedire, quando richiesto, un aumento massimale del flusso coronarico (di ridurre, cioè, la riserva coronarica) essa deve determinare già a riposo una resistenza al flusso; quando ciò avviene si osserva in condizioni basali una caduta di pressione lungo la stenosi, per cui la pressione a valle risulta inferiore a quella a monte della stenosi. • Stenosi dei vasi epicardici che determinano una riduzione del lume  < 50% non causano una caduta di pressione a valle della stenosi. Di conseguenza, esse in genere non sono in grado di causare limitazioni del flusso coronarico e quindi di determinare ischemia, anche durante aumenti massimali della richiesta metabolica del miocardio. • La presenza di una stenosi superiore al 50% del lume, viceversa, determina a valle della stenosi una caduta di pressione che è proporzionale alla riduzione del calibro vasale. Ciò stimola la dilatazione dei vasi di resistenza, che compensa la riduzione della pressione di perfusione garantendo in condizioni basali il mantenimento di un flusso coronarico adeguato. Ne deriva che a riposo non si verifica ischemia miocardica, nonostante la presenza di una stenosi significativa. 106 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO • La vasodilatazione arteriolare basale che si verifica in presenza di una stenosi significativa, tuttavia, limita la capacità di ulteriore vasodilatazione (comporta, cioè, una riduzione della riserva coronarica). Ne deriva che quando si verifica un aumento della domanda di ossigeno (classicamente in seguito a uno sforzo) il circolo coronarico può non essere in grado di aumentare il flusso in modo adeguato a fare fronte all’aumentata richiesta metabolica del miocardio irrorato dal vaso stenotico, a causa della ridotta capacità di vasodilatazione (ossia del precoce esaurimento della propria “riserva”); come risultato si avrà ischemia miocardica. • Se la stenosi riduce il calibro del vaso epicardico di oltre l’80%, il flusso coronarico, in assenza di circoli collaterali, diventa insufficiente già a riposo, a causa dell’esaurimento della capacità di vasodilatazione dei vasi di resistenza arteriolari, e quindi della riserva coronarica. • In presenza di una stenosi coronarica significativa, l’ischemia interessa in genere essenzialmente gli strati subendocardici, che, come detto sopra, sono più esposti all’ischemia rispetto a quelli subepicardici. • Spesso le stenosi coronariche non sono fisse, cioè non causano un grado di riduzione costante del lume vasale, che sarebbe associato a una riduzione fissa della riserva coronarica e quindi alla comparsa di ischemia miocardica sempre per lo stesso aumento di richiesta metabolica. Più frequentemente, le stenosi coronariche sono piuttosto dinamiche, vale a dire presentano variazioni del grado di riduzione del lume per il sovrapporsi di variazioni del tono vascolare a livello della stenosi, che ne aumentano transitoriamente il grado in caso di vasocostrizione o lo riducono in caso di vasodilatazione. Ciò rende rispettivamente più facile o meno facile l’induzione di ischemia, riducendo e aumentando rispettivamente il livello di richiesta metabolica alla quale la riserva coronarica si esaurisce. Le variazioni dinamiche di una stenosi sono dovute in genere a fattori neuroumorali che agiscono sul tono del vaso e spiegano in parte la variabilità della soglia ischemica (ossia il livello di lavoro cardiaco al quale compare l’ischemia) che si osserva spesso nella pratica clinica. Tuttavia, anche variazioni del tono dei vasi di resistenza a valle della stenosi e variazioni del tono vasale in rami collaterali che contribuiscono al flusso nell’area servita dal ramo stenotico possono condizionare il livello del lavoro cardiaco al quale l’ischemia miocardica compare e contribuire alla variabilità della soglia ischemica. Disfunzione del microcircolo coronarico Alterazioni strutturali (fibrosi, ipertrofia) e/o funzionali dei vasi di resistenza arteriosi, che ne compromettono la capacità di vasodilatazione, possono essere responsabili di una riduzione della riserva coronarica, e quindi di ischemia miocardica, in seguito ad aumento della richiesta miocardica di O2, anche in assenza di qualsiasi malattia dei vasi epicardici. Una vasocostrizione sufficientemente intensa e diffusa dei vasi di resistenza può inoltre causa- re ischemia miocardica anche a riposo. La disfunzione del microcircolo è la causa dell’angina microvascolare (si veda oltre). Spasmo coronarico Lo spasmo coronarico è caratterizzato da una vasocostrizione intensa di un segmento di uno o più vasi coronarici epicardici, che determina un’occlusione totale o subtotale del lume vasale con conseguente grave riduzione dell’apporto di O2 al miocardio e quindi ischemia. La grave carenza di ossigeno determinata dallo spasmo coronarico interessa in genere l’intero spessore della regione miocardica irrorata dal vaso (ischemia transmurale). Lo spasmo coronarico è la causa dell’angina vasospastica (si veda oltre). Trombosi coronarica La formazione acuta e imprevedibile di un trombo in un ramo epicardico coronarico ne determina un’occlusione subtotale o totale. La trombosi si verifica in genere a livello di una placca aterosclerotica, spesso non ostruttiva, andata incontro a complicanze (rottura, ulcerazione, erosione, emorragia) che facilitano l’esposizione del tessuto subendoteliale al sangue, causando l’attivazione piastrinica e della cascata della coagulazione che, se non contrastata, porta appunto alla formazione di un trombo. La trombosi coronarica è la causa fondamentale delle sindromi coronariche acute (si veda oltre). Conseguenze dell’ischemia miocardica L’ischemia causa importanti alterazioni miocardiche che si presentano di solito secondo una sequenza temporale tipica, nota come cascata ischemica, che coinvolge, in breve tempo, dapprima l’attività metabolica, poi quella meccanica e poi quella elettrica delle cellule miocardiche; infine, nel paziente può comparire, ma non sempre, il dolore ischemico cardiaco. Queste alterazioni sono reversibili se l’ischemia è transitoria. Se essa si prolunga oltre i 20-30 min le alterazioni cellulari diventano irreversibili e ne consegue la necrosi dell’area ischemica, cioè l’infarto del miocardio. Alterazioni metaboliche In condizioni di normale ossigenazione il miocardio ha un metabolismo strettamente aerobio e catabolizza gli acidi grassi, il suo principale substrato energetico, e il glucosio a CO2 e H2O. In presenza di ischemia gli acidi grassi non possono essere ossidati, per cui, tramite glicolisi anaerobia, il glucosio viene metabolizzato ad acido lattico. Ciò comporta una diminuzione del pH intracellulare e una riduzione delle riserve di fosfati ad alta energia: l’adenosin-trifosfato (ATP) e il creatin-fosfato. La riduzione delle riserve di ATP compromette gli scambi ionici a livello del sarcolemma, con aumento dell’Na+ e riduzione del K+ intracellulare. L’aumento dell’Na+ intracellulare ha come conseguenza un incremento intracellulare di Ca2+ attraverso un aumentato scambio Na+-Ca2+. La ridotta disponibilità di ATP abbassa anche l’assunzione di Ca2+ da parte del reticolo sarcoplasmatico e riduce l’estrusione di Ca2+ dalla cellula. L’aumento del Ca2+ intracellulare produce un sovraccarico Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica di Ca2+ a livello dei mitocondri e ciò deprime ulteriormente la produzione di ATP. Il Ca2+ risulta quindi avere un ruolo centrale nel circolo vizioso che porta al danno irreversibile della cellula in caso di ischemia persistente. Nelle cellule ischemiche si producono anche radicali liberi dell’ossigeno, cioè molecole di ossigeno con un eccesso di elettroni che lo rendono chimicamente molto reattivo. I radicali dell’ossigeno, per mezzo di fenomeni di perossidazione, possono danneggiare i costituenti della membrana cellulare e quindi contribuire al danno ischemico. Un’ischemia di breve durata (o di lieve entità) determina alterazioni reversibili del metabolismo cellulare, che si normalizzano con il ripristino di un flusso coronarico adeguato alle richieste metaboliche. D’altro canto, un’ischemia prolungata (superiore a 20-30 min), soprattutto se grave, finisce con il determinare alterazioni irreversibili nei miocardiociti, che vanno infine incontro a necrosi. È interessante notare che il miocardio che è andato incontro a un’ischemia transitoria (tipicamente di 2-5 min) diviene metabolicamente più resistente a un’ischemia successiva, anche prolungata. Questo fenomeno viene chiamato precondizionamento ischemico. Esso conferisce una protezione contro un’ischemia che si verifichi nelle 2 ore successive all’episodio ischemico transitorio precondizionante (precondizionamento precoce), ma anche contro un’ischemia che insorga tardivamente, dopo 24 ore, e anche fino a 72 ore dopo l’episodio ischemico precondizionante (precondizionamento tardivo). I meccanismi del precondizionamento ischemico (sia precoce sia tardivo) sono complessi e ancora non completamente chiariti. Tuttavia, sembrano giocare un ruolo di rilievo sia l’adenosina liberata dalle cellule miocardiche durante l’ischemia precondizionante, sia l’attivazione dei canali ATP-dipendenti del K+ a livello della membrana cellulare e a livello dei mitocondri. Il meccanismo del precondizionamento ischemico è verosimilmente alla base dell’osservazione che l’infarto del miocardio preceduto da episodi anginosi (angina preinfartuale) presenta una minore gravità ed estensione rispetto a quello che si verifica “a ciel sereno”. Alterazioni meccaniche L’ischemia miocardica determina alterazioni sia della funzione sistolica sia della funzione diastolica del miocardio. Alterazioni della funzione sistolica La funzione contrattile del miocardio ischemico risulta depressa. Nella regione di miocardio ventricolare ischemico si manifesta, quindi, una riduzione o abolizione del normale ispessimento sistolico. Indipendentemente dal fatto che l’ischemia sia transitoria o prolungata, se l’area ischemica è sufficientemente ampia si ha una depressione della funzione globale del ventricolo sinistro con riduzione della gittata sistolica, della portata cardiaca e della frazione di eiezione. Se l’ischemia interessa il 20-25% della massa ventricolare sinistra si ha evidenza clinica di scompenso. Se infine l’ischemia interessa i muscoli papillari o altri segmenti del miocardio coinvolti nel normale funzionamento dell’apparato mitralico si può instaurare un’insufficienza mitralica acuta, che può essere responsabile di sintomi di scompenso cardiaco anche se l’area miocardica ischemica è limitata. Ovviamente, nel caso si sviluppi una necrosi miocardica (a causa del prolungamento dell’ischemia) la disfunzione contrattile della regione colpita dal danno ischemico diventerà persistente. Maggiore sarà l’estensione dell’area infartuata, maggiore sarà il grado di compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro e, quindi, del cuore. Rimane discussa la possibilità che ripetuti episodi ischemici miocardici determinino piccole aree di necrosi con successiva riparazione cicatriziale fibrotica (condizione un tempo definita come “miocardiosclerosi”) che, alla lunga, sommandosi, finiscono per determinare una disfunzione globale della contrattilità ventricolare con conseguente dilatazione miocardica e sintomi di scompenso. In effetti, questo meccanismo è ritenuto possa essere responsabile (o almeno implicato) nei casi di cosiddetta cardiomiopatia postischemica, in cui una compromissione globale della contrattilità cardiaca si verifica in pazienti con una malattia coronarica significativa senza storia clinica di infarto miocardico e anche di evidenti aree infartuate alle tecniche di imaging (si veda il Capitolo 2). Questo quadro, tuttavia, potrebbe anche essere spiegato con la perdita di miocardiociti causata dall’ischemia mediante un meccanismo di apoptosi, piuttosto che di necrosi. L’apoptosi è una forma di morte programmata nella quale le cellule si frammentano in piccoli corpiccioli, detti corpi apoptotici, ancora avvolti da una membrana cellulare, i quali vengono inglobati da cellule fagocitiche. Alla perdita di cellule miocardiche per apoptosi segue un riadattamento delle cellule rimanenti con rimodellamento e dilatazione ventricolare. È da ricordare che il recupero contrattile del miocardio ventricolare dopo un’ischemia transitoria può non avvenire prontamente, nonostante il ripristino di un normale flusso coronarico, ma solo dopo diversi minuti o, in casi di ischemia grave e/o sufficientemente prolungata, anche ore o addirittura giorni dal ripristino del flusso coronarico, un fenomeno che viene definito “stordimento” (stunning) miocardico. D’altro canto, vi sono casi in cui una grave ed estesa malattia coronarica può causare facilmente e frequentemente ischemia miocardica, e in cui, anzi, può esistere uno stato di riduzione del flusso coronarico già a riposo; in questa condizione le cellule miocardiche possono subire modificazioni che le portano ad adattarsi allo stato di grave carenza di apporto ematico, sviluppando uno stato di ipocontrattilità cronica, che, determinando una marcata riduzione del loro fabbisogno di ossigeno, consente loro di sopravvivere; questa condizione è definita “ibernazione” miocardica (hibernation). Alterazioni della funzione diastolica L’ischemia miocardica altera non solo la contrazione, ma anche il rilasciamento ventricolare, come dimostra il prolungamento del periodo di rilasciamento isovolumetrico, con rallentamento della riduzione della pressione (dP/dt negativo) durante la fase iniziale della diastole. Queste alterazioni ostacolano il normale riempimento ventricolare e contribuiscono, insieme alla disfunzione contrattile sistolica, a provocare l’aumento della pressione diastolica che conduce a una congestione venosa a monte. 107 1 108 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Alterazioni elettriche L’ischemia miocardica altera in modo rilevante le proprietà elettriche delle cellule miocardiche, molte delle quali sono mantenute grazie a pompe ioniche che consumano energia (e quindi ossigeno), causando anomalie della fase di depolarizzazione e/o di ripolarizzazione, che si riflettono sull’elettrocardiogramma (ECG). Alterazioni del tratto ST L’ischemia acuta del miocardio è caratterizzata all’ECG principalmente da modificazioni del tratto ST. Il tipo e la sede di queste modificazioni dipendono dalla sede e/o dal grado di ischemia. È utile ricordare che nella terminologia elettrocardiografica classica le alterazioni del tratto ST che compaiono come conseguenza dell’ischemia miocardica sono indicate con il termine “lesione”, termine che ancora oggi è spesso usato per la descrizione di queste modificazioni. Le basi elettrofisiologiche che determinano la comparsa delle tipiche alterazioni del tratto ST all’ECG durante ischemia miocardica possono essere riassunte come segue (Fig. 5.4). • La fase di depolarizzazione è alterata, con riduzione dell’ampiezza del potenziale di azione e rallentamento della velocità di ascesa (fase 0), che si traduce in un rallentamento della depolarizzazione della regione ischemica; allo stesso tempo si ha una riduzione della durata del potenziale di azione, con accorciamento delle fasi 2 e 3; ciò determina, durante la sistole, una differenza di potenziale tra tessuto sano e tessuto ischemico che genera un flusso di corrente diretto verso quest’ultimo. • Il processo di ripolarizzazione delle cellule miocardiche ischemiche, d’altro canto, può essere incompleto, per cui il potenziale di membrana a riposo può attestarsi intorno a −70 mV invece che ai normali −90 mV; questo determina, durante la diastole, una differenza di potenziale tra tessuto sano e tessuto ischemico che genera un flusso di corrente diretto verso il primo. È da notare che, sebbene dal punto di vista elettrofisiologico sia la corrente anomala sistolica sia quella diastolica possano contribuire a determinare le alterazioni rilevabili all’ECG in caso di ischemia miocardica, in effetti la prima è quella che verosimilmente svolge il ruolo maggiore, ed è quindi con riferimento a questa che, per semplicità, si discutono di seguito le conseguenze dell’ischemia sul tratto ST all’ECG. Il tipo di modificazione del tratto ST osservabile all’ECG dipende anzitutto dalla localizzazione dell’ischemia nel miocardio, vale a dire se essa interessa solo o prevalentemente gli strati subendocardici, come avviene nelle forme più frequenti di ischemia, o interessa la parete miocardica a tutto spessore, e quindi coinvolge anche gli strati subepicardici. • In caso di ischemia subendocardica, durante la sistole si genererà una corrente di lesione diretta dall’epicardio all’endocardio. In termini vettoriali, ciò si traduce in un vettore di lesione che si dirige dal tessuto sano verso il subendocardio. Se si pone un elettrodo esplorante sulla parete toracica, questo vedrà il vettore allontanarsi, per cui nella derivazione corrispondente si registrerà un sottoslivellamento del tratto ST (si veda Fig. 5.4). Figura 5.4 Schema delle due teorie alla base della genesi delle alterazioni ischemiche del tratto ST all’ECG. Come esempio viene illustrato il caso dell’ischemia subendocardica (regione marrone della sezione della parete ventricolare sinistra). Teoria sistolica (in alto): durante la diastole non vi sono differenze di potenziale tra le cellule della regione ischemica e non ischemica; il potenziale di membrana a riposo (fase 4) del potenziale di azione è infatti identico nelle cellule delle due regioni. Durante la sistole, tuttavia, il potenziale di azione delle cellule ischemiche (IS) è meno positivo (l’esterno delle cellule è quindi più positivo) delle cellule non ischemiche (NI); ciò determina un flusso di corrente diretto verso la regione ischemica endocardica (Endo), che si allontana, quindi, dall’elettrodo esplorante posto sul torace (E); ne risulta la registrazione all’ECG di un sottoslivellamento del tratto ST. Teoria diastolica (in basso): secondo questa teoria, all’induzione dell’ischemia, il potenziale di membrana a riposo diventa minore nelle cellule ischemiche (IS) rispetto a quelle non ischemiche (NI); ciò determina un flusso di corrente in diastole che si allontana dalla regione ischemica ed è diretto, quindi, verso l’elettrodo toracico esplorante E; ne deriva un sopraslivellamento del tratto T-P, che apparirà all’ECG come linea isoelettrica, quando in realtà essa è posizionata al di sopra della reale linea isoelettrica (linea tratteggiata); durante la sistole non vi sono differenze di potenziale tra la regione ischemica e non ischemica, per cui il tratto ST torna alla reale linea isoelettrica, determinando la comparsa di un apparente sottoslivellamento del tratto ST. Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica • In caso di ischemia transmurale, le alterazioni elettrofisiologiche riguardano le cellule dell’intero spessore della parete miocardica della regione ischemica. In termini vettoriali ciò si traduce in un vettore di lesione che si dirige dal tessuto sano verso il tessuto ischemico, che comprende anche il subepicardio. Se si pone un elettrodo esplorante sulla parete toracica, esso si troverà a più diretto contatto con l’area ischemica del subepicardio. Ne conseguirà un vettore di lesione (corrente di lesione) diretto verso l’elettrodo esplorante, e quindi la registrazione all’ECG di un onda positiva, vale a dire un sopraslivellamento del tratto ST (Fig. 5.5). Alterazioni dell’onda T In pazienti con episodi di ischemia miocardica si possono osservare spesso all’ECG anomalie dell’onda T, che rappresenta la fase di ripolarizzazione dei ventricoli. In effetti, classicamente il termine “ischemia” all’ECG è stato applicato proprio alle alterazioni dell’onda T, ma si è poi evidenziato come in realtà tali modificazioni solo occasionalmente sono quelle che si manifestano quando si instaura un’ischemia acuta del miocardio, mentre più spesso si possono osservare in associazione o alla risoluzione delle alterazioni del tratto ST o come anomalie croniche in aree soggette a ischemia, caratterizzate dalla negativizzazione dell’onda T, classicamente con morfologia a branche simmetriche (Fig. 5.6). Un’onda T negativa, inoltre, rimane spesso per molto tempo o indefinitamente nelle derivazioni che mostrano i segni di una pregressa necrosi miocardica. Queste alterazioni sembrano legate a un prolungamento della fase 3 del potenziale di azione, e quindi della ripolarizzazione ventricolare, nelle aree ischemiche. Ciò crea, durante la fase di ripolarizzazione, una differenza di potenziale tra la regione ischemica (che rimane più a lungo negativa) e le aree non ischemiche che causa un flusso di corrente che si allontana dalla prima (si ricorda, infatti, che, per convenzione, il vettore di una corrente elettrica ha sempre il verso diretto verso le aree con cari- che positive). Così, un elettrodo esplorante posizionato sulla regione ischemica vedrà allontanarsi il vettore della corrente, dando origine nella derivazione corrispondente a un’onda T negativa. Si deve osservare che in alcuni pazienti con ischemia acuta si può notare la comparsa all’ECG di onde T alte, strette e appuntite (onde T “a tenda”) (Fig. 5.7). Queste alterazioni si possono rilevare in particolare nelle primissime fasi di un infarto miocardico acuto (ischemia iperacuta) e sono indicative di un’ischemia localizzata agli strati subendocardici. Un’ischemia che determini un ritardo della ripolarizzazione nella sola regione subendocardica, infatti, causa durante questa fase un flusso di corrente che si allontana dal subendocardio ed è diretto verso l’epicardio; di conseguenza, un elettrodo localizzato sul torace registra un’onda T positiva con le peculiarità descritte. La registrazione di onde T alte e appuntite come segno di ischemia subendocardica acuta all’ECG è tuttavia rara, in quanto esse sono in genere fugaci e presto sovrastate dalle più classiche e durature alterazioni del tratto ST. 109 1 Figura 5.5 Genesi del sopraslivellamento del tratto ST durante ischemia miocardica transmurale in base alla teoria sistolica (si veda Fig. 5.4). Tutta le regione ischemica si presenta meno negativa in sistole rispetto alle circostanti regioni non ischemiche. Il flusso di corrente diretto verso la regione ischemica interessa anche il subepicardio (Epi), per cui l’elettrodo esplorante (E) registra in questa fase una corrente diretta verso di essa, e quindi un sopraslivellamento del tratto ST. Figura 5.6 Onde T cronicamente negative in sede antero-laterale in un paziente con storia di angina da sforzo. 110 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.7 Onde T alte e appuntite indicative di ischemia subendocardica acuta registrate durante un episodio di angina. Onda Q di necrosi miocardica Quando si verifica la necrosi di una regione miocardica (infarto), questa non conterrà più cellule elettricamente attive; essa, cioè, diviene “elettricamente muta”. All’ECG ciò determina la comparsa di un’onda Q patologica nelle derivazioni prospicienti la necrosi. Per comprendere il motivo della comparsa di onde Q nelle derivazioni ECG che esplorano una regione miocardica colpita da infarto bisogna ricordare che normalmente la depolarizzazione delle pareti ventricolari procede in ogni regione miocardica dall’endocardio verso l’epicardio; ne deriva che i vettori di depolarizzazione della parete anteriore sono diretti verso l’avanti, quelli della parete inferiore verso il basso, quelli della parete posteriore all’indietro, e così via. Quando si determina la necrosi di una regione del miocardio (infarto miocardico), i vettori diretti verso quella zona vengono meno, mentre persisteranno i vettori diretti in senso opposto. Il risultato finale è la comparsa di un vettore di depolarizzazione che “fugge” dalla zona di necrosi (Fig. 5.8). Pertanto, nel caso in cui l’elettrodo esplorante (positivo) di una derivazione sia posizionato sopra l’area di necrosi, in quella derivazione si avrà un’onda negativa nella parte iniziale del QRS, cioè un’onda Q (si veda oltre, Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST). Poiché piccole onde Q sono spesso presenti fisiologicamente in alcune derivazioni dell’ECG in soggetti normali, perché un’onda Q possa essere considerata patologica, cioè indicativa di necrosi miocardica, deve avere una durata Figura 5.8 Schema della genesi dell’onda Q nell’infarto miocardico nelle derivazioni ECG prospicienti l’area di necrosi. L’area di necrosi (regione in rosso) determina una “finestra” elettrica. Pertanto l’elettrodo esplorante registra l’attività elettrica della parete opposta. ≥ 0,04 sec. Altri criteri a favore della natura infartuale di un’onda Q comprendono una profondità (ampiezza) ≥ 25% dell’onda R e la presenza di uncinature, soprattutto nella sua branca discendente. Va sottolineato che l’onda Q di necrosi è il segno ECG caratteristico della necrosi miocardica che interessa a tutto spessore la parete ventricolare (necrosi transmurale). Nei pazienti con infarto miocardico che interessa solo gli strati subendocardici, viceversa, si rilevano in genere esclusivamente alterazioni più o meno marcate diffuse del tratto ST e/o dell’onda T. Se un infarto subendocardico interessa più della metà dello spessore della parete miocardica, tuttavia, l’aspetto elettrocardiografico è spesso simile a quello di un infarto transmurale. Il dolore ischemico cardiaco L’ultimo evento della cascata ischemica, in ordine temporale, è il dolore ischemico cardiaco. Se è causato da un’ischemia transitoria, ed è quindi di breve durata, il dolore ischemico cardiaco viene definito angina pectoris. Se è causato da un un’ischemia prolungata o persistente, la quale finisce inevitabilmente con il causare necrosi miocardica, viene abitualmente definito dolore infartuale. Pertanto angina pectoris e dolore infartuale sono manifestazioni cliniche di gravità crescente dell’ischemia miocardica. Meccanismi del dolore ischemico cardiaco I meccanismi neurofisiologici che portano alla comparsa di angina, a dispetto della frequenza con cui questo sintomo si verifica nella popolazione, rimangono ancora non completamente chiariti. È probabile che diversi fattori contribuiscano a stimolare le fibre dolorifiche miocardiche responsabili del dolore durante l’ischemia. Particolare importanza si ritiene abbia la liberazione di adenosina, la quale non solo, come visto, ha un ruolo centrale nella regolazione metabolica del flusso coronarico (mediato dalla stimolazione dei recettori A2 delle cellule muscolari lisce arteriolari), ma è anche una potente sostanza algogena (mediante stimolazione dei recettori A1 sulla membrana delle cellule nervose cardiache afferenti). Altri stimoli Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica chimici che potrebbero essere in qualche modo implicati nella genesi del dolore anginoso comprendono gli ioni K+ e H+ e la bradichinina. Inoltre, anche stimoli meccanici, legati all’edema e all’aumento della pressione interstiziale che il processo ischemico causa, potrebbero determinare la stimolazione delle fibre afferenti dolorifiche cardiache. Anche le modalità di trasmissione del segnale dolorifico sono ancora poco note. In particolare, è discusso se lo stimolo algogeno sia condotto da fibre nervose specializzate in questa funzione (teoria della specificità), o se esso sia condotto da fibre polimodali che segnalano la natura dolorifica dello stimolo solo in base all’intensità della loro eccitabilità (teoria dell’intensità). In ogni caso, una volta originato, il segnale dolorifico cardiaco viene trasmesso attraverso i nervi simpatici e, in parte, vagali a livello dei neuroni delle corna dorsali del midollo spinale. Da qui, un secondo neurone porta l’impulso al talamo e un terzo alla corteccia temporo-parietale, dove il segnale viene elaborato come dolorifico (Fig. 5.9). È importante osservare che la trasmissione centrale dello stimolo dolorifico cardiaco è modulata a vari livelli lungo il suo percorso. Una delle modulazioni più importanti avviene probabilmente a livello del midollo spinale, dove alcuni neuroni sono in grado di inibire la trasmissione dell’impulso quando lo stimolo è modesto; stimoli dolorifici sufficientemente intensi, d’altro canto, inattivano questi neuroni consentendo il passaggio dello stimolo dolorifico (teoria del “gate” di Melzack e Wall). I secondi neuroni dell’asse neuronale dolorifico cardiaco, che si trovano nel midollo spinale, ricevono anche, e soprattutto, fibre che veicolano segnali di provenienza dalla superficie metamerica cutanea corrispondente. Ne consegue che, a livello centrale, lo stimolo dolorifico cardiaco sarà riferito a livello superficiale alla regione cutanea i cui protoneuroni si connettono ai neuroni midollari che ricevono l’impulso dolorifico durante ischemia miocardica. Nella maggior parte dei casi, le connessioni delle fibre nervose cardiache a livello centrale non sono specifiche della regione miocardica di origine, per cui non è possibile discriminare la sede di provenienza del dolore cardiaco in base alla sede di riferimento. Caratteristiche del dolore ischemico cardiaco Le caratteristiche del dolore ischemico cardiaco comprendono la qualità, la sede, le eventuali irradiazioni, le modalità di insorgenza e risoluzione, e alcune altre caratteristiche. Queste sono spesso tipiche e consentono di giungere facilmente alla diagnosi con un’accurata anamnesi. Tuttavia, in non pochi casi le caratteristiche del dolore toracico non sono propriamente tipiche e la diagnosi richiede una sufficiente capacità di sospetto clinico. Qualità del dolore  Il dolore ischemico cardiaco è tipico quando si presenta come oppressivo o costrittivo, ma in alcuni casi può essere di tipo urente o come un senso di peso. Esso è tipicamente caratterizzato da inizio e cessazione graduali e, elemento importante, non è influenzato dagli atti respiratori, dalla posizione del corpo e dalla digitopressione sulla parete toracica. Localizzazione  Tipicamente il dolore ischemico cardiaco è localizzato in sede retrosternale e il paziente lo indica spesso ponendo la mano sulla regione sternale. 111 1 Figura 5.9 Schema delle vie nervose afferenti coinvolte nella genesi e trasmissione del dolore cardiaco ischemico. Lo stimolo algogeno a partenza dal cuore viene condotto ai gangli cardiaci, mediastinici e toracici, e quindi raggiunge i neuroni situati nelle corna dorsali del midollo spinale. Se supera questo primo sbarramento (“gate”), raggiunge il talamo mediante il tratto spinotalamico. Dal talamo viene trasmesso ai centri sensitivi corticali. Questo impulso è modulato a vario livello da impulsi ascendenti e discendenti in grado di inibire, o anche potenziare, la trasmissione del segnale. Irradiazione  Il dolore ischemico cardiaco può irradiarsi verso varie sedi, che in rare occasioni possono essere la localizzazione principale, o anche unica, del dolore stesso. Le irradiazioni più tipiche del dolore anginoso sono la superficie ulnare dell’arto superiore sinistro, le spalle e il collo. Tuttavia, sedi non rare di irradiazione sono mandibola, epigastrio, regione interscapolo-vertebrale e anche braccio destro. Fattori precipitanti  L’insorgenza del dolore ischemico cardiaco è, nella forma più tipica, ricollegabile a una causa scatenante, anzitutto l’esercizio fisico, ma anche condizioni di stress emotivo, l’esposizione a una temperatura rigida, il pranzo, un rapporto sessuale, una crisi ipertensiva. Esso può comunque insorgere anche a riposo o di notte. Durata  Tipicamente l’angina pectoris dura solo pochi minuti (da 1-2 a 5-10 min). Tuttavia, nelle forme più gravi, la durata può arrivare anche a 20-30 min. È importante sottolineare che una durata maggiore di un tipico dolore ischemico cardiaco indica una condizione di persistenza dell’ischemia che porta inevitabilmente a necrosi miocardica (dolore infartuale). Risposta ai nitrati sublinguali  La somministrazione di trinitrina o isosorbide dinitrato per via sublinguale o buccale (spray) ha la capacità di determinare una regressione più rapida del dolore anginoso rispetto al decorso spontaneo, con risposta entro 2-5 min dall’assunzione. Somministrati prima di eseguire un’attività nota per essere 112 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO in grado di causare angina, i nitrati possono prevenire la comparsa del sintomo. In contrasto, i nitrati sono inefficaci sul dolore infartuale. Classificazione dell’angina L’angina può essere classificata in modo diverso a seconda che si utilizzino criteri fisiopatologici, descrittivi o clinicoprognostici. Criteri fisiopatologici  Sulla base dei meccanismi fisiopatologici che la determinano, l’angina pectoris può essere distinta in angina primaria e angina secondaria. L’angina primaria è così detta in quanto dovuta a una primaria riduzione del flusso coronarico. Essa si verifica, quindi, tipicamente a riposo, ed è dovuta a un’ostruzione temporanea di un vaso coronarico, causata da spasmo coronarico, da trombosi coronarica transitoria o da entrambi. L’angina secondaria, viceversa, è quella che insorge solo secondariamente a un aumento della richiesta di ossigeno da parte del miocardio (classicamente in relazione a uno sforzo), che eccede la possibilità di aumento del flusso coronarico richiesto. Il substrato è in genere rappresentato da stenosi emodinamicamente significative nei vasi epicardici, ma in alcuni casi l’alterazione risiede in una disfunzione del microcircolo coronarico, In clinica i meccanismi fisiopatologici responsabili delle forme primarie e di quelle secondarie di angina possono combinarsi in vario modo a determinare gli episodi anginosi in uno stesso paziente, una condizione che viene spesso definita angina mista. Criteri descrittivi  L’angina viene spesso definita anche in base a semplici caratteristiche descrittive, che, tuttavia, sottendono spesso specifici meccanismi fisiopatologici, o anche, in alcuni casi, particolari implicazioni prognostiche e terapeutiche. Così, nella pratica clinica sono spesso usati termini quali angina da freddo (causata dall’esposizione a basse temperature e dovuta a vasocostrizione coronarica e aumento della pressione arteriosa), angina postprandiale (che si manifesta, in genere, in seguito a sforzi modesti solo quando effettuati dopo un pasto e può suggerire la presenza di una malattia coronarica grave), angina da stress (connessa prevalentemente a situazioni di stress emotivo) e angina da decubito (causata dall’assunzione della posizione clinostatica, che aumenta il lavoro cardiaco mediante aumento del precarico). Quadri descrittivi di angina spesso indicativi di una condizione di alto rischio comprendono, in particolare, l’angina di recente insorgenza (nelle 4 settimane precedenti), l’angina in crescendo (caratterizzata, in un paziente con angina da sforzo, da una riduzione progressiva della soglia ischemica, con comparsa dell’angina per sforzi sempre più lievi), l’angina a riposo (con episodi spesso ricorrenti e/o di durata protratta e/o scarsamente sensibili ai nitrati sublinguali) e l’angina precoce postinfartuale (caratterizzata dalla comparsa di angina, spesso a riposo o per minimi sforzi, nella fase subacuta di un infarto miocardico acuto). Criteri prognostici  Dal punto di vista delle implicazioni prognostiche, l’angina viene distinta in due grandi forme, l’angina stabile e l’angina instabile, che costituiscono le due principali sindromi anginose della malattia coronarica e si distinguono principalmente sulla base della stabilità o meno del quadro clinico nel tempo. L’importanza della distinzione risiede principalmente nella diversa potenziale evoluzione a breve termine verso lo sviluppo di sindromi coronariche più gravi, come l’infarto miocardico e l’arresto cardiaco, che è, come si vedrà, molto bassa nel caso dell’angina stabile e significativamente più elevata nel caso dell’angina instabile. Altre manifestazioni cliniche dell’ischemia miocardica È importante notare che, sebbene il dolore ischemico cardiaco sia il sintomo più frequente e caratteristico dell’ischemia miocardica, questa in alcuni casi può manifestarsi con altri sintomi, definiti equivalenti anginosi, che comprendono: • dispnea, indicativa di un’insufficienza ventricolare sinistra acuta; ciò si può determinare quando l’ischemia è sufficientemente estesa da alterare in modo significativo la funzione sistolica, o anche diastolica, del ventricolo sinistro, con conseguente aumento della pressione telediastolica e incremento della pressione nei capillari polmonari; • astenia, legata a una riduzione transitoria della funzione sistolica in grado di causare una diminuzione della portata con ipoperfusione muscolare; • palpitazioni, causate da disturbi del ritmo, conseguenti all’instabilità elettrica che l’ischemia miocardica può provocare; il paziente può avvertire un semplice cardiopalmo o, in casi di aritmie gravi, soffrire di sincope o lipotimia. Ischemia silente La valutazione delle alterazioni del tratto ST e dei sintomi durante ECG da sforzo, e ancor più durante le normali attività all’ECG dinamico, ha permesso di evidenziare come spesso episodi di ischemia miocardica transitoria non siano associati ad angina, né ad altri sintomi (sono, cioè, silenti). I pazienti con ischemia silente possono essere suddivisi in due gruppi principali: (1) pazienti che non hanno mai avuto sintomi legati all’ischemia (ischemia costantemente silente); (2) pazienti che hanno avuto o presentano anche episodi sintomatici di ischemia (ischemia episodicamente silente). Al primo gruppo appartengono soggetti apparentemente sani, soggetti che hanno sofferto di un infarto miocardico senza sintomi (che viene scoperto occasionalmente durante la registrazione di un ECG) e soggetti che sviluppano un’insufficienza cardiaca dovuta a un danno ischemico progressivo del miocardio senza che sia identificabile un chiaro infarto miocardico pregresso o una storia di angina (cardiomiopatia ischemica). Al secondo gruppo appartengono pazienti con storia di angina di vario tipo (stabile, instabile, variante, microvascolare), nei quali la maggior parte degli episodi di ischemia transitoria rilevabili con gli esami strumentali sono in Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica effetti asintomatici (Fig. 5.10), o anche soggetti che dopo un infarto miocardico acuto sintomatico presentano un test da sforzo o un ECG dinamico con segni di ischemia miocardica in assenza di sintomi. La prevalenza di ischemia miocardica totalmente silente è difficile da stabilire con certezza. Alcuni studi con ECG dinamico hanno evidenziato come episodi di sottoslivellamento del tratto ST compatibili con ischemia miocardica siano riscontrabili solo in una piccola percentuale di soggetti adulti sani asintomatici. Il rischio di eventi cardiaci in questi soggetti è peraltro molto basso, per cui non si ritiene giustificato uno screening di massa per evidenziare un’eventuale ischemia silente nella popolazione sana. Molto meglio documentati sono i dati riguardanti l’incidenza dell’ischemia episodicamente silente. In base a studi con ECG dinamico almeno il 70-75% degli episodi di ischemia transitoria è asintomatico, indipendentemente dai meccanismi che sono responsabili dell’ischemia. Infine, la maggior parte dei pazienti con esiti di infarto miocardico che presentano un test da sforzo positivo per ischemia miocardica residua non riferisce sintomi durante l’esame. Come detto, i meccanismi fisiopatologici alla base dell’ischemia silente sono gli stessi di quelli dell’ischemia sintomatica. Prova indiretta di ciò è che gli episodi silenti e quelli sintomatici hanno la stessa distribuzione nell’arco della giornata (si veda Fig. 5.10) e rispondono allo stesso modo ai diversi interventi terapeutici. Le ragioni per cui a volte gli episodi sono accompagnati da angina e altre volte sono completamente asintomatici non sono completamente chiare. Si è ipotizzato che i pazienti con ischemia silente abbiano una soglia del dolore più alta. Ad avvalorare questa ipotesi vi è il riscontro di livelli di endorfine più elevati in questi soggetti rispetto a quelli con ischemia sintomatica. Questa ipotesi può essere tuttavia valida per i soggetti con ischemia costantemente silente, mentre difficilmente può spiegare perché nello stesso paziente, e in tempi molto ravvicinati, un episodio sia silente e un altro sintomatico. Per questo gruppo, che è il più numeroso, si è avanzata l’ipotesi che il sintomo compaia in rapporto a episodi di ischemia più gravi e prolungati. Infatti, gli episodi sintomatici rilevati durante registrazioni di ECG dinamico tendono ad associarsi a episodi di sottoslivellamento del tratto ST più marcati e più prolungati. Questa relazione, tuttavia, non è costante; anche nello stesso individuo, infatti, si possono avere episodi prolungati asintomatici ed episodi brevi accompagnati da angina. Anche l’ipotesi che la sensazione dolorosa sia legata alla stimolazione dei meccanocettori miocardici, e che quindi sia presente solo in presenza di un’acuta e marcata dilatazione ventricolare sinistra conseguente all’ischemia, non è stata confermata dagli studi clinici. Un’importante osservazione è che, mentre sarebbe intuitivo ipotizzare che l’assenza del dolore nell’ischemia silente possa esporre il paziente a un maggiore rischio, in quanto non allertato dal sintomo sulla presenza di ischemia e quindi non spinto a interrompere o comunque ad attenuare l’eventuale causa scatenante, di fatto gli studi clinici non hanno mostrato un rischio maggiore di eventi nei soggetti con ischemia silente rispetto a quelli prevalentemente sintomatici. Poiché i meccanismi fisiopatologici sono gli stessi dell’ischemia sintomatica, la terapia dell’ischemia silente non differisce da quella dell’angina e sarà quindi dettata dalle caratteristiche della storia clinica e degli episodi ischemici. La consapevolezza che la maggior parte degli episodi ischemici è asintomatica consiglia di verificare l’efficacia di una terapia antianginosa non soltano sulla base dell’andamento dei sintomi, ma anche con controlli periodici dell’ECG dinamico e con la valutazione delle alterazioni ECG durante test da sforzo. 113 1 Il dolore ischemico cardiaco come sistema di allarme Dal punto di vista pratico è utile considerare il dolore ischemico cardiaco come il sistema di allarme del cuore, che suona in caso di pericolo (cioè di ischemia miocardica). Il sistema di allarme cardiaco, come gli altri sistemi viscerali di allarme, è tuttavia meno efficiente dei sistemi di allarme somatici. Infatti, spesso esso non suona quando dovrebbe suonare (è il caso dell’ischemia silente), altre volte suona eccessivamente in assenza di un danno grave (è il caso, come si vedrà dell’angina microvascolare); infine, esso non fa capire chi sta suonando (infatti, il suono è lo stesso indipendentemente dalla causa o dal meccanismo). Tuttavia, il modo Figura 5.10 Distribuzione circadiana di episodi di ischemia miocardica rilevati all’ECG dinamico di 24 ore. Distribuzione in: (a) pazienti con angina cronica stabile (episodi di sottoslivellamento del tratto ST); (b) pazienti con angina variante (episodi di sopraslivellamento del tratto ST). In entrambi i gruppi la maggior parte degli episodi ischemici è silente (in giallo) e solo una minoranza è associata ad angina (in rosso). 114 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO in cui il suono si ripete può dare informazioni preziose sulla causa dell’ischemia e, quindi, sulla prognosi. Infatti, se il suono si ripete sempre allo stesso modo, significa che le cause che lo determinano sono stabili (è questo il caso dell’angina stabile e dell’angina microvascolare). Se invece il suono diventa più frequente, incalzante o prolungato, significa che il livello di allarme è aumentato perché qualcosa è cambiato in senso peggiorativo, per cui è necessario che si intervenga in modo appropriato nel più breve tempo (è questo il caso delle sindromi coronariche acute). Manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica La cardiopatia ischemica può manifestarsi come cardiopatia ischemica cronica o come sindrome coronarica acuta. La cardiopatia ischemica cronica, a sua volta, può avere quattro diverse presentazioni cliniche: • angina cronica stabile; • angina microvascolare; • angina variante; • cardiomiopatia dilatativa postischemica. Le sindromi coronariche acute, a loro volta, possono avere tre diverse presentazioni cliniche: • sindromi senza sopraslivellamento persistente del tratto ST; • sindromi (infarto miocardico acuto) con sopraslivellamento persistente del tratto ST; • morte improvvisa coronarica. In circa il 60% degli uomini e il 40% delle donne la prima manifestazione della cardiopatia ischemica è una sindrome coronarica acuta. È importante notare che i diversi quadri clinici della cardiopatia ischemica possono succedersi nel tempo in uno stesso paziente. Per esempio, l’esordio può essere una sindrome coronarica acuta, seguita da un periodo di angina stabile. Il periodo di stabilità può essere interrotto da un secondo episodio acuto che, se causa la perdita di una quantità rilevante di miocardio, può essere seguito da un quadro clinico tipico di miocardiopatia postischemica. Ovviamente sono possibili diverse altre combinazioni e successioni dei vari quadri clinici della cardiopatia ischemica. Le diverse sindromi coronariche hanno alla base specifici meccanismi fisiopatologici, o una loro variabile combinazione, che sono schematicamente illustrati nella figura 5.11. Angina cronica stabile Definizione L’angina cronica stabile è caratterizzata da episodi di angina pectoris che presentano caratteristiche costanti da almeno due mesi. Tipicamente, gli attacchi anginosi sono causati da sforzi fisici o altre situazioni che aumentano la domanda miocardica di ossigeno, come stress emotivi o crisi ipertensive. L’eliminazione del fattore scatenante, come l’interruzione dello sforzo, determina la regressione della sintomatologia. È importante sottolineare che la diagnosi di angina stabile prescinde dalla gravità e dalle caratteristiche del quadro anginoso, mentre si basa essenzialmente sulla stabilità dei sintomi stessi nel tempo. La stabilità del quadro clinico è una spia della presenza di lesioni coronariche croniche, esenti da complicanze trombotiche acute o recenti. Fisiopatologia L’alterazione anatomopatologica fondamentale dell’angina stabile è rappresentata dalla presenza di placche aterosclerotiche che provocano stenosi di uno o più vasi coronarici epicardici. Una vasocostrizione a livello di stenosi deformabili può renderle transitoriamente più gravi (stenosi dinamiche). Anche una disfunzione del microcircolo coronarico, spesso presente in questi pazienti, può modulare le conseguenze emodinamiche delle stenosi coronariche. In queste condizioni l’ischemia miocardica si verifica quando un aumento del fabbisogno di ossigeno da parte del miocardio non può essere soddisfatto per l’impossibilità di aumentare proporzionalmente il flusso coronarico a causa della stenosi. L’ischemia che si determina è tipicamente subendocardica. Sintomatologia La sintomatologia è prevalentemente costituita dall’angina da sforzo. In alcuni pazienti il carico di lavoro cardiaco al quale compare l’angina (soglia anginosa) è abbastanza costante e riproducibile, indicando la presenza di stenosi coronariche fisse. Più spesso, però, il carico di lavoro al quale l’angina compare (e quindi la soglia anginosa) è variabile. Come già detto, questa variabilità può dipendere dalla presenza di stenosi coronariche dinamiche oppure da variazioni del tono vasale a livello del microcircolo coronarico o anche di vasi coronarici collaterali. Inoltre, anche una risposta variabile in frequenza e pressione arteriosa allo sforzo in momenti diversi può contribuire a determinare una variabilità della comparsa dell’angina per analoghi livelli di esercizio. Nei pazienti con angina stabile gli episodi anginosi mostrano una tipica distribuzione circadiana, con un picco principale nelle ore del mattino e un secondo picco nelle ore pomeridiane (si veda Fig. 5.10). Ciò dipende dall’andamento analogo sia dei maggiori determinanti del consumo miocardico di ossigeno (frequenza cardiaca e pressione arteriosa), sia del tono vascolare, che risulta aumentato in queste ore per una più elevata attività a-adrenergica. Nella valutazione del paziente anginoso è importante tenere presente il grado di limitazione funzionale indotto dalla malattia, poiché esso è un indice, per quanto grossolano, della gravità del danno anatomico e ha anche implicazioni prognostiche. La classificazione della gravità dell’angina più seguita nella pratica clinica è quella suggerita dalla Canadian Cardiovascular Society, che prevede quattro classi (Tab. 5.1). Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 115 1 Figura 5.11 Schema delle componenti patogenetiche dell’ischemia miocardica (indicate dai cerchi grandi). L’entità del substrato stenotico per ogni sindrome e la sua variabilità nella popolazione sono schematizzate alla base di ogni figura. I cerchi rossi identificano quale o quali componenti operano nelle singole presentazioni cliniche della cardiopatia ischemica. (Da: Maseri A, op. cit., modificata.) Diagnosi differenziale del dolore anginoso Nella diagnosi differenziale dell’angina stabile devono essere prese in considerazione diverse condizioni pato- Tabella 5.1  C  lassificazione della gravità dell’angina proposta dalla Canadian Cardiovascular Society I II Attività fisiche abituali, come camminare o salire le scale, non causano angina. L’angina compare solo per sforzi intensi, rapidi o prolungati Lieve limitazione di attività abituali: l’angina compare nel camminare o salire le scale rapidamente o dopo i pasti o in presenza di freddo o vento, o in condizioni di stress emotivo o solo nelle prime ore dopo il risveglio. A un passo normale e in normali condizioni il paziente può camminare in piano per più di due isolati o salire più di un piano di scale III Marcata limitazione delle attività fisiche ordinarie, come camminare per uno o due isolati o salire più di un piano di scale a passo normale IV Impossibilità di effettuare qualsiasi attività fisica senza comparsa di angina. L’angina può anche verificarsi a riposo logiche caratterizzate, in modo vario, dalla presenza di dolore toracico transitorio. Prolasso della mitrale  In alcuni casi il dolore può essere difficilmente differenziabile da quello coronarico, altre volte è localizzato all’emitorace sinistro; i reperti auscultatori e l’ecocardiogramma consentono di chiarire la diagnosi. Cardiomiopatia ipertrofica e stenosi aortica  In questi casi il dolore può essere indistinguibile da quello dell’angina; l’esame obiettivo e l’ecocardiografia sono diagnostici. Disturbi di origine neuromuscolare (costocondrite, sindrome radicolare cervico-dorsale e sindromi infiammatorie dell’articolazione scapolo-omerale)  In questi casi il dolore ha localizzazioni diverse, non è correlato allo sforzo, ha durata a volte protratta e viene tipicamente esacerbato dai movimenti e/o dalla digitopressione sulla parete toracica. Disturbi di origine gastrointestinale (esofagite, ernia iatale, gastrite, ulcera peptica e, meno frequentemente, colecistopatia)  Nel caso di esofagite ed ernia iatale, la diagnosi differenziale talora può essere difficile perché la localizzazione è frequentemente retrosternale e il dolore può essere costrittivo, anche se più spesso è “urente”; il reflusso gastroesofageo può, in alcuni casi, essere anche indotto dallo sforzo; più caratteristica tuttavia è l’esacerbazione postprandiale o correlata all’assunzione della posizione clinostatica o a piegamenti in avanti. La risposta alla terapia antiacida aiuta nella diagnosi differenziale, 116 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO che può essere definitivamente confermata con indagini radiologiche ed endoscopiche. Disturbi di origine psicologica (psiconevrosi e somatizzazioni)  Disordini di natura psichica possono spesso associarsi a precordialgie, per lo più tuttavia atipiche. In ogni caso, queste patologie sono da prendere in considerazione solo dopo attenta esclusione di una causa organica del dolore toracico. Esame obiettivo Di solito l’esame obiettivo non contribuisce in modo significativo alla diagnosi di angina pectoris, e ciò per due motivi: (1) solo raramente è possibile esaminare il paziente durante un attacco anginoso; (2) sia durante la crisi, sia soprattutto nei periodi intervallari, l’obiettività è di solito negativa. Un esame obiettivo generale può essere utile, tuttavia, per ottenere indicazioni indirette sulla probabilità di malattia coronarica, evidenziando, per esempio, alcuni fattori di rischio cardiovascolare, come ipertensione, obesità o xantomi (patognomonici di ipercolesterolemia familiare). L’esame obiettivo cardiaco, inoltre, può rilevare la presenza di patologie che possono essere causa di dolore toracico e ischemia miocardica, pur in assenza di malattia coronarica, come la valvulopatia aortica e la cardiomiopatia ipertrofica, o che si associano con una certa frequenza a dolori toracici atipici, soprattutto in giovani donne, come il prolasso della valvola mitrale. Durante un attacco anginoso, all’ispezione si può talora osservare la comparsa di un impulso precordiale sistolico indicativo di una transitoria discinesia ventricolare sinistra indotta da un’ischemia sufficientemente importante. All’auscultazione cardiaca, d’altro canto, si può rilevare la comparsa di un III e/o IV tono, in caso di una significativa alterazione della funzione sisto-diastolica ventricolare sinistra indotta dall’ischemia, o di un soffio da insufficienza mitralica, nel caso di una disfunzione dei muscoli papillari causata dall’ischemia. Infine, nel caso che l’ischemia interessi una cospicua porzione di miocardio, si possono manifestare sintomi di scompenso acuto del ventricolo sinistro (dispnea) e presenza all’auscultazione toracica di piccoli rumori umidi alle basi polmonari. Caratteristicamente, tutti questi segni, se non sono già presenti prima dell’episodio anginoso, regrediscono con la risoluzione dell’ischemia miocardica. Esami di laboratorio  Gli esami di laboratorio, in particolare il profilo glicemico e l’assetto lipidico, contribuiscono a definire il profilo di rischio cardiovascolare. Se suggerito dal quadro clinico, è opportuno valutare la presenza di patologie che possono facilitare l’ischemia miocardica come l’anemia (che riduce l’apporto di ossigeno al cuore) e l’ipertiroidismo (che determina attivazione adrenergica associata a un aumento del consumo miocardico di ossigeno). ECG a riposo  In molti pazienti con angina stabile l’ECG a riposo è normale o non mostra, comunque, alterazioni specifiche della presenza di una malattia coronarica. In diversi casi, tuttavia, l’ECG può mostrare alterazioni che suggeriscono in modo più o meno rilevante la probabile natura ischemica dei sintomi del paziente, come un lieve sottoslivellamento del tratto ST o un’inversione o appiattimento dell’onda T. Altre volte l’ECG può evidenziare inaspettatamente i segni di un pregresso infarto miocardico o alterazioni poco specifiche, ma che suggeriscono un approfondimento diagnostico, come un blocco di branca o aritmie ventricolari. L’ECG, d’altro canto, consente di effettuare la diagnosi quando può essere registrato durante un attacco anginoso, mostrando il segno tipico dell’ischemia subendocardica, vale a dire un sottoslivellamento orizzontale del tratto ST uguale o superiore a 1 mm (si veda Fig. 5.4), localizzato in genere principalmente nelle derivazioni precordiali laterali (V4-V6). Va sottolineato, infatti, come in caso di ischemia subendocardica il maggior sottoslivellamento del tratto ST si osserva quasi invariabilmente in queste derivazioni (con massima entità di solito nella derivazione V5) indipendentemente dalla sede anatomica dell’ischemia. Il tratto ST si normalizza nel volgere di pochi minuti dopo la regressione dell’angina. Diagnosi Radiografia del torace  Sebbene di solito sia eseguita come esame di routine, la radiografia del torace è generalmente del tutto normale in un soggetto affetto da angina pectoris stabile senza storia di infarto miocardico pregresso. Essa può talora evidenziare una dilatazione della radice o dell’arco aortico se il paziente è iperteso o ha una valvulopatia aortica associata, oppure una cardiomegalia con eventuali segni di stasi polmonare qualora il paziente abbia avuto in precedenza episodi infartuali di una certa gravità. In alcuni pazienti la radiografia del torace può mostrare calcificazioni di pertinenza coronarica, che, in pazienti con dolore anginoso tipico, sono quasi sempre indicative della presenza di stenosi coronariche significative. Nella diagnostica strumentale dell’angina stabile (e della malattia coronarica in genere) si utilizzano varie indagini, alcune semplici (come gli esami di laboratorio e l’ECG a riposo), altre più complesse, quali: • metodiche elettrocardiografiche (ECG da sforzo; ECG dinamico secondo Holter); • metodiche scintigrafiche: scintigrafia miocardica con tecnezio 99m (99mTc) sestamibi o tallio 201 (201Tl) da sforzo o da stress farmacologico e a riposo; • metodiche ecocardiografiche, a riposo e da stress farmacologico, o anche da sforzo; • cateterismo cardiaco e angiografia coronarica. ECG da sforzo  L’ECG da sforzo rappresenta il test principale per la diagnosi di malattia coronarica nei pazienti con angina stabile. Lo scopo fondamentale del test da sforzo è quello di determinare un aumento progressivo e massimale della domanda di ossigeno da parte del miocardio. Come osservato nella fisiopatologia dell’ischemia miocardica, in un soggetto normale ciò non causa alcun sintomo né alterazione dell’ECG, in quanto il flusso coronarico può essere incrementato in modo massimale per garantire un apporto di ossigeno adeguato. Invece, in presenza di stenosi coronariche, l’impossibilità di incrementare in modo adeguato il Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 117 1 Figura 5.12 (a) ECG di base in un paziente con angina stabile. (b) Durante test da sforzo comparsa di sottoslivellamento del tratto ST in V2-V6 (massimo 2 mm circa), diagnostico di ischemia miocardica. flusso oltre un certo limite, dipendente dalla gravità e dall’estensione delle stenosi, determinerà, oltre un certo livello di sforzo, la comparsa delle alterazioni ECG tipiche dell’ischemia miocardica, associate o meno alla comparsa di angina. La prova può essere eseguita essenzialmente in due modi: (1) con cicloergometro (il paziente pedala su una cyclette); (2) con tappeto rotante (il paziente cammina su di esso). In ambedue i casi, e secondo protocolli prefissati, lo sforzo compiuto dal soggetto viene progressivamente ­incrementato (aumentando la resistenza della pedaliera nel primo caso e variando la velocità e l’inclinazione della pedana nel secondo) in modo da aumentare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, e quindi il lavoro e la richiesta di ossigeno da parte del cuore. Durante la prova il paziente è monitorato in modo continuo con l’ECG e la misurazione frequente della pressione arteriosa, il che consente di individuare immediatamente potenziali situazioni di rischio. Le risposte della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa ai carichi di lavoro crescenti del test permettono, inoltre, di valutare il livello di consumo miocardico di ossigeno, espresso come doppio prodotto (si veda in precedenza), che il paziente può tollerare senza sviluppare ischemia. Il test è interrotto per esaurimento muscolare o se si verificano condizioni potenzialmente a rischio di complicanze gravi, come angina ingravescente, modificazioni ischemiche marcate all’ECG, aritmie maggiori, un eccessivo rialzo della pressione arteriosa o la comparsa di ipotensione. Il test da sforzo è considerato positivo per ischemia miocardica quando si osserva un sottoslivellamento del tratto ST ad andamento rettilineo o discendente di almeno 1 mm (ischemia subendocardica) in una o più derivazioni ECG (Fig. 5.12). Solo occasionalmente si può osservare un sopraslivellamento del tratto ST (≥ 1 mm), indicativo di un’ischemia più grave (transmurale), dovuta in genere a 118 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO spasmo occlusivo o a stenosi serrata prossimale di un vaso coronarico (di solito l’arteria discendente anteriore). Se un test da sforzo è positivo è importante considerare: • a quale carico di lavoro si manifestano le alterazioni ischemiche; infatti, alterazioni ECG che compaiono pochi minuti dopo l’inizio dell’esercizio e/o a bassi valori di doppio prodotto hanno un significato più grave di quelle che si verificano per sforzi intensi e/o valori di doppio prodotto elevati; più basso è il doppio prodotto al quale l’ischemia miocardica compare (ossia più ridotta è la riserva coronarica), più grave è la coronaropatia. Elemento importante, queste informazioni possono essere ottenute sia in assenza di terapia sia per valutare gli effetti di eventuali trattamenti; • il tempo necessario per il ritorno delle alterazioni ECG alle condizioni basali dopo la fine dello sforzo (periodo di recupero); una normalizzazione lenta (oltre 5 min), infatti, indica in genere una sofferenza ischemica particolarmente grave del miocardio. Relativamente all’affidabilità diagnostica dell’ECG da sforzo, vale a dire alla sua capacità di individuare la presenza di una malattia coronarica ostruttiva significativa quando essa è presente (sensibilità del test) e di escluderla quando è assente (specificità del test), va osservato che esso, come ogni test, è gravato da un certo numero di possibili errori diagnostici. Così, in diversi casi il test induce il tipico sottoslivellamento del tratto ST, ma l’angiografia coronarica non mostra stenosi significative (falsi positivi), mentre in altri il test non mostra alcuna significativa alterazione dell’ECG, ma l’angiografia coronarica mostra una o più stenosi critiche (falsi negativi). I falsi positivi sono tanto più frequenti quanto più i soggetti sottoposti all’esame fanno parte di una popolazione con una bassa probabilità pre-test di avere una malattia coronarica ostruttiva (per esempio, donne giovani senza fattori di rischio). In generale, infatti, la predittività di un test positivo dipende dalla prevalenza della malattia (la probabilità pre-test, appunto) nella popolazione esaminata. I falsi negativi, d’altro canto, sono più frequenti nei soggetti in cui l’ischemia coinvolge la parete posteriore e posterolaterale del cuore (territorio dell’arteria coronaria circonflessa sinistra), la cui attività elettrica non è sempre esplorata in modo adeguato dall’ECG standard. Figura 5.13 Immagini in asse lungo sagittale (a) e apicale (b), ortogonali fra loro, di una scintigrafia miocardica. La scintigrafia è stata eseguita con 99mTc al picco di un test da sforzo e dopo 4 ore, a riposo, in un paziente con angina da sforzo. È apprezzabile al picco dello sforzo un difetto di perfusione della parete inferiore e laterale (frecce), che si normalizza a riposo, indicando la presenza di una marcata ischemia miocardica transitoria. ECG dinamico secondo Holter  L’ECG dinamico consiste nella registrazione continua dell’elettrocardiogramma per 24-48 ore. L’apparecchiatura necessaria consta di un piccolo registratore portatile collegato a elettrodi posti sul torace del soggetto in esame. Sono generalmente registrate in continuo, su cassetta o su memoria a stato solido, 2 o 3 derivazioni ECG (oggi anche tutte e 12 le derivazioni). Il paziente tiene inoltre un diario delle sue attività giornaliere, segnalando anche la comparsa di eventuali sintomi. Con i sistemi moderni, al termine dell’esame, l’ECG continuo viene trasferito rapidamente su un computer e analizzato con un apposito software, che valuta in modo automatico le aritmie e le alterazioni ischemiche presenti nel periodo di registrazione. Il software consente la riproduzione dell’ECG di qualsiasi parte della registrazione e quindi l’analisi automatica può in genere essere verificata in ogni dettaglio da un operatore. L’utilità dell’ECG dinamico per la diagnosi di cardiopatia ischemica è limitata. Infatti, la probabilità di documentare episodi di ischemia transitoria durante le normali attività dipende notevolmente dal livello di sforzo al quale compaiono i sintomi, essendo più alta nei pazienti con bassa soglia ischemica. Tuttavia, in circa il 10% dei pazienti con angina stabile nei quali l’ECG da sforzo risulta dubbio o negativo, l’ECG dinamico può consentire la diagnosi di malattia coronarica documentando episodi di ischemia miocardica durante il monitoraggio; in genere si tratta di pazienti che clinicamente presentano una soglia anginosa da sforzo variabile. Il maggior vantaggio dell’ECG dinamico è quello di permettere la valutazione del paziente durante la normale vita quotidiana. Esso consente così di definire numero, gravità e durata degli episodi ischemici durante la giornata (carico ischemico totale), di studiarne la relazione con le attività, di individuare eventuali aritmie associate e, in un secondo tempo, di valutare più adeguatamente l’effetto di una terapia antischemica. Si ricorda, infatti, che la maggior parte degli episodi di ischemia miocardica, rilevati in base a tipiche alterazioni ECG, non è associata ad angina (è cioè silente, si veda Fig. 5.10). Un episodio di ischemia subendocardica è diagnosticato all’ECG dinamico quando si osserva un sottoslivellamento del tratto ST orizzontale o discendente ≥ 1 mm della durata di almeno 1 min. Metodiche scintigrafiche Attualmente i test utilizzati per la diagnosi di ischemia miocardica sono sostanzialmente quelli che valutano la perfusione miocardica, per la quale si utilizzano come radioisotopi il 201Tl o il 99mTc sestamibi. Il tracciante radioattivo viene abitualmente somministrato in una vena all’acme di un test da sforzo e una scintigrafia miocardica viene acquisita subito dopo e a distanza di 3-4 ore per valutare la distribuzione del tracciante nella parete ventricolare sinistra. Il 201Tl è un analogo radioattivo del potassio. Iniettato in vena, viene rapidamente captato dalle cellule miocardiche. La sua estrazione dal sangue e la sua captazione da parte delle cellule miocardiche dipendono dalla perfusione coronarica e dall’integrità delle cellule. Se una regione miocardica diventa ischemica durante il test da sforzo, essa avrà un flusso coronarico ridotto rispetto alle altre regioni (non ischemiche), per cui le arriverà meno tallio e apparirà quindi ipocaptante alla scintigrafia Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica e­ seguita subito dopo lo sforzo rispetto alle zone circostanti (Fig. 5.13). Per confermare la diagnosi di ischemia transitoria è importante documentare la “normalizzazione” dell’ipocaptazione del 201Tl a distanza. A riposo, infatti, non vi sono differenze di flusso tra l’area ischemica e ­quelle non ischemiche, per cui, nel volgere di qualche ora, le ­concentrazioni intracellulari miocardiche del tracciante si equilibrano e non si notano differenze di captazione tra le varie regioni miocardiche alla scintigrafia acquisita tardivamente. La persistenza di un difetto di captazione del tracciante a riposo indica che l’area ipocaptante non è semplicemente ischemica, ma presenta una vera e propria riduzione del tessuto miocardico vitale in grado di captare il tracciante. Essa indica, cioè, la presenza di una necrosi miocardica pregressa. Le medesime informazioni ottenute con il 201Tl possono essere ottenute utilizzando come tracciante il 99mTc. Nei pazienti che non sono in grado di eseguire uno sforzo si può effettuare una scintigrafia miocardica perfusionale utilizzando come stress test la somministrazione di farmaci in grado, in presenza di malattia coronarica, di indurre ischemia. I farmaci utilizzati a tale scopo sono il dipiridamolo o l’adenosina (che accentuano le diseguaglianze di perfusione tra regioni perfuse da rami coronarici non stenotici e regioni perfuse da rami coronarici stenotici), oppure la dobutamina (che aumenta il consumo di ossigeno miocardico, come il test da sforzo). In questi casi, il tracciante radioattivo viene iniettato al picco della somministrazione del farmaco e a distanza. La sensibilità degli stress test scintigrafici per la diagnosi di malattia arteriosa coronarica è superiore a quella del semplice ECG da sforzo, mentre la loro specificità è simile. Essendo più indaginosi e costosi del semplice ECG da sforzo, e comportando la somministrazione di sostanze radioattive, gli stress test scintigrafici non dovrebbero essere indicati come test iniziali per la diagnosi di cardiopatia ischemica. Essi trovano indicazione, viceversa, nei casi in cui la diagnosi di cardiopatia ischemica rimanga dubbia dopo un ECG da sforzo. Gli stress test scintigrafici, tuttavia, hanno indicazione come primo test nei pazienti che hanno un ECG a riposo con alterazioni che rendono problematica l’interpretazione di alterazioni del tratto ST durante lo sforzo, quali blocco di branca sinistra, sindrome di Wolff-Parkinson-White e ipertrofia ventricolare sinistra marcata con anomalie significative della ripolarizzazione. Metodiche ecocardiografiche  In un paziente con sospetta cardiopatia ischemica l’ecocardiogramma basale è poco utile a scopo diagnostico, ma in alcuni casi può evidenziare alterazioni regionali della cinesi ventricolare legate a un pregresso infarto, con zone di ipo- o acinesia e, talora, di discinesia. Gli stress test ecocardiografici possono essere utilizzati in alternativa agli stress test scintigrafici per la diagnosi di cardiopatia ischemica con le stesse indicazioni. In questi casi, peraltro, anche in pazienti che possono eseguire lo sforzo si preferisce utilizzare uno stress farmacologico (dipiridamolo, adenosina o dobutamina) piuttosto che lo sforzo, perché esso consente una valutazione più continua e accurata delle immagini ecografiche durante il test. In ogni caso l’ecocardiogramma del paziente viene monitorato durante tutto l’esame. Se una regione miocardica divie- ne ischemica essa sviluppa alterazioni della sua contrattilità, che, rispetto alle altre aree e anche rispetto alla base, apparirà ridotta (ipocinesia) o assente (acinesia), oppure presenterà un movimento paradosso espansivo durante la sistole (discinesia). Ancora una volta è importante documentare la reversibilità dell’alterazione rilevata all’ecocardiogramma per confermare la transitorietà dell’anomalia legata all’ischemia. Rispetto agli stress test scintigrafici l’eco-stress ha una maggiore specificità ed è meno costoso, ma ha una minore sensibilità ed è anche più operatore-dipendente. Cateterismo cardiaco e angiografia coronarica  Il cateterismo cardiaco consiste nell’avanzamento di cateteri, introdotti in vasi periferici, sino al cuore per una serie di valutazioni dirette a livello delle camere cardiache e dei grossi vasi. I cateteri per lo studio dell’aorta, delle arterie coronarie e del cuore sinistro vengono introdotti mediante puntura percutanea, in anestesia locale, di un’arteria femorale o di un’arteria radiale. I cateteri per lo studio delle cavità cardiache di destra e dei vasi polmonari, invece, vengono introdotti per via venosa (dalla vena femorale o, meno frequentemente, succlavia o giugulare interna). L’esame utilizza un’apparecchiatura radiologica che permette la visualizzazione dei cateteri, che sono radiopachi, e ne consente l’accurato posizionamento nelle varie cavità cardiache o nei grossi vasi. La metodica permette di: • misurare le pressioni delle sezioni destre e sinistre del cuore; • visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi sia le cavità cardiache; in particolare, si può visualizzare il ventricolo sinistro (ventricolografia) e valutarne le dimensioni e la funzione contrattile globale e regionale; • incannulare le arterie coronarie destra e sinistra, e iniettare selettivamente del mezzo di contrasto nell’albero coronarico in modo da visualizzarne l’anatomia e le eventuali lesioni aterosclerotiche stenosanti (coronarografia; Fig. 5.14). La coronarografia rappresenta l’esame definitivo per la diagnosi di cardiopatia ischemica su base aterosclerotica, in quanto consente di documentare direttamente la presenza di stenosi dei grossi vasi epicardici, oltre che di valutarne il numero e l’entità. Essa non consente, tuttavia, di ottenere informazioni dirette sul microcircolo coronarico, in quanto non visualizza arterie con diametro inferiore a 0,5 mm. Sebbene in mani esperte la coronarografia presenti un bassissimo rischio di complicanze maggiori e una mortalità inferiore allo 0,1%, essa prevede competenze specifiche, pertanto va eseguita in ambiente specializzato. Va sottolineato, inoltre, che l’esame coronarografico fornisce un’informazione quasi esclusivamente anatomica e fondamentalmente statica dell’albero coronarico, mentre va ancora ricordato che esistono pazienti con coronarie angiograficamente normali ma evidenza clinico-strumentale di ischemia miocardica legata a fattori dinamici. Inoltre la gravità della malattia coronarica non sempre si correla con la gravità clinica della malattia; non è infrequente, infatti, riscontrare soggetti con aterosclerosi anche diffusa, ma senza o con modesta evidenza clinica 119 1 120 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.14 Angiografia coronarica normale (proiezione anteriore). (a) Arteria coronaria sinistra, con il tronco comune (TC), l’arteria coronaria discendente anteriore sinistra (LAD) e l’arteria circonflessa (CX). (b) Arteria coronaria destra, con evidenziamento dell’arteria discendente posteriore (DP). (Da: Falk E, Shah PK, de Feyter PJ, editors. Ischemic heart disease. London: Manson Publ.; 2007, modificata.) e strumentale di ischemia miocardica grazie allo sviluppo di circoli collaterali efficienti. TC coronarica multistrato  È oggi possibile ottenere un quadro coronarografico in modo non invasivo, iniettando il mezzo di contrasto semplicemente in una vena periferica e utilizzando come tecnica di visualizzazione dell’albero coronarico la TC multistrato digitalizzata, che consente di generare anche immagini tridimensionali del circolo coronarico epicardico. Confrontata con la coronarografia standard, la tecnica ha un’elevata specificità e una sensibilità anch’essa ormai piuttosto alta per coronaropatia ostruttiva. Pertanto può essere indicata in alcuni casi in cui non si voglia ricorrere alla coronarografia, ma si desideri ottenere una diagnosi anatomica sufficientemente sicura. Tuttavia, l’alto costo, la quantità elevata di radiazioni (equivalente a circa 700 radiografie del torace) a cui i pazienti sono sottoposti per l’esame e la non perfetta valutazione di stenosi di gravità intermedia limitano al momento le applicazioni di questo tipo di esame. Paradigma diagnostico  A conclusione di questo paragrafo, si ritiene utile dare indicazioni riassuntive su quale dovrebbe essere l’approccio diagnostico al paziente con sospetta angina stabile. Il clinico dovrebbe scegliere caso per caso i test effettivamente più utili e appropriati per chiarire il quesito diagnostico, tenendo presente che ogni esame ha un costo per la collettività e che, nel caso della coronarografia, vanno anche considerate le pur basse mortalità e morbilità correlate alla metodica (Fig. 5.15). In soggetti con dolore toracico atipico, o chiaramente di tipo non cardiaco, assenza di particolari fattori di rischio, obiettività ed ECG normali, la diagnosi di angina pectoris può essere ragionevolmente esclusa senza ricorrere abitualmente a test di laboratorio. In pazienti con angina tipica o sospetta il primo accertamento da considerare nella sequenza diagnostica è l’ECG da sforzo, il cui risultato può guidare il successivo iter diagnostico-terapeutico. • Se l’ECG da sforzo massimale è negativo è improbabile la presenza di una coronaropatia ostruttiva; in particolare, è molto improbabile la presenza di una forma grave di malattia coronarica, tale da necessitare di un qualche tipo di intervento, per cui, in questo caso, non vi è indicazione all’angiografia coronarica a scopo diagnostico. • Se l’ECG da sforzo è positivo la probabilità di coronaropatia ostruttiva è alta, anche se la positività del test può essere anche causata da una disfunzione del microcircolo coronarico in assenza di stenosi ostruttive (angina microvascolare). Se si sospetta un’angina microvascolare si possono eseguire alcuni test per avvalorare questa diagnosi (si veda oltre), anche se solo una coronarografia potrebbe in molti casi consentire una diagnosi certa. • Se l’ECG da sforzo non può essere eseguito o dà un risultato dubbio, può essere opportuno effettuare una scintigrafia miocardica o un ecocardiogramma da sforzo (o con stress farmacologico). • La coronarografia a scopo diagnostico, infine, può essere indicata nei casi in cui tutte le metodiche non invasive non siano riuscite a dirimere con ragionevole certezza il dubbio diagnostico ed è importante essere certi dell’assenza di malattia aterosclerotica coronarica ostruttiva, per esempio per un particolare tipo di lavoro svolto dal paziente (pilota di aerei, sportivo agonistico ecc.), per motivi assicurativi o medico-legali o, talora, semplicemente per espressa volontà del paziente di dirimere in modo certo il dubbio diagnostico. Prognosi e stratificazione del rischio Mediamente la prognosi dell’angina cronica stabile è buona. Sia la mortalità sia gli eventi coronarici acuti hanno un’incidenza ormai inferiore al 2% per anno. Alcuni sottogruppi di pazienti, tuttavia, presentano un rischio più elevato, che può aggirarsi anche intorno al 5%. Già alcuni dati clinici indicano un decorso peggiore, come una maggiore gravità della sintomatologia anginosa e Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 121 1 Figura 5.15 Algoritmo diagnostico del paziente con angina stabile. SCA  =  sindrome coronarica acuta. (Da: Camm AJ et al., 2009, op.cit., modificata.) l’associazione al dolore toracico di dispnea, che suggerisce un’insufficienza ventricolare sinistra secondaria a un’ischemia miocardica estesa. Una valutazione più ampia del rischio si avvale, tuttavia, di esami di laboratorio non invasivi e invasivi. Una significativa riduzione della funzione ventricolare sinistra, indicata da una frazione di eiezione < 40% all’ecocardiogramma bidimensionale o ad altro test di immagine, costituisce uno dei maggiori predittori di eventi clinici in questi pazienti. La mortalità, infatti, aumenta esponenzialmente con la progressiva riduzione della frazione di eiezione al di sotto del valore del 40%. Un’importanza prognostica di rilievo ha anche la capacità fisica, valutata al test da sforzo. Il rischio di eventi cardiovascolari è tanto maggiore quanto minore è il carico di lavoro a cui insorgono le manifestazioni ischemiche e maggiore la gravità di queste ultime. Utilizzando la durata della prova da sforzo, la presenza di angina e la gravità del sottoslivellamento del tratto ST osservato durante il test è possibile ottenere un punteggio che predice con accuratezza il rischio di futuri eventi cardiovascolari gravi (Fig. 5.16). Nei pazienti che non possono sottoporsi a test da sforzo, indicazioni prognostiche possono provenire dall’esecuzione di uno stess test farmacologico scintigrafico o ecocardiografico. L’estensione dei difetti di perfusione e/o la comparsa di segni di disfunzione ventricolare sinistra globale alla scintigrafia da stress, e l’estensione delle anomalie contrattili all’ecocardiogramma da stress sono, infatti, tutti fattori associati a un significativo peggioramento della prognosi. Infine, anche l’estensione della malattia aterosclerotica all’angiografia coronarica si associa a una peggiore evoluzione clinica. Tuttavia, l’esecuzione di un esame invasivo, quale la coronarografia, per la sola valutazione prognostica non è indicata. L’esame va eseguito solo quando la stratificazione prognostica ottenuta utilizzando i dati clinici e i risultati degli esami non invasivi indica una condizione di medio o alto rischio che suggerisce un potenziale beneficio dall’esecuzione di un intervento di rivascolarizzazione miocardica (Fig. 5.17). Terapia Terapia medica  Uno schema riassuntivo del trattamento dell’angina stabile è illustrato nella figura 5.18. Gli obiettivi del trattamento del paziente con angina stabile e cardiopatia ischemica cronica in generale sono due: • riduzione del rischio di eventi coronarici gravi (morte, infarto); • riduzione della gravità dell’ischemia e dell’angina. 122 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.16 Nomogramma della Duke University per il calcolo del rischio di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica cronica. Per il calcolo della sopravvivenza viene dapprima tracciata una retta (1 nell’esempio) che congiunge l’asse dell’entità del sottoslivellamento massimo del tratto ST al test da sforzo con l’asse della gravità dell’angina da sforzo (0  =  assenza di angina; 1  =  angina che non ha limitato lo sforzo; 2  =  angina che ha indotto l’interruzione dello sforzo). Questa retta incrocia l’asse dell’ischemia in un certo punto. Da questo punto viene tracciata una seconda retta (2 nell’esempio) che si congiunge all’asse della durata di esercizio; questa linea incrocerà la linea della “prognosi” in un punto che indicherà la sopravvivenza e il rischio del paziente. In basso è illustrato il calcolo del Treadmill Duke Score, che, in assenza del nomogramma, consente la stratificazione dei pazienti in gruppi a rischio basso (score > 4), medio (score da −11 a +4) e alto (score < −11). Figura 5.17 Algoritmo prognosticoterapeutico del paziente con angina stabile. (Da: Camm AJ et al., 2009, op. cit., modificata.) Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 123 1 Figura 5.18 Algoritmo di terapia medica del paziente con angina stabile. (Da: Camm AJ et al., 2009, op. cit., modificata.) Riduzione del rischio di eventi cardiovascolari gravi  Il perseguimento di questo obiettivo è basato innanzitutto sulla correzione dello stile di vita allo scopo di ridurre i fattori di rischio cardiovascolare. In particolare, sono fondamentali l’astensione dal fumo, il contenimento dell’indice di massa corporea (peso in kg/altezza al quadrato in metri) a valori < 25 kg/m2, un’attività fisica regolare e l’assunzione di una dieta ricca di frutta e verdura. Il perseguimento di questo obiettivo è anche basato sull’utilizzo di farmaci che correggono i fattori di rischio cardiovascolare, in particolare ipercolesterolemia (si veda il Capitolo 4), ipertensione (si veda il Capitolo 2) e diabete (si veda il Capitolo 68), quando l’ottimizzazione dello stile di vita non è stata sufficiente a ottenerlo. Tutti i pazienti con angina cronica stabile devono inoltre ricevere una terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico, alla dose di 75-160 mg/die. Vi è infatti evidenza che questa sostanza determina una riduzione significativa degli eventi cardiovascolari gravi. L’acido acetilsalicilico è controindicato solo in caso di una storia di allergia o intolleranza al farmaco, di emorragie in atto o di ulcera peptica attiva. Gli effetti collaterali più frequenti sono sintomi di irritazione gastrica ed ecchimosi, quelli più gravi (rari) sono i sanguinamenti maggiori (principalmente gastrointestinali). Nei pazienti in cui non è possibile utilizzare l’acido acetilsalicilico si dovrebbe somministrare un farmaco tienopiridinico, in particolare il clopidogrel, che agisce antagonizzando il recettore piastrinico per l’adenosin-difosfato. L’utilizzo dei b-bloccanti allo scopo di migliorare la prognosi è indicato solo nei pazienti con evidenza di infarto miocardico pregresso e/o ridotta funzione ventricolare sinistra. Infine, nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra o con ipertensione arteriosa è indicato l’uso di ACE-inibitori. 124 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Riduzione della gravità dell’ischemia e dell’angina  La terapia dell’attacco anginoso consiste nell’assunzione di una perla di trinitrina o di un altro nitroderivato ad azione rapida (per esempio, isosorbide dinitrato) per via sublinguale o spray buccale. Questi farmaci sono infatti assorbiti rapidamente attraverso la mucosa del cavo orale e agiscono in 2-5 min, con persistenza dell’effetto per circa 30 min-2 ore. La somministrazione può essere ripetuta dopo 5-10 min se l’angina persiste. L’effetto antianginoso dei nitrati si esplica principalmente riducendo il lavoro cardiaco mediante riduzione del precarico, conseguente alla loro azione vasodilatatrice venosa periferica. Essi, tuttavia, possono anche ridurre la pressione arteriosa ed eliminare un’eventuale componente vasocostrittrice coronarica dell’attacco anginoso. Tra gli effetti collaterali sono frequenti la cefalea e l’ipotensione, che talora può determinare lipotimia o sincope, le quali possono essere evitate consigliando al paziente di assumere questi farmaci in posizione seduta. La profilassi farmacologica delle crisi anginose, d’altro canto, si basa principalmente sull’uso di tre classi di farmaci: b-bloccanti, calcio-antagonisti e nitrati a lunga durata di azione. I b-bloccanti sono i farmaci antischemici di prima scelta nell’angina stabile. Grazie alla loro attività antiadrenergica, essi riducono il consumo miocardico di ossigeno, riducendo innanzitutto la frequenza cardiaca, ma anche la pressione arteriosa e la contrattilità miocardica, sia a riposo sia durante sforzo e stati di stress. Prolungando la diastole, inoltre, questi farmaci possono anche migliorare la perfusione subendocardica. Tra gli effetti collaterali si ricordano astenia, ipotensione, broncocostrizione (in soggetti asmatici), depressione, calo della libido e il possibile mascheramento di un’ipoglicemia indotta da farmaci antidiabetici. I calcio-antagonisti hanno efficacia antianginosa simile a quella dei β-bloccanti. Alcuni calcio-antagonisti hanno principalmente un’azione vasodilatatrice, altri invece riducono in prevalenza il consumo miocardico di ossigeno. Sono farmaci di prima scelta in caso di controindicazioni o intolleranza ai β-bloccanti, ma andrebbero comunque evitati in presenza di una significativa depressione della funzione ventricolare sinistra, in quanto il loro uso è stato associato a un aumento del rischio di mortalità in questo sottogruppo di pazienti. Gli effetti collaterali dei calcio-antagonisti comprendono edemi periferici, cefalea, ipotensione e stipsi. Per la profilassi cronica degli episodi anginosi i nitrati vengono utilizzati in preparazioni che consentono un inizio graduale dell’effetto farmacologico con durata prolungata per alcune ore. I nitrati sono efficaci nell’angina da sforzo nelle fasi iniziali del trattamento, ma il loro uso continuo si associa a una riduzione del loro effetto a causa dello sviluppo di tolleranza. È importante tenere presente che, quando un farmaco antischemico di uno dei tre gruppi è insufficiente a controllare adeguatamente da solo (monoterapia) gli attacchi di angina, esso può essere variamente associato a farmaci di un altro gruppo (doppia terapia) o di entrambi gli altri gruppi (tripla terapia). L’associazione ha maggiori probabilità di successo perché sfrutta la combinazione dei diversi meccanismi di azione dei tre gruppi di farmaci sui meccanismi responsabili dell’ischemia miocardica. In pazienti sintomatici nonostante la migliore terapia antischemica convenzionale tollerata, è possibile associare alcuni altri farmaci con attività antischemica, di più recente introduzione e non tutti, peraltro, attualmente disponibili in Italia, come l’ivabradina (che riduce la frequenza cardiaca inibendo selettivamente la corrente di auto depolarizzazione del nodo del seno), la trimetazidina (che migliora il metabolismo energetico cellulare), la ranolazina (un inibitore selettivo della corrente tardiva del sodio) e il nicorandil (che ha azione nitrato-simile e di apertura dei canali del K+). Rivascolarizzazione miocardica per via percutanea o mediante by-pass aorto-coronarico  La rivascolarizzazione miocardica consiste nel ripristinare un flusso coronarico normale nel territorio miocardico irrorato da vasi coronarici epicardici con stenosi emodinamicamente significative. La rivascolarizzazione miocardica può essere ottenuta mediante due forme di intervento, percutanea o chirurgica, e, come la terapia medica, può avere due principali indicazioni: • migliorare i sintomi anginosi in pazienti in cui essi non sono controllati dalla terapia farmacologica; • migliorare la prognosi dei pazienti ad alto ­rischio. Figura 5.19 Schema di esecuzione di un intervento di angioplastica coronarica con impianto di stent. Un catetere con palloncino rivestito da uno stent (rete metallica) è avanzato a livello della stenosi (a). Il gonfiaggio del palloncino schiaccia la placca aterosclerotica (b); il catetere con il palloncino viene ritirato mentre lo stent viene rilasciato dove verrà progressivamente riendotelizzato e inglobato nella parete del vaso, contribuendo a mantenerlo pervio (c). Interventi per via percutanea  Nella sua forma più semplice la rivascolarizzazione miocardica per via percutanea è rappresentata dall’angioplastica coronarica. La procedura consiste nell’introdurre nell’arteria ­coronaria Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica da trattare un apposito catetere munito all’estremo distale di un palloncino gonfiabile. Il palloncino, sgonfio al momento dell’introduzione del catetere in coronaria, viene posizionato nella sede della stenosi e viene quindi gonfiato a pressione elevata in modo da schiacciare contro la parete del vaso la placca aterosclerotica che determina la stenosi, dilatando così il vaso e ripristinando una normale capacità di flusso. Attualmente, nella quasi totalità dei casi, alla dilatazione della stenosi viene associato l’impianto di uno o più stent, strutture cilindriche della lunghezza di pochi centimetri e larghezza di pochi millimetri, con parete metallica a rete. Gli stent vengono espansi all’interno delle coronarie e fatti aderire alla parete del vaso, dove, nel giro di alcune settimane, vengono rivestiti da endotelio e diventano parte integrante della parete arteriosa (Fig. 5.19). Gli stent hanno contribuito a ridurre il rischio di occlusione acuta che talvolta si verifica nella sede dell’angioplastica, nonché il rischio di recidiva della stenosi dilatata (ristenosi), un evento che si verifica soprattutto nei primi 6 mesi dopo la procedura e che è stato ridotto dall’uso degli stent dal 30-35% circa con la sola angioplastica al 20-25%. Di recente il fenomeno della ristenosi è stato ulteriormente ridotto dall’uso di stent medicati, ovvero di stent che contengono nella loro parete farmaci chemioterapici che, rilasciati localmente per un certo tempo, contrastano la riformazione della stenosi grazie ai loro effetti antinfiammatori e antiproliferativi. Con questi stent l’occorrenza di ristenosi si è assestata intorno al 10% a 6 mesi. Va sottolineato che i pazienti che effettuano un intervento di rivascolarizzazione con impianto di stent devono effettuare una terapia antiaggregante con due farmaci (in genere, acido acetilsalicilico più clopidogrel) per un tempo variabile da 1 a 12 mesi a seconda del tipo di sindrome coronarica, del tipo di procedura e di stent usato. Nei primi mesi, infatti, vi è un certo rischio di trombosi acuta a livello del segmento coronarico trattato, come conseguenza del danno endoteliale e vascolare causato dall’intervento. In pazienti con angina stabile il beneficio degli interventi coronarici percutanei consiste nella possibilità di eliminare o migliorare i sintomi anginosi nei soggetti che non rispondono adeguatamente al trattamento farmacologico. By-pass aorto-coronarico  Le procedure chirurgiche di rivascolarizzazione miocardica si basano sull’innesto di by-pass aorto-coronarici con vena safena o con arterie autologhe. A tale scopo sono principalmente usate l’arteria mammaria interna sinistra e, in misura minore, la destra. In rari e selezionati casi sono stateutilizzate anche l’arteria gastroepiploica e la radiale. I by-pass arteriosi sono caratterizzati da un rischio di occlusione a lungo termine molto più basso rispetto ai by-pass venosi e sono quindi, per quanto possibile, da preferire. Attualmente è possibile operare con un rischio accettabile anche pazienti con grave compromissione della funzione ventricolare sinistra ed effettuare bypass multipli senza aumentare il rischio operatorio, consentendo una rivascolarizzazione completa di tutti i distretti miocardici ischemici. L’indicazione alla chirurgia coronarica è attualmente accettata per tutti i pazienti con episodi anginosi non controllati dalla terapia medica e giudicati non trattabili con interventi per via percutanea. Anche in alcune condizioni di alto rischio, caratterizzate da una mortalità annuale superiore al 2%, la rivascolarizzazione chirurgica è attualmente il trattamento preferibile, in quanto vi è dimostrazione di una migliore prognosi a lungo termine. Queste condizioni comprendono la stenosi del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra e la malattia multivasale con ridotta funzione ventricolare sinistra e/o scarsa tolleranza per lo sforzo, e/o interessamento della parte prossimale dell’arteria coronaria discendente anteriore sinistra. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che anche in alcuni sottogruppi di questi pazienti con cardiopatia ischemica cronica a più alto rischio il decorso clinico è oggi sovrapponibile con la rivascolarizzazione percutanea e con la chirurgia. Pertanto, la modalità di trattamento e di rivascolarizzazione più idonea per ogni singolo paziente andrebbe di volta in volta attentamente discussa fra cardiologi clinici, emodinamisti e cardiochirurghi, sulla base del quadro sintomatologico, clinico e angiografico. Angina microvascolare Il termine angina microvascolare vuole indicare un quadro clinico in cui l’angina è causata da disfunzione o anomalie dei piccoli vasi coronarici arteriosi di resistenza. Poiché questi vasi non sono visualizzabili alla coronarografia, la diagnosi è abitualmente posta dopo aver escluso alterazioni anatomiche e funzionali dei vasi coronarici epicardici. Durante la coronarografia, in realtà, sarebbe anche possibile documentare direttamente un’alterazione della funzione vasodilatatrice e vasocostrittrice del microcircolo coronarico studiando la risposta del flusso e delle resistenze coronariche a stimoli farmacologici, ma questi test sono indaginosi e richiedono tempo, quindi non vengono eseguiti di routine. Nella forma più tipica l’angina microvascolare è caratterizzata da: (1) angina esclusivamente o prevalentemente da sforzo, sufficientemente tipica da far sospettare la presenza di stenosi coronariche critiche; (2) sottoslivellamento del tratto ST indicativo di ischemia miocardica al test da sforzo; (3) arterie coronarie normali all’angiografia, in assenza di evidenza di spasmo coronarico spontaneo o provocato (Fig. 5.20). Questo quadro clinico è comunemente noto anche con il termine di sindrome X cardiaca. I pazienti con angina microvascolare costituiscono fino al 20% di quelli che sono sottoposti a coronarografia per angina da sforzo e comprendono per la maggior parte donne (circa il 70%). Sebbene vi siano diverse ipotesi sull’origine del dolore toracico in questi pazienti, numerosi sono i dati che indicano che la causa dei sintomi sia effettivamente una condizione di ischemia miocardica dovuta a una disfunzione dei piccoli vasi coronarici di resistenza. 125 1 126 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.20 Sottoslivellamento del tratto ST diagnostico di ischemia miocardica durante test da sforzo in due pazienti con angina da sforzo. L’angiografia coronarica in basso mostra nel primo caso (a) una stenosi significativa dell’arteria coronaria discendente anteriore sinistra (freccia); viceversa, nel secondo caso (b) l’angiografia coronarica mostra arterie coronarie epicardiche completamente normali, suggerendo un’origine microvascolare dell’angina. (Da: Camm AJ et al., 2009, op. cit., modificata.) In molti pazienti l’origine cardiaca ischemica è suggerita, oltre che dalle alterazioni ECG durante dolore, anche da alterazioni della perfusione miocardica alla scintigrafia miocardica da sforzo e da alterazioni del flusso coronarico in risposta a stimoli sia vasodilatatori (dipiridamolo, papaverina, pacing atriale, acetilcolina) sia vasocostrittori (ergonovina, iperventilazione). Un’obiezione all’origine ischemica del quadro clinico della sindrome X cardiaca è rappresentata dall’assenza di alterazioni della contrattilità miocardica all’ecocardiogramma durante angina. Tuttavia, una distribuzione parcellare dell’alterazione del microcircolo può spiegare l’assenza di tali alterazioni, a dispetto dell’induzione di alterazioni ECG e sintomi. Le cause della disfunzione microvascolare non sono completamente note. Alterazioni strutturali delle arteriole sono rare, mentre sono state riportate diverse alterazioni in grado di influenzare la funzione del microcircolo coronarico. Tra queste si ricordano alterazioni della funzione adrenergica, un deficit di produzione del fattore di rilasciamento vascolare derivato dall’endotelio (EDRF), un aumentato rilascio di endotelina 1 a livello coronarico, un aumento dell’attività dello scambiatore Na+-H+ di membrana, un’aumentata insulino-resistenza, un aumento dello stato infiammatorio e, nelle donne, un deficit ormonale estrogenico. È probabile, comunque, che i meccanismi della disfunzione microvascolare siano differenti, e possibilmente molteplici, nei diversi pazienti. Diversi dati indicano che un numero significativo di pazienti con angina microvascolare presenta anche un’aumentata percezione dolorifica degli stimoli cardiaci (per esempio, diversi pazienti riferiscono dolore tipico durante pacing ventricolare o manipolazione intracardiaca di cateteri). Questa componente può facilitare la comparsa di dolore anche per lievi gradi di ischemia, spiegando così la forte sintomaticità di questi pazienti. Le cause dell’aumentata nocicettività cardiaca non sono attualmente note, ma è possibile che essa sia facilitata dalla stessa ischemia miocrovascolare cronica che può, a lungo termine, causare un’alterazione della responsività delle fibre afferenti dolorifiche cardiache a stimoli abitualmente innocui. La diagnosi di angina microvascolare si basa sul quadro clinico e sulla dimostrazione di arterie coronarie normali alla coronarografia. Il sospetto clinico sulla base dei soli sintomi è in genere difficile, ma l’angina da sforzo può presentare caratteri di aspecificità, come, in particolare, una durata prolungata del dolore dopo l’interruzione dello sforzo o la lenta e/o incostante risposta ai nitrati sublinguali. Anche i test diagnostici non aiutano in genere nella diagnosi differenziale fra angina causata da stenosi coronariche e angina microvascolare. Il sottoslivellamento del tratto ST all’ECG da sforzo e i difetti di perfusione alla scintigrafia miocardica da sforzo sono simili a quelli dei pazienti con stenosi coronariche. Un mancato miglioramento delle alterazioni ST al test da sforzo dopo preventiva somministrazione di nitrati sublinguali e l’assenza di alterazioni Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica della contrattilità miocardica all’ecocardiogramma da stress in presenza di angina e sottoslivellamento ST sono due importanti indizi di un’origine microvascolare dell’angina. La prognosi di questi pazienti è ottima. L’incidenza di eventi cardiaci maggiori (morte, infarto miocardico), infatti, è simile a quella della popolazione generale. Diversi pazienti, tuttavia, vanno incontro a un peggioramento del quadro clinico nel tempo, con episodi anginosi sempre più frequenti, prolungati e insorgenti anche a riposo, che diventano difficilmente trattabili e compromettono anche le normali attività quotidiane. Per queste ragioni l’angina microvascolare può essere una malattia importante dal punto di vista individuale, sociale e anche economico. La terapia degli episodi anginosi si basa sull’uso dei classici farmaci antischemici (b-bloccanti, calcio-antagonisti e nitrati), ma anche su alcuni farmaci alternativi, finalizzati a migliorare la funzione del microcircolo e/o la nocicettività cardiaca. Tra questi si ricordano i derivati xantinici (teofillina, bamifillina), gli ACE-inibitori, le statine, gli a-bloccanti, l’imipramina e, nelle donne in menopausa, la terapia estrogenica. Angina variante 127 1 L’angina variante o angina di Prinzmetal è così detta in quanto, in contrasto con la più comune angina da sforzo, si verifica esclusivamente o prevalentemente a riposo e si associa a sopraslivellamento, anziché a sottoslivellamento, del tratto ST all’ECG, segno, come visto, di ischemia miocardica transmurale (Fig. 5.21). L’esecuzione dell’angiografia coronarica durante attacchi anginosi spontanei Figura 5.21 Quadro tipico dell’angina variante di Prinzmetal. (a) Nell’ECG registrato durante un dolore anginoso insorto a riposo in corso di visita cardiologica, si osserva un sopraslivellamento del tratto ST in V1-V5, che regredisce rapidamente e completamente dopo somministrazione di nitroglicerina per via sublinguale (b). (Da: Falk E et al., op. cit., modificata.) 128 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.22 Altro esempio di angina variante di Prinzmetal. (a) Si osservano, durante dolore anginoso insorto in corso di coronarografia, un’occlusione totale dell’arteria circonflessa (freccia sinistra) e una subocclusione dell’arteria discendente anteriore (freccia destra), associate a marcato sopraslivellamento del tratto ST alle derivazioni ECG di monitoraggio (in basso). (b) Dopo nitroglicerina e.v. si osserva totale normalizzazione del quadro angiografico (in alto) e dell’ECG (in basso), che confermano l’origine vasospastica delle occlusioni coronariche. (Da: Camm AJ et al., 2009, op. cit., modificata.) o provocati ha dimostrato che essa è dovuta a uno spasm oocclusivo o subocclusivo del segmento di un’arteria coronaria epicardica (Fig. 5.22). Lo spasmo si può verificare sia a livello di una stenosi coronarica, che può a sua volta essere significativa o non significativa, sia in un vaso del tutto normale. In un piccolo numero di pazienti lo spasmo può coinvolgere più vasi (spasmo multivasale). In alcuni pazienti, inoltre, lo spasmo può essere diffuso. Le cause dello spasmo coronarico non sono note. In particolare, i pazienti con angina variante non presentano particolari fattori di rischio coronarico, sebbene molti siano fumatori e alcuni riferiscano un aumentato consumo di alcol. L’uso di alcune sostanze (per esempio, cocaina, sumatriptan e 5-fluorouracile) e la combinazione contraccettivi-fumo, tuttavia, mostrano una significativa associazione con lo sviluppo di un’angina vasospastica. In ogni caso, appare chiaro che l’alterazione fondamentale agisce determinando un’iperreattività locale delle cellule muscolari lisce vasali a vari tipi di stimoli vasocostrittori che agiscono attraverso meccanismi differenti e coinvolgono sistemi recettoriali diversi (catecolamine, acetilcolina, serotonina, istamina, alcalosi ecc.). La diagnosi di angina variante è anzitutto clinica. Essa va sempre sospettata quando un paziente riferisce episodi anginosi a riposo, senza apparenti cause scatenanti. Gli episodi durano in genere 2-10 min (ma a volte anche solo 30 sec), talora recidivano a breve distanza di tempo. Gli attacchi anginosi possono mostrare anche un pattern circadiano, con prevalenza più spesso notturna o nelle prime ore del mattino (si veda Fig. 5.10). In circa un quarto dei casi lo spasmo può essere indotto anche da sforzi intensi, per cui il paziente riferisce anche dolore durante o immediatamente dopo uno sforzo. In alcuni pazienti gli episodi anginosi possono scomparire anche per diverso tempo (fasi fredde) per poi ricomparire inaspettatamente con elevata frequenza (fasi calde). L’occorrenza di palpitazioni, lipotimie o sincopi durante gli attacchi anginosi deve fare sospettare la presenza di tachiaritmie o bradiaritmie potenzialmente pericolose per la vita. In alcuni pazienti, inoltre, lo spasmo può essere prolungato, predisponendo allo sviluppo di un infarto miocardico che può essere favorito dal sovrapporsi di fenomeni trombotici a livello dell’occlusione causata dallo spasmo. In questi ultimi due gruppi di pazienti la diagnosi tempestiva di angina vasospastica è particolarmente importante, in quanto il pieno controllo dello spasmo con appropriata terapia vasodilatatrice permette di prevenire le complicanze gravi. La conferma diagnostica di angina variante può essere ottenuta dalla documentazione di un sopraslivellamento del tratto ST all’ECG standard registrato durante un attacco anginoso spontaneo. Il sopraslivellamento ST può variare da 1-2 mm sino a 20 mm o più. In alcuni casi, anziché un sopraslivellamento del tratto ST, l’ECG può evidenziare, durante angina, una positivizzazione di onde T negative di base (pseudonormalizzazione). Quando non si riesce a registrare un ECG durante angina, spesso la diagnosi può essere posta con un ECG dinamico di 24-48 ore, che consente di documentare episodi di sopraslivellamento del tratto ST tipici anche in assenza di Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica sintomi, essendo la maggior parte degli episodi di ischemia, anche in questo caso, silente. In alcuni casi una tipica angina vasospastica può essere indotta dal test da sforzo. In molti pazienti, tuttavia, il test da sforzo è completamente negativo, soprattutto nei pazienti che presentano arterie coronarie normali all’angiografia. Nei casi in cui rimangono dubbi, la diagnosi può essere ottenuta mediante l’esecuzione di un test provocativo di spasmo coronarico, in grado di riprodurre tipici sintomi e alterazioni del tratto ST. Gli stimoli più utilizzati a questo scopo sono l’ergonovina (endovena o intracoronarica), l’acetilcolina (intracoronarica) e l’iperventilazione. La terapia dell’attacco anginoso è costituita principalmente dalla somministrazione di un nitrato per via sub­ linguale (nitroglicerina, isosorbide dinitrato). Questi ­farmaci agiscono infatti rapidamente ed efficacemente sullo spasmo. La profilassi, viceversa, è basata principalmente sull’uso di calcio-antagonisti, sia diidropiridinici sia non diidropiridinici. Grazie alla loro elevata efficacia nel prevenire lo spasmo, questi farmaci non solo controllano i sintomi, ma migliorano in maniera sostanziale la prognosi di questi pazienti. Cardiomiopatia dilatativa postischemica In alcuni pazienti il quadro clinico di una malattia coronarica stabile o stabilizzata è dominato dai sintomi e/o segni di disfunzione ventricolare sinistra, per cui questa condizione è stata definita cardiomiopatia dilatativa postischemica, che costituisce la forma più frequente di cardiomiopatia dilatativa nei Paesi occidentali. La cardiomiopatia dilatativa postischemica può essere causata da un unico ampio infarto miocardico o da piccoli infarti multipli. In alcuni casi, tuttavia, è la manifestazione iniziale di una malattia coronarica, la cui patogenesi spesso non è chiara. Infatti, mentre in alcuni di questi casi vi è evidenza di pregressi infarti (all’ECG e/o ai test di immagine), evidentemente decorsi in modo asintomatico, in altri casi non vi è evidenza di pregressi infarti e l’ecocardiogramma mostra una compromissione diffusa della contrattilità ventricolare. In questi casi un danno ischemico cronico, con variabili fenomeni di necrosi focale, danno infiammatorio e apoptosi, è verosimilmente alla base di una perdita progressiva di miocardiociti. I sintomi della cardiomiopatia dilatativa postischemica sono tipicamente quelli della disfunzione sistolica ventricolare sinistra, principalmente dispnea da sforzo o parossistica notturna e astenia. L’esame obiettivo può evidenziare edemi declivi e l’auscultazione cardiaca un I tono ridotto, la presenza di un III tono e, a volte, un soffio sistolico da rigurgito mitralico, secondario alla dilatazione ventricolare sinistra o a disfunzione dei muscoli papillari. All’auscultazione toracica si possono apprezzare piccoli rantoli basali. L’ecocardiogramma bidimensionale consente di documentare la riduzione della contrattilità miocardica globale e l’angiografia coronarica mostra di solito una malattia coronarica multivasale. Nei pazienti con cardiomiopatia dilatativa postischemica è importante stabilire la presenza e l’entità di miocardio vitale. È possibile, infatti, che in regioni acinetiche, e quindi apparentemente prive di tessuto miocardico contrattile, sia di fatto ancora presente del miocardio vitale, anche se meccanicamente inattivo per un adattamento delle cellule miocardiche a una condizione di basso flusso coronarico (miocardio ibernato: si veda in precedenza). L’individuazione di miocardio vitale può essere effettuata con varie tecniche, tra cui quelle scintigrafiche (utilizzando traccianti che vengono captati dai miocardiociti vitali), l’eco-stress con dobutamina (che, a basse dosi, attiva la contrazione di regioni con alterazioni contrattili ma vitali) e la risonanza magnetica cardiaca (RMC). La tecnica attualmente più affidabile per la valutazione della vitalità, tuttavia, è la tomografia a emissione di positroni (PET), che utilizza un isotopo (18F2-fluoro-2desossiglucosio o FDG) in grado di individuare la presenza di cellule miocardiche metabolicamente attive in quanto esso viene captato da queste e utilizzato nel ciclo metabolico del glucosio. La valutazione del miocardio vitale è importante ai fini del trattamento del paziente. Se infatti il tessuto miocardico vitale in aree acinetiche è di una certa entità, può essere recuperato ripristinando il flusso coronarico con un intervento di rivascolarizzazione miocardica, il che può anche determinare un miglioramento della prognosi. D’altro canto l’assenza o la presenza limitata di tessuto miocardico vitale rende inutile qualsiasi tentativo di recupero della contrattilità ventricolare con interventi di rivascolarizzazione. La cardiomiopatia dilatativa postischemica è associata a una prognosi molto più grave rispetto a quella di pazienti con cardiopatia ischemica cronica e funzione ventricolare normale o quasi normale. Le ragioni dell’elevato rischio sono diverse e comprendono la frequente comparsa di aritmie ventricolari potenzialmente fatali, l’ulteriore compromissione della funzione ventricolare in caso di un evento ischemico acuto e il rischio maggiore di complicanze tromboemboliche. La terapia della cardiomiopatia dilatativa postischemica è analoga a quella di altre forme di scompenso cardiaco (si veda il Capitolo 12) e comprende l’uso di b-bloccanti (carvedilolo, anzitutto), ACE-inibitori (o antagonisti del recettore A1 dell’angiotensina) e diuretici (furosemide o tiazidici). In pazienti con buona funzione renale (creatininemia < 2,5 mg/dL) e kaliemia < 5,5 mmol/L dovrebbe essere considerata la somministrazione di un farmaco antialdosteronico (per esempio, spironolattone), mentre la digossina può essere considerata nei pazienti con fibrillazione atriale, nei quali è anche indicato l’uso di anticoagulanti orali. Quando è necessario l’uso di un antiaritmico, il farmaco di scelta è l’amiodarone. Un numero significativo di questi pazienti, infine, ha indicazione all’impianto di un defibrillatore automatico (si veda il Capitolo 11), per la prevenzione della morte improvvisa, e/o di un pacemaker biventricolare, in caso di sintomi di scompenso refrattario alla terapia medica (si veda il Capitolo 11). Come già discusso, nei pazienti con evidenza di miocardio vitale è indicato un intervento di rivascolarizzazione coronarica, prevalentemente con by-pass aorto-coronarico o, in casi selezionati, con un intervento coronarico percutaneo. 129 1 130 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento persistente del tratto ST Definizione Le sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento persistente del tratto ST comprendono l’angina instabile e l’infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST. Queste due entità nosologiche hanno costituito sino a pochi anni fa due forme distinte di sindromi coronariche, ma da alcuni anni questi due gruppi di pazienti sono sempre più inclusi insieme negli studi clinici. La ragione di ciò risiede nel fatto che sia i meccanismi fisiopatologici sia l’approccio clinico e terapeutico sono simili. La maggiore differenza fra le due presentazioni è che nell’angina instabile non si osserva un aumento significativo degli indici ematici di necrosi miocardica, mentre tale aumento viene rilevato nell’infarto. La distinzione tra angina instabile e infarto miocardico senza sopraslivellamento ST, peraltro, è stata negli ultimi anni oggetto di revisione, soprattutto perché è stata proposta una nuova definizione di infarto miocardico sulla base della quale una significativa proporzione di pazienti con un quadro clinico classificato sino a qualche anno fa come angina instabile dovrebbe oggi essere classificata come infarto miocardico acuto. La definizione clinica classica di infarto miocardico acuto è basata sulla presenza di almeno due di tre fattori: (1) dolore toracico tipico di durata pari o superiore a 30 min; (2) alterazioni ECG tipiche; (3) aumento della CK-MB nel siero di un valore almeno doppio rispetto al normale. Nella nuova definizione proposta, invece, l’infarto miocardico acuto dovrebbe essere diagnosticato ogni qualvolta si osserva un qualsiasi aumento, anche minimo, di un Figura 5.23 Schema dei meccanismi fisiopatologici coinvolti nella genesi delle sindromi coronariche acute. indicatore di danno cellulare miocardico (di troponine in particolare) in un paziente con dolore toracico tipico anche di breve durata e senza alterazioni ECG. Patogenesi e anatomia patologica Negli anni recenti l’analisi congiunta dei reperti anatomopatologici, dei quadri coronarografici (e ora anche coronaroscopici) e la più approfondita conoscenza dei meccanismi fisiopatologici ha consentito di stabilire come il meccanismo fisiopatologico principale comune delle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST sia costituito dalla trombosi intracoronarica subocclusiva. La formazione di un trombo intracoronarico in questi pazienti si verifica abitualmente a livello di placche aterosclerotiche, non necessariamente emodinamicamente gravi (stenosanti). Il trombo può essere sufficientemente ostruente da determinare ischemia a riposo, ma, poiché esso non è in genere totalmente occlusivo, l’ischemia che ne risulta è limitata agli strati subendocardici. In altri casi, tuttavia, il trombo intracoronarico non è così ostruente da ridurre in modo critico il flusso coronarico a riposo, ma determina una stenosi grave che è causa di ischemia miocardica anche in caso di aumento solo modesto della domanda miocardica di ossigeno. Un’aumentata vasocostrizione, dovuta al rilascio di sostanze vasoattive a livello del trombo, in particolare da parte delle piastrine attivate (per esempio, trombossano A2), può modulare la gravità dell’ischemia. Quando il trombo e la vasocostrizione sono così gravi da ridurre in modo critico il flusso a livello subendocardico per un periodo sufficientemente lungo si determinerà una necrosi miocardica (infarto subendocardico). Va anche osservato che un trombo coronarico, anche quando non stenosante, può causare microinfarti per il verificarsi di microembolizzazione coronarica distale. Il substrato anatomopatologico alla base della trombogenesi è rappresentato da complicanze a livello di una placca aterosclerotica che determinano l’esposizione del tessuto subendoteliale della placca al sangue circolante; ciò causa attivazione e aggregazione piastrinica a livello della placca complicata, e la successiva formazione di un trombo piastrinico più o meno grande. Le complicanze in grado di promuovere lo sviluppo di questo processo sono la rottura o l’ulcerazione della placca aterosclerotica, spesso favorite da un’emorragia intraplacca. Anche la semplice erosione della superficie endoteliale, comunque, può innescare i meccanismi trombogeni. I meccanismi che determinano le complicanze di una placca aterosclerotica sono ancora poco noti. Dati recenti indicano che un’attivazione di cellule infiammatorie nella placca abbia un ruolo importante nell’innescare i meccanismi che portano alla trombosi. Tuttavia, le cause di questa attivazione sono ancora poco noti, ma potrebbero coinvolgere autoantigeni o agenti microbici. Anche fattori chimici o meccanici (anche questi poco noti) possono avere un ruolo patogenetico nei pazienti con sindrome coronarica acuta, soprattutto in quelli che non presentano aumento degli indici di infiammazione. Una grave disfunzione dell’endotelio, causata dai vari fattori patogenetici, potrebbe spesso contribuire a facilitare la genesi del trombo (Fig. 5.23). Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica L’evoluzione del trombo condiziona l’evoluzione del quadro clinico delle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento ST. Nella maggior parte dei casi il trombo si risolve e la lesione responsabile della trombosi si ripara, per cui nel volgere di alcuni mesi il quadro istopatologico, e quindi clinico, ritorna a quello esistente prima dell’evento acuto. In alcuni casi il trombo viene organizzato e incluso nella placca sulla quale si è formato, determinando un aumento del grado di stenosi e, quindi, una riduzione della soglia ischemica del paziente. In altri casi il trombo può aumentare di volume e diventare totalmente occlusivo, e causare un infarto transmurale caratterizzato da sopraslivellamento del tratto ST. Infine va sottolineato che, risolto il trombo, la placca instabile può non guarire in modo completo e pertanto essere causa di nuovi episodi di instabilità coronarica nel breve-medio termine. Gli episodi anginosi nel paziente con angina instabile durano pochi minuti, e in ogni caso non più di 20-30 min, indicando che essi hanno alla base un’ischemia transitoria, non in grado abitualmente di causare necrosi miocardica significativa. L’esame obiettivo al di fuori dell’episodio ischemico (come già visto per l’angina stabile) può essere normale, mentre anche in questo caso durante un episodio anginoso è importante valutare se compaiono segni di scompenso cardiaco (dispnea, III tono cardiaco, rumori umidi alle basi polmonari) che suggeriscono la presenza di un esteso territorio ischemico a rischio. In accordo con il quadro clinico, anche le alterazioni ECG associate all’angina sono transitorie e reversibili. Queste consistono abitualmente di un sottoslivellamento del tratto ST, indicativo di ischemia subendocardica, o di alterazioni, meno specifiche, dell’onda T (negativizzazione). Lievi alterazioni del tratto ST e/o dell’onda T possono talora persistere tra le crisi. È da sottolineare che in qualche caso, in coincidenza con l’angina, può aversi sopraslivellamento del tratto ST, che suggerisce un’occlusione trombotica coronarica completa ma transitoria. Gli indici di necrosi miocardica, come la creatin-chinasi MB (CK-MB) e le troponine (T e I) mostrano valori ematici nella norma o solo lievemente alterati, a indicare l’assenza della perdita di una massa muscolare cardiaca significativa. In effetti un qualche rialzo di troponine nei pazienti che clinicamente hanno un quadro di angina instabile è rilevabile in circa due terzi dei casi. Questo rialzo è verosimilmente da attribuire a fenomeni di microembolizzazione distale del trombo coronarico, che determina necrosi cellulare focale (infarctlet). In base a quanto detto in precedenza, nella nuova classificazione proposta per la diagnosi di infarto miocardico questi pazienti sono classificati come affetti da infarto senza sopraslivellamento del tratto ST. Nei pazienti con angina instabile è importante escludere o individuare possibili fattori extracardiaci (per esempio, anemia, ipertiroidismo) che possono contribuire a determinare la comparsa del quadro clinico e possono condizionarne la gravità. È importante inoltre eseguire un esame del sangue completo per valutare la presenza di fattori di rischio da trattare adeguatamente (ipercolesterolemia, diabete). Manifestazioni cliniche e diagnosi Angina instabile  L’angina instabile è caratterizzata da una recente variazione del quadro clinico anginoso, che può essere costituito da un aumento della frequenza e/o durata dell’angina, dalla sua comparsa per sforzi meno intensi (angina in crescendo) o a riposo (quando prima essa insorgeva solo da sforzo), o anche da una minore sensibilità alla terapia con nitrati sublinguali. Una forma di angina instabile è anche l’angina di recente insorgenza (angina de novo), comparsa, cioè, negli ultimi 2 mesi in un paziente precedentemente del tutto asintomatico e caratterizzata da angina a riposo e/o da sforzi lievi. Un’altra forma di angina instabile, infine, è l’angina postinfartuale (che si presenta, cioè, entro poche settimane da un infarto miocardico acuto). Un’utile classificazione dell’angina instabile è quella proposta da Braunwald (Tab. 5.2), nella quale essa è suddivisa in tipo I, tipo II e tipo III, caratterizzati, rispettivamente, dall’assenza di angina a riposo, dalla presenza di angina a riposo nelle ultime 2 settimane ma non negli ultimi 2 giorni e dalla presenza di angina a riposo negli ultimi 2 giorni. Inoltre, l’angina è suddivisa in tipo A, tipo B e tipo C, caratterizzati rispettivamente dalla presenza di fattori extracardiaci che esacerbano la gravità dell’angina, dall’assenza di fattori aggravanti extracardiaci o dalla presenza di un infarto nelle ultime 2 settimane. Tabella 5.2  Classificazione dell’angina instabile (AI) di Braunwald A. Si verifica in presenza di condizioni extra-cardiache che facilitano l’ischemia miocardica (AI secondaria) B. Si verifica in assenza di condizioni extra-cardiache che facilitano l’ischemia miocardica (AI primaria) C. Si verifica nelle prime 2 settimane dopo un infarto acuto del miocardio (AI postinfar­tuale) I. Angina di recente insorgenza o angina in crescendo; non angina a riposo IA IB IC II. Angina a riposo nell’ultimo mese, ma non nelle ultime 48 ore (angina a riposo subacuta) IIA IIB IIC III. Angina a riposo nelle ultime 48 ore (angina a riposo acuta) IIIA IIIB IIIC 131 1 132 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST  L’infarto miocardico, in generale, consiste nella necrosi di un’area più o meno estesa di tessuto miocardico causata da un’ischemia grave e prolungata. Nel caso dell’infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST, la necrosi interessa abitualmente solo gli strati subendocardici di un distretto miocardico, per cui questo tipo di infarto è anche detto comunemente infarto subendocardico. Clinicamente il paziente presenta dolore toracico prolungato, superiore a 20-30 min, un tempo che indica una durata dell’ischemia sufficiente a causare un’apprezzabile necrosi del tessuto miocardico, preceduto o meno nelle ore o nei giorni precedenti da episodi anginosi transitori. L’ECG durante il dolore toracico consiste principalmente nella comparsa di un sottoslivellamento del tratto ST più o meno marcato e diffuso, anche se in alcuni casi è possibile che si abbiano solo alterazioni meno specifiche dell’onda T (negativizzazione). In accordo con il quadro clinico/anatomopatologico, inoltre, anche le alterazioni ECG sono prolungate e tendono a regredire lentamente (nel volgere di ore o giorni). Tipica dell’infarto senza sopraslivellamento ST è la mancata comparsa di onde Q di necrosi, caratteristica dell’interessamento degli strati subepicardici nel processo necrotico, per cui questo tipo di infarto è spesso denominato anche infarto miocardico non-Q. Il dosaggio dell’enzima cardiaco creatin-chinasi (CK) totale e della sua isoforma cardiaca CK-MB in questi pazienti mostra la tipica curva di aumento-decremento. Analogamente, le troponine T e I mostrano un rialzo apprezzabile. Il dosaggio della troponina T o della troponina I è ormai diventato, in effetti, il test di maggior riferimento per il rilevamento di un danno cellulare miocardico, risultando esse più sensibili della CK-MB. Come detto in precedenza, secondo la nuova classificazione proposta, il riscontro di un aumento anche minimo di troponina in un paziente con dolore toracico, in quanto indicativo di una necrosi miocellulare, per quanto microscopica, dovrebbe portare a una diagnosi di infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento ST, indipendentemente dalla durata del dolore, dalla presenza o meno di alterazioni ECG e di variazioni della CK-MB. Il comportamento tipico della CK/CK-MB, degli altri enzimi cardiaci e delle troponine in pazienti con infarto Figura 5.24 Stratificazione del rischio e conseguenti indicazioni per la gestione dei pazienti con angina instabile/infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST. ­ iocardico acuto è descritto nel paragrafo Infarto miocarm dico acuto con sopraslivellamento del tratto ST. Prognosi e stratificazione del rischio I pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST hanno un’incidenza di eventi clinici maggiori, morte e (re)infarto miocardico, nei primi 30 giorni che varia dal 2 al 10%. Il rischio si riduce poi progressivamente entro pochi mesi. È possibile individuare, tra questi pazienti, alcuni gruppi a maggior rischio di eventi, che necessitano di un trattamento più aggressivo, mentre altri gruppi presentano caratteristiche di basso rischio (Fig. 5.24). Data la maggiore incidenza di eventi nelle fasi precoci della malattia, una stratificazione precoce del rischio è fondamentale per un trattamento ottimale dei singoli pazienti. Ovviamente pazienti con sintomi o segni di scompenso, con aritmie ventricolari gravi e quelli che continuano ad avere episodi anginosi nonostante terapia medica ottimale sono ad alto rischio di eventi gravi a breve termine. Per i pazienti che non presentano queste caratteristiche cliniche minacciose una prima valutazione della gravità del quadro clinico può essere fatta sulla base delle caratteristiche del quadro anginoso che ha portato al ricovero, utilizzando la classificazione di Braunwald (si veda Tab. 5.2). Infatti la prognosi a breve-medio termine peggiora progressivamente dal tipo I al tipo III e dal tipo A al tipo C. Sono inoltre a più alto rischio di eventi cardiovascolari anche i pazienti diabetici e nefropatici. L’esame obiettivo è importante perché la presenza di segni e sintomi di scompenso si associa a una prognosi peggiore. Un altro fattore predittivo di un peggiore decorso clinico a breve-medio termine è la presenza di alterazioni del tratto ST all’ECG standard e l’aumento di alcuni marker bioumorali, in particolare delle troponine. Anche l’aumento di marker infiammatori, come la proteina C reattiva, è associato a un rischio maggiore di eventi. In studi recenti, infine, anche un aumento del peptide na- Tabella 5.3  V  ariabili per il calcolo del TIMI (Thrombolysis In Myocardial Infarction) risk score per la stratificazione del rischio in pazienti con sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST d  Età ≥ 65 anni d  ≥ 3 fattori di rischio di malattia coronarica d  Significativa stenosi coronarica (≥ 50%) d  Slivellamento significativo del tratto ST Sintomi anginosi gravi (per esempio, ≥ 2 episodi di angina nelle ultime 24 ore) d  d  Uso di acido acetilsalicilico negli ultimi 7 giorni d  Aumento dei marker sierici di danno miocardico Ogni variabile vale 1 punto. I pazienti possono essere classificati a basso, medio o alto rischio in base a un punteggio basso (0-2), intermedio (3-4) o elevato (5-7). Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica triuretico di tipo B (BNP) o del pro-BNP (che vengono rilasciati dal miocardio ventricolare in caso di aumentata tensione intracardiaca) ha mostrato avere un significato prognostico negativo. L’esecuzione all’ingresso di un ECG Holter di 24-48 ore potrebbe essere utile in questi pazienti, in quanto il riscontro di episodi di ischemia miocardica e di aritmie, spesso silenti, è un importante predittore di rischio. Per cercare di migliorare la stratificazione del rischio dei pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento ST sono stati anche proposti alcuni indici di rischio compositi, derivanti dalla valutazione e combinazione di vari fattori prognostici individuali. Tra i più utilizzati vi è il TIMI (Thrombolysis In Myocardial Infarction) risk score, che risulta dalla valutazione di 7 variabili cliniche e di laboratorio (Tab. 5.3). Nei pazienti che non presentano predittori di rischio di eventi coronarici a breve termine, i quali indicano un trattamento di rivascolarizzazione miocardica durante il ricovero, è opportuna una rivalutazione del rischio al momento della dimissione. Come nei pazienti con angina stabile, i fattori prognosticamente più importanti sono a questo proposito la funzione ventricolare sinistra (valutata come frazione di eiezione all’ecocardiogramma), la capacità di esercizio (valutata con test da sforzo) e la risposta ai test di induzione di ischemia miocardica (sempre all’ECG da sforzo o a stress test di immagine). Terapia Nel caso delle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST è necessario il ricovero ospedaliero, in quanto esiste un rischio significativo di evoluzione a breve termine verso complicanze gravi. Sulla base dei meccanismi fisiopatologici responsabili del quadro clinico, la terapia di prima linea è costituita da farmaci che inibiscono l’aggregazione piastrinica e la coagulazione, con la finalità principale di evitare l’evoluzione del trombo subocclusivo verso un’occlusione trombotica coronarica completa e prolungata. Altri interventi, d’altro canto, sono finalizzati principalmente a trattare e prevenire ulteriori episodi di ischemia miocardica. Antiaggreganti piastrinici  L’acido acetilsalicilico è il farmaco cardine del trattamento dei pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST, essendosi mostrato in grado di migliorare la prognosi. Oggi, inoltre, a questi pazienti si tende a somministrare una doppia terapia antiaggregante piastrinica, associando all’acido acetilsalicilico un antiaggregante tienopiridinico come il clopidogrel. Nei pazienti sottoposti a interventi di rivascolarizzazione coronarica per via percutanea spesso viene aggiunto un ulteriore farmaco antiaggregante, vale a dire un inibitore della glicoproteina IIb-IIIa, che costituisce il recettore piastrinico che lega il fibrinogeno e, quindi, la via finale comune di tutti i meccanismi che stimolano l’aggregazione piastrinica. Anticoagulanti  Una terapia anticoagulante è somministrata per alcuni giorni a molti di questi pazienti. Si può, a questo proposito, utilizzare l’eparina non frazionata, che esercita l’effetto anticoagulante inibendo l’attivazione della trombina e del fattore Xa da parte dell’antitrombina III, o un’eparina a basso peso molecolare, che agisce principalmente inattivando il fattore Xa. Le eparine a basso peso molecolare hanno il vantaggio che la loro somministrazione non necessita, al contrario dell’eparina non frazionata, di monitoraggio laboratoristico dello stato della coagulabilità del sangue. Altri farmaci anticoagulanti, di introduzione più recente, sono gli inibitori diretti del fattore Xa, che sembrano dare meno complicanze emorragiche delle eparine, e gli inibitori diretti della trombina, che possono sostituire gli inibitori della glicoproteina IIb-IIIa in pazienti che vanno incontro a interventi percutanei di rivascolarizzazione. Terapia antischemica  La somministrazione sublinguale di nitrati rimane il trattamento di scelta dell’attacco acuto di angina e la somministrazione e.v. di nitroglicerina può contribuire a stabilizzare il paziente nelle prime ore, ed è consigliabile soprattutto in presenza di altre condizioni (ipertensione, insufficienza ventricolare sinistra) che ne rendono più utile l’impiego. I pazienti con angina instabile, a meno di controindicazioni, dovrebbero ricevere un b-bloccante, preferibilmente b1-selettivo, anche se mancano adeguati studi controllati che abbiano dimostrato benefici sulla prognosi da parte di questi farmaci in questo ambito. In presenza di controindicazioni ai b-bloccanti si può ricorrere all’uso di calcio-antagonisti non diidropiridinici. Statine  L’uso di statine è attualmente incoraggiato praticamente in tutti i pazienti con una sindrome coronarica acuta. Alcuni dati, inoltre, suggeriscono che l’uso di alte dosi di questi farmaci potrebbe migliorare ulteriormente il decorso clinico. Rivascolarizzazione miocardica  Negli ultimi anni vi è stata una tendenza a un approccio più aggressivo nei pazienti con sindromi coronariche acute con l’uso di interventi di rivascolarizzazione miocardica per via percutanea entro, di solito, 48 ore dal ricovero. La conclusione che si trae da un’analisi obiettiva del complesso degli studi disponibili indica, tuttavia, che un tale approccio è utile solo nei pazienti a più alto rischio, ovvero: • pazienti che continuano a presentare episodi transitori di ischemia miocardica con o senza (ischemia silente) angina, nonostante terapia farmacologica ottimale; pazienti che presentano segni e sintomi di scom• penso cardiaco e/o grave disfunzione ventricolare sinistra e/o gravi aritmie; 133 1 134 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO • pazienti diabetici o con angina postinfartuale; • pazienti che presentano significative alterazioni ECG; • pazienti che presentano un rialzo significativo degli indici di necrosi miocardica (in particolare troponina). Nei pazienti che non necessitano di rivascolarizzazione miocardica urgente, l’indicazione a un intervento di rivascolarizzazione elettiva è basata sugli stessi principi già illustrati per l’angina cronica stabile. Similmente, la scelta del tipo di rivascolarizzazione (percutanea o chirurgica) va presa sulla base del quadro clinico e angiografico come descritto per l’angina stabile. Terapia alla dimissione  La terapia prescritta alla dimissione ha l’obiettivo di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari maggiori a distanza ed è basata sugli stessi principi e sugli stessi farmaci descritti per l’angina stabile. L’unica differenza è rappresentata dall’opportunità di aggiungere in questo caso il clopidogrel per 6-12 mesi, soprattutto in pazienti con quadro clinico di maggiore rischio. Questo dipende dal fatto che il rischio di recidiva di un’instabilità coronarica è maggiore nei primi mesi dopo l’evento acuto, mentre decresce progressivamente e marcatamente in seguito. Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST Definizione L’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST identifica il quadro clinico considerato come la più tipica espressione dell’infarto. È causato da un’ischemia grave e prolungata che, a differenza dell’infarto senza sopraslivellamento ST, interessa una regione del miocardio per tutto il suo spessore, una condizione indicata comunemente anche come infarto miocardico transmurale. Il meccanismo responsabile dell’ischemia prolungata che porta alla necrosi miocardica è rappresentato dalla trombosi acuta di un vaso coronarico epicardico, che, contrariamente a quanto visto nel caso dell’infarto senza sopraslivellamento del tratto ST, è in questo caso totalmente occlusiva e persistente. Patogenesi Nella maggior parte degli infarti con sopraslivellamento del tratto ST l’esame coronarografico eseguito nelle prime ore evidenzia un’occlusione completa dell’arteria coronaria che porta il sangue alla regione colpita (arteria correlata all’infarto). L’occlusione, che avviene in modo acuto, è dovuta nella stragrande maggioranza dei casi a una trombosi che si forma a livello di una placca aterosclerotica, non necessariamente significativa, ma andata incontro a complicanze. In pazienti con storia clinica di angina vasospa- stica l’occlusione è verosimilmente causata da uno spasmo prolungato di un’arteria epicardica associato a stasi ematica che, a sua volta, innesca la formazione del trombo. Va sottolineato che trombosi e vasocostrizione possono coesistere e potenziarsi vicendevolmente. Infatti, le piastrine, che hanno un’importanza fondamentale nella genesi del trombo, liberano nel sito di attivazione sostanze (come il trombossano A2) che possiedono una potente azione vasocostrittrice. D’altro canto, la vasocostrizione coronarica, alterando il flusso locale, può favorire l’attivazione piastrinica. L’esame coronarografico eseguito a distanza di ore o di giorni dall’esordio dell’infarto mostra una prevalenza di occlusioni trombotiche inferiore rispetto alla fase acuta, anche in presenza di stenosi aterosclerotiche più o meno significative, indicando che la ricanalizzazione di un’arteria coronaria per lisi spontanea del trombo è un evento frequente. Questo fatto spiega anche la minore incidenza di occlusioni coronariche rilevate agli esami autoptici in pazienti deceduti dopo ore da un infarto miocardico acuto. I meccanismi che determinano la trombosi coronarica sono simili a quelli descritti per le sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST. Come detto, la differenza fondamentale è che nel primo caso la trombosi non è di solito occlusiva ed è spontaneamente reversibile in breve tempo, mentre nel secondo caso è persistente. Le cause di questa diversa evoluzione della trombosi nelle due sindromi sono ancora poco chiare. Diversi fattori condizionano l’estensione dell’infarto miocardico, che è uno degli elementi prognostici principali di questo quadro clinico. Più è esteso l’infarto, infatti, maggiore è la quantità di muscolo cardiaco che viene persa e, quindi, la compromissione dell’attività contrattile globale del cuore. Questi fattori sono: • la sede dell’occlusione trombotica (più l’occlusione è prossimale, più l’infarto sarà esteso); • la durata dell’occlusione (più prolungata è l’occlusione, e quindi l’ischemia, più estesa sarà la necrosi); • lo sviluppo di circolo collaterale verso la regione colpita dall’infarto (più il circolo collaterale è sviluppato, minore è l’estensione della necrosi); • la reazione neurovegetativa ed emodinamica all’infarto stesso; durante l’infarto, infatti, sia per il dolore sia per un’eventuale compromissione emodinamica, si può verificare un aumento dell’attivazione del sistema nervoso adrenergico e delle concentrazioni di catecolamine circolanti, che determinano aumento della frequenza cardiaca e delle resistenze periferiche, causando un aumento del fabbisogno miocardico di ossigeno, e facilitando quindi l’estensione dell’area di necrosi. • la presenza di episodi anginosi nelle ore o nei giorni precedenti l’infarto (angina preinfartuale); come già visto, questi episodi possono indurre un precondizionamentto ischemico che può limitare marcatamente l’estensione dell’infarto. Si deve notare che in circa il 5% dei pazienti con infarto miocardico acuto la coronarografia mostra arterie Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica c­ oronarie indenni da stenosi. Le cause dell’infarto in questi casi sono verosimilmente diverse e non sempre facilmente identificabili. Uno spasmo coronarico o un trombo occlusivo andato incontro a lisi spontanea e completa sono tra i meccanismi più probabili. In alcuni pazienti è possibile che il quadro clinico sia in effetti dovuto a una miocardite focale con esordio pseudoinfartuale. Anatomia patologica La sede di un infarto miocardico dipende dall’arteria coronaria occlusa. Così, un’occlusione dell’arteria discendente anteriore dà luogo a un infarto anteriore e del setto, un’occlusione dell’arteria circonflessa dà luogo a una necrosi in sede laterale ed eventualmente posteriore, mentre un’occlusione dell’arteria coronaria destra dà origine a una necrosi della parete inferiore ed eventualmente posteriore. Tuttavia le dimensioni dell’arteria circonflessa e della coronaria destra, come notato nella descrizione dell’anatomia coronarica, variano molto da paziente a paziente e ciò ha ovviamente ripercussioni sulla sede ed estensione dell’infarto causato dall’occlusione di una di queste due arterie. Abitualmente la necrosi interessa il miocardio ventricolare sinistro e settale; tuttavia, circa un terzo degli infarti inferiori mostra anche un coinvolgimento del miocardio del ventricolo destro. Generalmente, le modificazioni macroscopiche nell’area infartuata si rendono visibili solo dopo 18-24 ore dall’occlusione trombotica, e quindi dall’inizio della sintomatologia dolorosa. Sulla superficie di taglio il miocardio colpito appare pallido e secco e spicca sul tessuto normale circostante. Fra il 2° e il 4° giorno la zona dell’infarto mostra un sottile alone giallo prodotto dall’infiltrazione neutrofila. Questa zona si estende progressivamente, talora assumendo un colorito giallo-verdastro, verso il centro, che viene raggiunto intorno al 5°-6° giorno. Lo spessore della parete cardiaca nell’area infartuata appare ridotto come conseguenza della necrosi del tessuto miocardico. Successivamente l’area infartuata appare delimitata da una linea depressa rosso porpora di tessuto di granulazione, che intorno all’8°-10° giorno si estende rapidamente a tutta l’area. Dopo 4 settimane, l’area infartuale acquista gradualmente un aspetto gelatinoso grigiastro, sino a trasformarsi in cicatrice dura e retratta nel corso dei successivi 3-4 mesi. Il tempo richiesto per una completa sostituzione del tessuto necrotico e cicatrizzazione dipende dalle dimensioni dell’infarto. Le modificazioni morfologiche macroscopiche corrispondono a precisi quadri microscopici. Le miocellule, danneggiate in modo irreversibile, vanno incontro a necrosi coagulativa che con le normali colorazioni è visibile non prima che siano trascorse 12-15 ore. Prima di tale tempo possono essere visibili, ma non sempre, un certo grado di edema, perdita delle strie trasversali, picnosi o cariolisi. La necrosi del muscolo e la scomparsa delle fibre si rendono evidenti dopo 48 ore, quando alla periferia dell’infarto comincia ad apparire un essudato ricco di neutrofili che si estende su tutta l’area infartuata nel 4°-5° giorno e che, con la liberazione di enzimi proteolitici, determina la digestione del materiale necrotico. I neutrofili vengono sostituiti da macrofagi e linfociti e contemporaneamente, intorno al 7° giorno, alla periferia dell’infarto compare una sottile zona di tessuto di granulazione. Entro 6-7 settimane, la zona necrotica viene totalmente sostituita dal tessuto di granulazione che si fa sempre meno ricco di cellule e vasi, mentre ha luogo un’abbondante neoformazione di fibre collagene. Entro 4-6 settimane la sclerosi cicatriziale è completata. Si deve notare che studi recenti hanno evidenziato come una percentuale significativa di miocardiociti muore per apoptosi nelle ore, giorni e anche settimane successive all’infarto. Questo tipo di morte cellulare non evoca una risposta infiammatoria e il suo significato è ancora controverso. Sintomatologia In più della metà dei pazienti colpiti da infarto miocardico l’anamnesi è negativa per precedenti sintomi cardiaci: l’infarto, cioè, è la prima manifestazione della cardiopatia ischemica. In altri casi l’anamnesi rivela una storia di angina stabile, uno o più episodi di angina instabile, o anche un o più infarti pregressi. In circa metà dei casi l’infarto è preceduto da angina preinfartuale nelle ore e giorni precedenti l’insorgenza del dolore infartuale. Nella maggior parte dei pazienti non è identificabile alcun fattore scatenante. La maggior parte degli infarti, infatti, avviene durante normali attività, o anche durante il riposo. Solo in una piccola percentuale dei casi, variabile dal 2 al 13%, l’evento si verifica durante un esercizio fisico intenso. Nell’8-23% dei casi, d’altro canto, l’infarto si manifesta durante il riposo notturno. Anche l’insorgenza dell’infarto miocardico acuto presenta un ritmo circadiano, caratterizzato da una maggior frequenza nelle ore del mattino, tra le 6 e le 10, con picco massimo attorno alle 8, ma con un picco secondario nelle ore pomeridiane. Come detto per l’ischemia, questo andamento circadiano si può spiegare con il fatto che proprio in questi periodi si osserva un parallelo aumento dell’intensità di alcuni fenomeni fisiologici, come un aumento dell’aggregabilità piastrinica e il rilascio di catecolamine plasmatiche, in grado di influenzare la funzione vascolare ed emostatica facilitando fenomeni trombotici e vasocostrizione. Il sintomo fondamentale dell’infarto miocardico acuto è ancora una volta il dolore toracico. Esso è analogo per sede (retrosternale, con frequente irradiazione al lato ulnare del braccio sinistro, a entrambe le braccia e/o al giugulo) e qualità (abitualmente costrittivo-gravativo) a quello anginoso, ma abitualmente è più intenso e, soprattutto, ha una durata prolungata, di solito diverse ore, e comunque non meno di mezz’ora. Al dolore in diversi casi si associano astenia intensa, sudorazione algida, nausea e, in alcuni casi, vomito. Quando l’infarto esordisce durante uno sforzo, il dolore, diversamente da quello anginoso, non regredisce con il riposo. Sebbene il dolore toracico sia il sintomo fondamentale, esso non è sempre presente: come si è osservato in precedenza, infatti, una percentuale variabile dal 15 al 20% dei casi di infarto miocardico si presenta senza dolore. L’incidenza degli infarti asintomatici aumenta con l’avanzare dell’età e sembra più alta nei pazienti diabetici. Inoltre, in questi gruppi di pazienti l’infarto sembra potersi presentare più spesso con astenia marcata o dispnea 135 1 136 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO improvvisa, a volte ingravescente, sino al quadro di edema polmonare acuto. Altre forme meno comuni di presentazione dell’infarto possono essere una sincope, un’ipotensione non giustificata da altra causa e la comparsa di aritmie. Pneumotorace  Il dolore è a insorgenza acuta, localizzato all’emitorace interessato e proiettato alla spalla e all’arto superiore omolaterale; al dolore si associa dispnea. L’esame obiettivo e una radiografia del torace confermano la diagnosi. Diagnosi differenziale del dolore infartuale Pleurite Abitualmente la diagnosi differenziale è in questo caso semplice per la localizzazione e le caratteristiche del dolore, che si accentua con gli atti respiratori; anche l’obiettività toracica è in genere tipica. Nella diagnosi differenziale del dolore toracico dell’infarto miocardico acuto si devono prendere in considerazione diverse patologie. Pericardite  Il dolore in questo caso presenta in genere alcune caratteristiche tipiche; la localizzazione spesso è retrosternale, ma il dolore si accentua con gli atti del respiro e, classicamente, si riduce con l’assunzione della posizione seduta, mentre si esacerba in posizione clinostatica; la diagnosi può essere confermata dal rilievo di sfregamenti pericardici (che tuttavia sono spesso fugaci e quindi non sempre rilevabili) e, soprattutto, dal rilievo di tipiche alterazioni all’ECG (si veda il Capitolo 9) e, in molti casi, di versamento pericardico all’ecocardiogramma. Dissecazione aortica  Il dolore, in questo caso, sebbene spesso a localizzazione retrosternale, è in genere molto più intenso, spesso intollerabile; esso esordisce improvvisamente e ha un’intensità massima sin dall’inizio, diversamente dal dolore ischemico, che ha un andamento in crescendo; caratteristica è la proiezione del dolore al dorso e a volte anche posteriormente in basso (se la dissecazione progredisce verso l’aorta toracica discendente o addominale). Un attento esame clinico, che può rilevare pressione arteriosa elevata e polsi asimmetrici, e la discrepanza tra gravità del dolore e alterazioni ECG di solito modeste, suggerisce la diagnosi corretta, che può essere confermata con l’ecocardiografia transesofagea o con l’angiografia digitale computerizzata. Embolia polmonare  Nel caso di embolia polmonare massiva si può manifestare un improvviso dolore retrosternale, difficilmente distinguibile da quello miocardico ischemico; a esso, tuttavia, si associano dispnea intensa, cianosi e stato di shock; se l’embolia non interessa un grosso tronco polmonare, il dolore toracico è meno intenso e ha le caratteristiche del dolore pleuritico, con significativa accentuazione con gli atti del respiro. La diagnosi viene ottenuta con l’angiografia polmonare digitale computerizzata. Figura 5.25 Tipica evoluzione temporale dell’ECG nell’infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (si veda il testo per i dettagli). (Da: Camm AJ, Serruys PW, Lüscher TF. The ESC textbook of cardiovascular medicine. London: Blackwell Publ; 2007, modificata.) Disturbi di origine gastrointestinale, neuromuscolare e psicologica A questo riguardo valgono le stesse considerazioni fatte a proposito della diagnosi differenziale dell’angina, in quanto queste patologie possono simulare anche il dolore infartuale. Esame obiettivo A volte l’unico dato obiettivo rilevabile è la reazione al dolore. Questo, sebbene intenso, è spesso stabile e discretamente tollerato. In diversi casi, tuttavia, il paziente si presenta ansioso e agitato e cambia spesso posizione alla ricerca di una postura che allevi il dolore. Come detto, a volte il paziente può presentarsi pallido, con sudorazione fredda, come conseguenza di una iperincrezione catecolaminica; in altri casi presenta nausea e vomito, mediati, invece, da una stimolazione vagale (che è piuttosto frequente nel caso di un infarto inferiore). Il polso può presentare bradicardia, tachicardia o normofrequenza e può rivelare la presenza di extrasistoli. La palpazione del precordio, nel caso di necrosi anteriore estesa, può rilevare un impulso precordiale. All’auscultazione cardiaca si possono rilevare eventuali aritmie già constatate alla palpazione del polso; molto frequente è la presenza di un IV tono, mentre la comparsa di un III tono può essere espressione di una necrosi estesa con compromissione della funzione ventricolare sinistra. In presenza di un malfunzionamento dei muscoli papillari è udibile alla punta un soffio meso-telesistolico da insufficienza mitralica. L’auscultazione del torace nei casi non complicati non mette in evidenza alterazioni particolari, ma in caso di scompenso cardiaco può rivelare la presenza di rantoli alle basi polmonari. Nei casi più gravi di insufficienza cardiaca secondaria al danno miocardico infartuale si può sviluppare rapidamente un edema polmonare acuto caratterizzato da dispnea intensa e rantoli su tutto l’ambito polmonare. Nei casi di infarto molto esteso, infine, in cui la compromissione della funzione di pompa del cuore è molto marcata (perdita di muscolo cardiaco in proporzione superiore al 40% della massa totale), il quadro clinico di presentazione è quello dello shock. Nei casi non complicati, il comportamento della pressione arteriosa è variabile, potendo rimanere invariata, aumentare o ridursi rispetto ai valori abituali del paziente. La temperatura cutanea mostra un transitorio innalzamento, abitualmente non superiore ai 38 °C, che si manifesta dopo 24-48 ore dall’inizio dei sintomi. Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica 137 1 Figura 5.26 Esempio di evoluzione nel tempo del quadro ECG di un infarto della parete inferiore del miocardio. Diagnosi La diagnosi di infarto miocardico acuto si basa principalmente, oltre che sui sintomi, sull’analisi dell’ECG e sulla valutazione degli indici di necrosi miocardica nel sangue. Elettrocardiogramma  L’ECG è il primo esame, da eseguire immediatamente, in un paziente che si presenta con un dolore toracico sospetto per infarto miocardico acuto. I segni ECG dell’infarto in fase acuta non sono stabili. Come visto, infatti, la necrosi miocardica è un evento dinamico, che evolve nel tempo, e l’ECG testimonia, con la propria evoluzione, le alterazioni fisiopatologiche che si verificano in tempi successivi a livello miocardico. Nell’infarto miocardico transmurale si possono distinguere abitualmente quattro stadi principali di evoluzione (Figg. 5.25, 5.26). • I stadio. Le alterazioni elettrocardiografiche del I stadio sono caratteristiche delle prime ore dall’esordio dei sintomi. Esse consistono principalmente in un sopraslivellamento del tratto ST, indicativo di una grave ischemia transmurale (nell’elettrocardiografia classica definito come onda di lesione subepicardica), con o senza la presenza di iniziali segni di necrosi (piccola onda Q). In questa fase il sopraslivellamento del tratto ST può essere talmente marcato da tendere a inglobare l’onda T. Queste alterazioni sono rilevabili nelle derivazioni che esplorano la parete miocardica colpita dall’infarto. Nelle derivazioni opposte a queste ultime si può spesso rilevare un sottoslivellamento del tratto ST (per esempio, in sede inferiore nel caso di un infarto anteriore, in sede anteriore in caso di infarto inferiore) che rappresenta un’immagine elettrica speculare del sopralivellamento registrato nelle derivazioni sede di ischemia (Figg. 5.27, 5.28). Si deve notare che, poiché le derivazioni standard dell’ECG non esplorano direttamente la parete posteriore del ventricolo sinistro, un infarto miocardico transmurale che colpisca questa regione si può manifestare all’ECG standard solo con alterazioni nelle derivazioni anteriori, ossia con un sottoslivellamento del tratto ST in V1­V3, speculare di una corrente di lesione diretta posteriormente (si veda Fig. 5.28); in questi casi la documentazione diretta del sopraslivellamento del tratto ST può essere ottenuta registrando le derivazioni posteriori (V8-V9). • II stadio. A distanza di alcune ore dall’esordio, sempre nelle derivazioni che esplorano l’area infartuata, l’ECG mostra un’evoluzione caratterizzata dalla progressiva riduzione del sopraslivellamento del tratto ST e dalla comparsa di onde T negative e di onde Q profonde e larghe, tipiche della necrosi miocardica. La durata di questo stadio è molto variabile. Queste alterazioni ECG, infatti, possono durare da poche ore a parecchi giorni. La persistenza per lungo tempo del sopraslivellamento del tratto ST, particolarmente comune negli infarti anteriori, può essere espressione dello sviluppo di un aneurisma del ventricolo sinistro nella sede della necrosi. • III stadio. Questa fase è caratterizzata dalla normalizzazione del tratto ST, che torna all’isoelettrica, e dall’approfondimento della negatività dell’onda T, con persistenza delle onde Q di necrosi. In molti casi questo stadio si prolunga nel tempo, tanto da rimanere come segno definitivo del pregresso infarto. • IV stadio. In alcuni casi, dopo alcune settimane o anche più precocemente, si può assistere alla 138 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Figura 5.27 Esempio di infarto miocardico antero-laterale in fase acuta. Si osservino il sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni antero-laterali (V2-V6) e la presenza di complessi QS da V2 a V4. Figura 5.28 Esempio di infarto miocardico infero-posteriore in fase acuta caratterizzato da sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni diaframmatiche (DII, DIII e aVF). Si osservi il sottoslivellamento del tratto ST in sede anteriore (V1-V3), che è espressione in questo caso di un’onda di lesione transmurale (sopraslivellamento del tratto ST) posteriore. Figura 5.29 Quadro ECG di un infarto miocardico pregresso sia della parete antero-laterale (QS in tutte le derivazioni precordiali) sia della parete inferiore (onde Q in DII-DIII-aVF). Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica Tabella 5.4  L ocalizzazione della sede dell’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST sulla base dell’ECG. Le localizzazioni ECG si combinano in caso di infarto che interessi regioni miocardiche multiple (per esempio, antero-laterale, infero-laterale ecc.) Sede dell’infarto Derivazioni ECG con ↑ST Anteriore V1-V5 Laterale V5-V6, D1-aVL Inferiore D2-D3-aVF Posteriore V1-V3 (sottoslivellamento ST) progressiva riduzione delle alterazioni dell’onda T, che può anche normalizzarsi completamente. In questi casi l’unico segno ECG dell’avvenuto infarto è un’onda Q patologica o un compesso ventricolare totalmente negativo (complesso QS) (Fig. 5.29). Anche quest’ultima, con il tempo, può ridursi di ampiezza e durata, diventando non diagnostica, per cui l’ECG può tornare a essere sostanzialmente nei limiti della normalità. È stato già sottolineato come un’onda Q sia da ritenere anormale, e quindi indicativa di una necrosi miocardica, solo quando presenta alcune caratteristiche, ossia una durata ≥ 0,04 sec e un’ampiezza ≥ 25% dell’ampiezza dell’onda R. Va osservato che un’onda Q isolata in D3 non è di per sé sufficiente, in genere, a far porre la diagnosi di necrosi inferiore, richiedendo questa la presenza di un’onda Q patologica almeno anche in aVF. Sulla base di quanto detto prima, ne deriva che l’ECG non solo consente la diagnosi di infarto miocardico, ma permette anche di individuare la sua localizzazione e di suggerire l’entità della sua estensione (in base al numero di derivazioni coinvolte nelle alterazioni). Una sintesi della classificazione della sede dell’infarto in base all’ECG è riportata nella tabella 5.4. Questa classificazione, tuttavia, non è sempre adeguata a individuare a livello di quale arteria coronarica si sia verificata l’occlusione. In linea di massima, tuttavia, si può essere sostanzialmente certi che, in caso di infarto anteriore (alterazioni ECG nelle derivazioni V1-V4) o antero-laterale (alterazioni ECG nelle derivazioni V1-V6), l’arteria coronaria interessata dall’occlusione è la discendente anteriore, mentre in quello laterale (D1-aVL, V5-V6) è la circonflessa sinistra. In caso di infarto inferiore, tuttavia, l’arteria occlusa è molto più frequentemente la coronaria destra, ma può anche essere l’arteria circonflessa. Studi più accurati hanno consentito correlazioni ancora più precise tra alterazioni ECG e sede dell’occlusione coronarica responsabile dell’infarto. Così, nel caso di un infarto anteriore, un sopraslivellamento del tratto ST in V1-V4 e in aVL, con un sottoslivellamento di più di 1 mm in aVF, indica un’occlusione prossimale dell’arteria coronaria discendente anteriore sinistra, mentre il sopraslivellamento del tratto ST in V1-V3 senza alterazioni del tratto ST in altre derivazioni indica un’occlusione più distale (dopo l’origine del primo ramo diagonale) di questa stessa arteria. Per quanto riguarda gli infarti inferiori, un sopraslivellamento del tratto ST in D3 di entità maggiore che in D2, e con sottoslivellamento del tratto ST superiore a 1 mm in D1 e aVL, indica un’occlusione dell’arteria coronaria destra. Viceversa, un sopraslivellamento del tratto ST in D3 non superiore a quello in D2, e con tratto ST isoelettrico o sopraslivellato in aVL, indica un’occlusione dell’arteria circonflessa. L’evoluzione nel tempo delle alterazioni del tratto ST durante la fase acuta di un infarto miocardico è anche un ottimo indice di valutazione dell’occorrenza o meno di riperfusione dell’arteria coronaria occlusa. Infatti, quanto più rapidamente il sopraslivellamento del tratto ST regredisce tanto più precoce e migliore è la riperfusione del miocardio della regione infartuale. Questo comportamento è particolarmente utile per valutare il successo dei trattamenti di riperfusione coronarica (la fibrinolisi e l’angioplastica primaria). Una riduzione di più del 70% del sopraslivellamento del tratto ST entro 90 min da una terapia riperfusiva, infatti, suggerisce una riperfusione efficace ed è associata a un decorso clinico più favorevole. La mancata riduzione del sopraslivellamento del tratto ST entro questo tempo suggerisce, invece, l’assenza di riperfusione miocardica. Indici ematici di necrosi miocardica  In condizioni normali gli enzimi abitualmente contenuti nelle cellule miocardiche sono assenti o presenti solo in minima quantità in circolo. In caso di necrosi delle cellule miocardiche queste sostanze vengono liberate nel sangue e quindi raggiungono valori nettamente superiori a quelli del range di normalità. • Creatinin-chinasi: l’enzima utilizzato come riferimento nella diagnosi di infarto miocardico acuto è la creatin-chinasi (CK), o meglio ancora la sua forma cardio-specifica CK-MB. La CK totale, infatti, presenta il limite di non essere strettamente specifica di un’origine cardiaca, in quanto può essere rilasciata da diversi organi, tra cui, in particolare, le cellule muscolari scheletriche. Essa può quindi aumentare in seguito a un danno che colpisca queste cellule, come un’infiammazione o un trauma di un muscolo, ma anche, più banalmente, una puntura intramuscolare o uno sforzo muscolare intenso. La CK, inoltre, aumenta significativamente in caso di danno cerebrale (per esempio, per un ictus). La CK-MB, invece, è più specifica per il miocardio. Essa è uno dei tre isoenzimi che compongono la CK totale: la CK-MM, che costituisce la quasi totalità della CK presente nelle cellule muscolari scheletriche; la CK-BB, che si ritrova quasi essenzialmente nelle cellule cerebrali; e la CK-MB, che si riscontra prevalentemente nelle cellule miocardiche. Un aumento della CK-MB può quindi essere considerato, almeno per quanto riguarda l’utilizzo clinico, sufficientemente specifico di un danno miocardico. In effetti, anche la CK-MB non è di esclusiva origine cardiaca; essa è infatti presente in minime quantità anche nella prostata, nell’utero, nel diaframma e nel piccolo intestino; tuttavia, un suo 139 1 140 Figura 5.30 Andamento temporale delle concentrazioni dei principali indici di necrosi miocardica nell’infarto miocardico acuto. Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Si veda il testo per i dettagli. (Da: Camm AJ et al., 2007, op. cit., modificata). incremento nel plasma a partenza da questi organi si ha in genere solo nel caso di interventi chirurgici che li coinvolgano. Per la diagnosi di infarto è importante non solo la rilevazione di un aumento della concentrazione plasmatica di questi enzimi, ma anche il loro andamento temporale, vale a dire il tempo di comparsa dell’aumento rispetto all’esordio dei sintomi, il tempo di raggiungimento del picco e il tempo di ritorno ai valori basali, che può essere valutato con il dosaggio periodico. La CK inizia ad aumentare apprezzabilmente dopo circa 6 ore dall’esordio dei sintomi, raggiunge il picco a 24 ore o poco più tardi, e ritorna a valori normali entro 72 ore. L’aumento della CK-MB, d’altro canto, può cominciare a essere rilevato anche dopo solo 4 ore dall’esordio dei sintomi e segue lo stesso andamento (Fig. 5.30). Il dosaggio della CK/CK-MB non consente soltanto di confermare la diagnosi di infarto, ma permette anche di fare una valutazione dell’entità della necrosi. Infatti, quanto più alta è la concentrazione massima che la CK e, ancor più, la CK-MB raggiungono nel plasma, tanto più estesa è la necrosi, sebbene una valutazione più precisa della massa miocardica interessata dalla necrosi potrebbe essere ottenuta dall’analisi della curva concentrazioni-tempo degli stessi enzimi. Per poter ottenere un quadro attendibile dell’andamento temporale e del picco delle concentrazioni, la CK-MB dovrebbe essere misurata nel siero almeno 3-4 volte al giorno nelle prime 48 ore, e poi almeno una volta al giorno sino alla sua normalizzazione. Si deve sottolineare come un più rapido rialzo della CK/CK-MB, dovuto a una più rapida immissione in circolo, si verifica in caso di un’efficace riperfusione precoce dell’arteria coronaria occlusa, ottenuta con la fibrinolisi o con l’angioplastica primaria; anche il picco della CK/CK-MB sarà, in questo caso, più precoce (in media attorno alla 12ª ora) e in genere maggiore. Pertanto, come la rapidità dell’evoluzione del sopraslivellamento del tratto ST all’ECG, anche la precocità del picco della CK/CK-MB può essere utilizzata in clinica come elemento indiretto di riperfusione. • Troponine: le troponine cardiache (T e I) sono sia più specifiche di necrosi miocardica rispetto alla CK-MB sia anche più sensibili, a causa della loro lunga emivita, che le rende in grado di individuare un danno miocardico ischemico anche dopo alcuni giorni dall’evento acuto, quando la CK-MB si è già normalizzata. Le troponine possono essere dosate facilmente con anticorpi monoclonali. La sequenza aminoacidica delle troponine T e I cardiache è infatti diversa da quella delle molecole corrispondenti che si trovano in altri muscoli. Questo ha permesso lo sviluppo di anticorpi monoclonali che ne consentono il dosaggio. Normalmente la troponine T e la troponina I cardiache non sono presenti, o sono presenti a concentrazioni bassissime, nel sangue. Viceversa, esse aumentano significativamente anche in caso di una minima necrosi cellulare miocardica. Come la CK/CK-MB, anche le concentrazioni plasmatiche delle troponine cardiache mostrano un tipico andamento temporale in relazione a un infarto miocardico acuto. Esse cominciano ad aumentare 4-6 ore dopo l’esordio dei sintomi e raggiungono il picco a 24 ore o poco più. Contrariamente alla CK e alla CK-MB, tuttavia, le troponine, come detto, possono rimanere elevate nel sangue per diversi giorni, e anche fino a 2 settimane dopo l’infarto (si veda Fig. 5.30); anche il loro picco dà un’indicazione dell’estensione della necrosi miocardica. È da ricordare che un rialzo sia della CK/ CK-MB sia delle troponine non necessariamente indica un danno cellulare miocardico ischemico. Anche una necrosi cellulare secondaria ad altre patologie (per esempio, infiammatoria, traumatica, tossica) può causare un loro aumento nel sangue, sebbene in questi casi manchi in genere la tipica curva temporale che si osserva nell’infarto miocardico acuto. In particolare, è importante ricordare che anche una cardioversione elettrica ad alta energia per una tachiaritmia (per esempio, una fibrillazione o una tachicardia ventricolare) può fare aumentare la concentrazione degli enzimi e delle troponine. Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica • Altri indici di necrosi miocardica: insieme alla CK, altri due enzimi subiscono un aumento con un classico andamento temporale nell’infarto miocardico acuto e possono, quindi, essere di ausilio soprattutto nei casi di diagnosi dubbia: la glutammico-ossalacetico transaminasi (GOT) e la lattico-deidrogenasi (LDH). Questi enzimi iniziano ad aumentare più tardivamente della CK/CK-MB e persistono aumentati nel siero più a lungo, in particolare la LDH (si veda Fig. 5.30). Una sostanza che consentirebbe una diagnosi laboratoristica piuttosto precoce dell’infarto miocardico, infine, è la mioglobina, una proteina costitutiva del muscolo cardiaco, che aumenta già entro 2 ore circa dall’esordio dei sintomi. La mioglobina, tuttavia, è facilmente rilasciata anche dalle cellule muscolari scheletriche, anche in seguito a minimi traumi; ciò la rende troppo poco specifica per un danno cardiaco, e per questo è poco utilizzata nella pratica clinica. interventi terapeutici), facendo quindi sovrastimare nelle fasi iniziali la reale estensione della necrosi. Oltre che per la valutazione delle alterazioni cinetiche, l’ecocardiogramma è particolarmente utile per la diagnosi precoce, al letto del malato, della maggior parte delle complicanze meccaniche dell’infarto, come difetto interventricolare, malfunzionamento o rottura di un muscolo papillare, rottura della parete libera del ventricolo sinistro ed evoluzione aneurismatica, come discusso in seguito. Inoltre, l’ecocardiografia consente agevolmente di diagnosticare la presenza di un versamento pericardico o l’eventuale presenza di trombi nella cavità ventricolare sinistra. Infine, essa consente di documentare e caratterizzare le conseguenze emodinamiche di un infarto del ventricolo destro, rilevando un’alterata motilità delle sue pareti, una sua eventuale dilatazione e una riduzione della sua frazione di eiezione. Indici aspecifici di stress e infiammazione  La necrosi miocardica e la reazione infiammatoria che ne consegue determinano un incremento di diversi indici di flogosi, oltre ad alcune variazioni metaboliche. Queste, tuttavia, non sono specifiche di infarto e quindi questi esami sono di scarsa rilevanza ai fini diagnostici. Tra le alterazioni più frequenti in corso di infarto si ricordano la leucocitosi (che inizia poche ore dopo l’infarto, raggiunge il suo massimo dopo 2-4 giorni e si normalizza di solito entro una settimana), l’aumento della VES (che si verifica dopo 1-2 giorni dall’inizio dei sintomi e raggiunge i valori massimi dopo 4-5 giorni) e l’aumento della glicemia (precoce e transitorio, legato all’iperincrezione catecolaminica spesso associata alla situazione acuta infartuale). Come nelle altre sindromi coronariche, anche in questi pazienti le variabili maggiormente predittive di eventi cardiaci comprendono una bassa frazione di eiezione del ventricolo sinistro, una ridotta capacità di esercizio e la presenza di ischemia miocardica inducibile. Altre variabili che sono state associate a una riduzione della sopravvivenza a lungo termine sono il riscontro di aritmie ventricolari frequenti e un alterato bilancio autonomico cardiaco indicativo di una predominanza simpatica sull’attività vagale. Ecocardiogramma  Se l’area infartuata del miocardio è sufficientemente estesa, l’ecocardiogramma bidimensionale mette in evidenza un’alterazione della contrattilità della regione ischemica, che apparirà ipocinetica, acinetica o anche discinetica rispetto alle altre regioni miocardiche. Consentendo una valutazione visiva dell’alterazione contrattile regionale, l’ecocardiogramma permette di definire meglio dell’ECG la sede e l’estensione dell’infarto. Oltre a presentare alterazioni della cinesi, la zona infartuale può inoltre presentare uno spessore minore rispetto alle zone di miocardio non necrotico. L’ecocardiogramma, infine, consente di misurare in modo non invasivo e piuttosto preciso la frazione di eiezione del ventricolo sinistro, che è la stima migliore della funzione ventricolare sinistra globale ed è uno dei parametri più importanti per la definizione prognostica del quadro clinico infartuale. Va osservato che la definizione dell’estensione ecocardiografica di un infarto miocardico va fatta a distanza di qualche giorno dall’episodio acuto. Infatti, durante la fase acuta una parte dell’alterazione cinetica è in molti casi dovuta alla presenza di “stordimento” del tessuto miocardico perinfartuale. Questa area può impiegare diverse ore, o addirittura giorni, prima di recuperare la propria capacità di contrazione, anche a dispetto del ripristino di un flusso coronarico adeguato (spontaneo o mediante Valutazione prognostica predimissione Terapia Un sostanziale miglioramento della prognosi immediata di un infarto miocardico acuto è stato ottenuto negli anni Settanta del secolo scorso con l’istituzione delle Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC). Questi reparti consentono l’osservazione clinica continua, il monitoraggio elettrocardiografico, il monitoraggio emodinamico (quando indicato) e un immediato intervento terapeutico in caso di complicanze. Il settore in cui le UTIC hanno dato i migliori risultati in termini di riduzione della mortalità è stato quello delle aritmie. Il monitoraggio elettrocardiografico consente infatti l’immediato riconoscimento di aritmie gravi o potenzialmente fatali e la disponibilità immediata di strumentazione adeguata consente di effettuare la cardioversione elettrica in caso di fibrillazione ventricolare e la stimolazione cardiaca temporanea per via transvenosa in caso di blocchi atrioventricolari o intraventricolari. Le UTIC hanno permesso anche di ridurre, seppur in misura più limitata, la mortalità per complicanze emodinamiche. Il monitoraggio clinico e quello emodinamico consentono, infatti, il rilievo precoce dei segni di scompenso e shock e guidano in modo razionale gli interventi terapeutici. Negli ultimi 25 anni circa la terapia dell’infarto acuto ha subito ulteriori avanzamenti grazie allo sviluppo di interventi di riperfusione coronarica. 141 1 142 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO Riperfusione miocardica  Negli anni Ottanta una serie di studi sull’infarto miocardico acuto ha chiarito che (come già discusso): (1) la necrosi miocardica è causata dall’occlusione trombotica di un’arteria coronaria; (2) la necrosi miocardica è un evento dinamico, per cui prima che il danno ischemico irreversibile raggiunga le sue dimensioni definitive passano alcune ore (Fig. 5.31); (3) uno dei fattori prognostici più importanti del paziente che sopravvive alla fase acuta dell’infarto è l’estensione della necrosi. Sulla base di queste acquisizioni è apparso chiaro che la ricanalizzazione del vaso coronarico occluso in un paziente con infarto miocardico acuto avrebbe potuto consentire il salvataggio di almeno una parte del miocardio ischemico in via di necrosi e, quindi, il miglioramento della prognosi. Si è tuttavia anche subito compreso che, per ottenere un risultato adeguato, l’intervento terapeutico di rivascolarizzazione deve essere attuato il più precocemente possibile dall’insorgenza dei sintomi. Infatti, l’efficacia terapeutica è elevatissima se la terapia riperfusiva è attuata nelle prime 2 ore dopo l’infarto, rimane comunque piuttosto alta nelle prime 6 ore, si attenua poi progressivamente tra 6 e 12 ore ed è praticamente nulla dopo 12 ore. Pertanto, è fondamentale che: • i pazienti che sospettano di avere un infarto si rechino il più rapidamente possibile al pronto soccorso; • la diagnosi elettrocardiografica di infarto ­miocardico acuto sia fatta il più rapidamente possibile; • la terapia riperfusiva sia attuata il più rapidamente possibile dopo la diagnosi elettrocardiografica. Attualmente la riperfusione coronarica può essere ottenuta con due tipi di trattamento, uno farmacologico (fibrinolisi) e uno meccanico (angioplastica primaria). La fibrinolisi è ottenuta con farmaci (fibrinolitici) che agiscono inducendo, in modo diretto o indiretto, la lisi dei legami di fibrina del trombo. I farmaci più studiati e più comunemente utilizzati nella pratica clinica sono la streptochinasi e l’attivatore tissutale del plasminogeno (alteplase) che si somministrano per infusione e.v. Più di recente sono stati introdotti fibrinolitici, come il tenecteplase Figura 5.31 Evoluzione nel tempo di un infarto miocardico. Si può osservare come, in assenza di interventi, l’area di necrosi (marrone) si estende con il tempo, coinvolgendo progressivamente le regioni inizialmente ischemiche (arancione). Un intervento precoce consente il salvataggio dell’area ischemica. e il reteplase, che possono essere iniettati in bolo e, quindi, sono più pratici da utilizzare. Numerosi studi su larga scala hanno dimostrato come l’infusione e.v. di un farmaco fibrinolitico limita l’estensione dell’area di necrosi e riduce di circa il 20% la mortalità. Da notare che il miglioramento della sopravvivenza aumenta fino a circa il 50% nei soggetti trattati entro la prima ora dalla comparsa dei sintomi. Questa relazione tra tempo di intervento ed efficacia è, nel caso della fibrinolisi, legata non solo al fatto che prima il vaso viene ricanalizzato, maggiore è la quota di miocardio in via di necrosi che si riesce a salvare, ma anche al fatto che più precoce è la somministrazione maggiore è la capacità del fibrinolitico di lisare il trombo (che nelle fasi più precoci è meno stabile ed esteso). La terapia fibrinolitica presenta alcuni limiti. In primo luogo, in seguito al suo effetto, il trombo si può frammentare e dare origine a microembolizzazione distale. In secondo luogo, esso risolve soltanto la parte ricca di fibrina del trombo rosso, mentre la parte ricca di piastrine del trombo bianco non viene dissolta. Infine, la fibrinolisi genera un aumento delle concentrazioni di trombina libera, che attiva l’aggregazione piastrinica, e ciò può causare un ulteriore peggioramento della microcircolazione e fornire il substrato per recidive trombotiche. Si deve ricordare, inoltre, che la fibrinolisi è controindicata nei pazienti che hanno avuto emorragie gravi recenti e che è gravata da un rischio di emorragia intracranica dello 0,5-1%. L’angioplastica primaria (quasi sempre con impianto di stent), laddove sia possibile effettuarla in tempi rapidi, costituisce oggi il trattamento di scelta per la ricanalizzazione dell’arteria occlusa responsabile dell’infarto. Rispetto alla fibrinolisi, l’angioplastica primaria presenta alcuni indubbi vantaggi: (1) consente la ricanalizzazione nella quasi totalità dei casi e indipendentemente dal tempo trascorso dall’esordio dell’infarto (mentre la fibrinolisi ottiene questo risultato al massimo nel 75% dei casi e, come detto, la probabilità di successo si riduce con il passare del tempo); (2) consente di trattare un’eventuale stenosi residua critica nella sede della trombosi, riducendo il rischio di riocclusione a breve termine; (3) non è di per sé associata a un rischio di emorragia intracranica. L’angioplastica primaria, tuttavia, presenta alcuni inconvenienti rispetto alla fibrinolisi: • può essere eseguita solo in centri provvisti di emodinamica con operatori esperti; • richiede un’adeguata organizzazione di reperibilità del personale medico, tecnico e infermieristico per garantire la possibilità di intervento 24 ore su 24; • richiede tempi più lunghi per poter essere applicata rispetto alla fibrinolisi. Nel complesso gli studi di confronto tra angioplastica primaria e fibrinolisi hanno evidenziato una riduzione di mortalità e reinfarto con il trattamento Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica interventistico, soprattutto in pazienti clinicamente più compromessi. Anche in questo caso, tuttavia, vi è una chiara relazione tra tempo di intervento e beneficio sulla sopravvivenza, per cui l’angioplastica primaria è preferibile solo quando si prevede che il ritardo legato alla sua esecuzione sia inferiore a 120 min. In caso contrario, e soprattutto se il paziente arriva precocemente in ospedale (entro 120 min dall’insorgenza dei sintomi), la fibrinolisi dovrebbe costituire, in assenza di controindicazioni, la terapia di scelta. Infine, l’angioplastica detta “di salvataggio” è indicata nei pazienti che non presentano evidenza di riperfusione miocardica all’ECG dopo fibrinolisi (risoluzione del sopraslivellamento del tratto ST < 70% dopo trattamento). È importante osservare a questo proposito che non sempre, purtroppo, la ricanalizzazione mediante angioplastica primaria o fibrinolisi del vaso occluso responsabile dell’infarto si tramuta in una riperfusione miocardica efficace. In un certo numero di pazienti, infatti, si instaurano nel territorio ischemico-infartuale gravi alterazioni del microcircolo coronarico che impediscono al sangue di raggiungere il miocardio, vanificando i vantaggi della riapertura del ramo epicardico. Questo fenomeno è denominato “no-reflow”. Un segno di no-reflow dopo un’angioplastica primaria eseguita con successo è rappresentato dalla mancata risoluzione del dolore e/o del sopraslivellamento del tratto ST. Analogamente, questi segni possono indicare lo sviluppo di no-reflow dopo fibrinolisi, anche se in questo caso il mancato miglioramento clinico-elettrocardiografico può essere dovuto più semplicemente all’inefficacia della fibrinolisi nel ricanalizzare la coronaria occlusa. L’incidenza di no-reflow è ridotta dall’aspirazione del trombo coronarico, mediante un sottile catetere, prima dell’angioplastica primaria. Il trattamento del no-reflow è ancora controverso anche se l’infusione intracoronarica o endovenosa di adenosina sembra dare qualche vantaggio. Terapia antipiastrinica e anticoagulante  Tutti i pazienti con infarto miocardico acuto, a meno di controindicazioni, devono ricevere appena possibile una terapia antipiastrinica con acido acetilsalicilico, il quale si è dimostrato in grado di ridurre di circa il 20% la mortalità di questi pazienti, con un effetto additivo a quello della fibrinolisi. L’aggiunta di un antiaggregante piastrinico tienopiridinico, il clopidogrel, consente un ulteriore miglioramento del decorso clinico, riducendo, in particolare, le recidive di infarto miocardico. Inoltre, nei pazienti sottoposti ad angioplastica primaria è opportuna la somministrazione di un inibitore della glicoproteina IIb/IIIa piastrinica, che, come detto, rappresenta la via finale comune dei meccanismi in grado di attivare l’aggregazione piastrinica. Infine, è considerata indicata una terapia anticoagulante (principalmente con eparina non frazionata o eparina a basso peso molecolare, ma anche, in alcuni casi, con inibitori diretti della trombina o con ini- bitori del fattore X attivato) sia nei pazienti trattati con fibrinolisi o con angioplastica primaria sia nei pazienti che arrivano al ricovero troppo tardi per trarre beneficio dalla riperfusione miocardica. b-bloccanti  Tutti i pazienti con infarto miocardico acuto dovrebbero ricevere un b-bloccante. Anche questi farmaci, infatti, migliorano la prognosi, soprattutto nei pazienti a più alto rischio e anche grazie a una riduzione della morte improvvisa. ACE-inibitori, sartani e antagonisti dell’aldosterone  Un ACE-inibitore va senz’altro somministrato nei pazienti a più alto rischio, come quelli con infarto anteriore, segni di scompenso o ridotta funzione ventricolare sinistra, in quanto questi farmaci migliorano la prognosi in questi gruppi di pazienti. Bloccando la produzione di angiotensina II, questi farmaci determinano vasodilatazione sia arteriosa sia venosa, ma anche inibizione della secrezione di aldosterone, con induzione di una lieve natriuresi e una riduzione dell’escrezione di K+; essi aumentano, inoltre, i livelli di bradichinina e la produzione di prostaglandine vasodilatatrici renali ed endoteliali. In pazienti che non tollerano gli ACE-inibitori è possibile usare gli antagonisti del recettore AT1 dell’angiotensina II (sartani). Dati recenti indicano che gli antagonisti dell’aldosterone potrebbero trovare indicazione in pazienti con insufficienza ventricolare sinistra e in assenza di insufficienza renale e di iperkaliemia. Statine  Anche in questo caso alcuni studi recenti suggeriscono che le statine, soprattutto se date ad alte dosi già nella fase acuta di un infarto miocardico, possono contribuire a migliorare la prognosi a brevemedio termine. Nitrati e calcio-antagonisti  La somministrazione di nitroglicerina e.v. può essere utile in pazienti con persistenza o riacutizzazione del dolore ischemico, segni di disfunzione ventricolare sinistra o pressione arteriosa elevata. L’effetto sul dolore infartuale è comunque in genere trascurabile. Gli effetti collaterali più frequenti sono la cefalea, l’ipotensione (in particolare nell’infarto inferiore) e la tachicardia. Gli studi controllati non hanno comunque dimostrato un beneficio dei nitrati sulla prognosi dei pazienti infartuati. I calcio-antagonisti non diidropiridinici possono trovare indicazione nei pazienti che non tollerano i b-bloccanti in assenza di una disfunzione significativa della funzione ventricolare sinistra. Rivascolarizzazione miocardica  Nei pazienti non sottoposti ad angioplastica primaria, l’indicazione a un intervento di rivascolarizzazione elettiva è basata sugli stessi principi già illustrati per l’angina cronica stabile. Similmente, la scelta del tipo di rivascolarizzazione (percutanea o chirurgica) va presa sulla base 143 1 144 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO del quadro clinico e angiografico come descritto per l’angina stabile. Terapia alla dimissione  La prevenzione secondaria è basata sugli stessi principi proposti per i pazienti dimessi dopo una sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST. In questo caso è comunque indicato aggiungere sempre un b-bloccante. Complicanze dell’infarto miocardico Sia l’infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST sia quello con sopraslivellamento del tratto ST possono avere numerose complicanze, anche se queste sono nettamente più frequenti, e alcune (in particolare quelle meccaniche) si verificano esclusivamente, in quest’ultimo. Nell’infarto senza sopraslivellamento del tratto ST, in effetti, le complicanze in fase acuta si osservano di solito in pazienti con infarti pregressi e/o in pazienti che presentano già una grave compromissione della funzione ventricolare sinistra. Le complicanze dell’infarto miocardico possono essere suddivise in tre grandi gruppi: • aritmiche; • emodinamiche/meccaniche; • ischemiche. A queste complicanze se ne aggiungono altre non inquadrabili unitariamente. È importante tenere presente che molte di queste complicanze possono coesistere, complicando simultaneamente o in tempi successivi l’infarto miocardico. Complicanze aritmiche Nella fase acuta di un infarto miocardico possono insorgere pressoché tutti i tipi di aritmie. In questo contesto, esse possono assumere un significato particolarmente grave perché: (1) possono influire negativamente sulla funzione di pompa del cuore, che è già compromessa; (2) possono portare a un’estensione della necrosi sia causando una riduzione della perfusione coronarica, sia inducendo un aumento del consumo di O2; (3) alcune forme meno gravi possono evolvere verso forme aritmiche maggiori, come la fibrillazione ventricolare, il blocco atrioventricolare completo e l’asistolia, causando un arresto cardiaco e, in caso di mancato intervento o inefficacia degli interventi, la morte del paziente. Si riportano di seguito le principali caratteristiche e implicazioni cliniche delle più importanti aritmie nell’ambito dell’infarto miocardico, rimandando al Capitolo 11 per una loro trattazione dettagliata. Aritmie ipercinetiche ventricolari  • Extrasistoli ventricolari: semplici extrasistoli ventricolari si osservano in quasi tutti i casi. Esse, tuttavia, sono associate a un significativo aumento del rischio di sviluppare forme tachiaritmiche gravi (tachicardia ventricolare sostenuta, fibrillazione ventricolare) durante la fase acuta dell’infarto quando sono frequenti (> 5/min), polimorfe, ripetitive (coppie, tachicardia ventricolare non sostenuta) o precoci (fenomeno R/T). • Tachicardia ventricolare: brevi episodi di tachicardia ventricolare in corso di infarto miocardico acuto quasi mai hanno conseguenze emodinamiche. Il rischio di degenerazione in fibrillazione ventricolare, tuttavia, è più elevato nella fase più acuta dell’infarto. Nel caso di tachicardia ventricolare sostenuta, soprattutto se la frequenza è significativamente elevata (per esempio, 150-200/min o più) si può verificare una riduzione marcata della portata cardiaca, con conseguente ipotensione e segni di ipoperfusione cerebrale, talora con perdita di coscienza; la perfusione coronarica, inoltre, si riduce e l’ischemia miocardica si accentua, causando un’ulteriore depressione della funzione ventricolare sinistra e della portata cardiaca. Si instaura così un circolo vizioso che può rapidamente aggravare il quadro clinico. Una tachicardia ventricolare sostenuta in corso di infarto miocardico va dunque trattata in modo tempestivo (con terapia farmacologica o cardioversione elettrica). In caso di aritmie ventricolari frequenti e/o complesse, a rischio di degenerare in aritmie maggiori, si può decidere di aggiungere un farmaco antiaritmico; gli antiaritmici da considerare in questo contesto sono l’amiodarone e la lidocaina. • Ritmo idioventricolare: questo tipo di aritmia è molto frequente in pazienti con infarto miocardio acuto, ma esso è, in genere, ben tollerato e non comporta un aumento significativo del rischio di aritmie gravi, per cui non necessita abitualmente di un trattamento specifico. • Fibrillazione ventricolare: La fibrillazione ventricolare costituisce la principale causa di morte precoce nei pazienti con infarto miocardico acuto. Poiché può essere risolta efficacemente con la defibrillazione elettrica, il ricovero immediato con monitoraggio del ritmo cardiaco in UTIC è l’unico modo efficace per ridurre la mortalità precoce di questi pazienti. Esso, infatti, consente di identificare e trattare in modo immediato questa aritmia fatale qualora essa compaia. Dal punto di vista clinico, la fibrillazione ventricolare nell’infarto miocardico acuto viene suddivisa in due tipi: primitiva e secondaria. La fibrillazione ventricolare primitiva è quella che si verifica nelle prime 24-48 ore dall’insorgenza dell’infarto; essa è tipicamente legata al danno ischemico in atto e quindi può insorgere in qualunque momento in qualunque tipo di infarto; i pazienti, infatti, possono non avere alcun tipo di complicanza e presentano spesso, anzi, una buona situazione emodinamica; una volta risolta con la defibrillazione elettrica, questo tipo di fibrillazione ventricolare non comporta alcun tipo di rischio e non è indicativa di un decorso clinico sfavorevole sia durante la fase acuta dell’infarto sia a distanza. È detta fibrillazione ventricolare secondaria, viceversa, quella che si verifica dopo 48 ore dall’insorgenza dell’infarto. Poiché l’ischemia acuta dopo questo periodo è già regredita, in genere la comparsa di una fibrillazione ventricolare in questa Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica fase indica la presenza di un quadro clinico più complicato (come la presenza di un grave deficit emodinamico o l’instaurarsi di alterazioni nell’area perinfartuale), che favorisce l’insorgenza dell’aritmia. In questo caso, quindi, la fibrillazione ventricolare ha un significato prognostico infausto, sia perché ha un apprezzabile rischio di recidivare a distanza sia perché è un marker di un quadro clinico più grave. Questi pazienti, contrariamente a quelli che hanno subito una fibrillazione ventricolare primaria, vanno trattati con l’impianto di un defibrillatore automatico. È di fondamentale importanza ribadire che nell’infarto miocardico acuto la quasi totalità delle morti preospedaliere (che costituiscono di fatto ben il 30-40% di tutte le morti per infarto) è dovuta a una fibrillazione ventricolare primitiva, che insorge immediatamente o entro alcune ore dall’esordio dei sintomi. Perciò il ricovero più precoce possibile dei pazienti con infarto miocardico, grazie alla possibilità di trattare in modo efficace la fibrillazione ventricolare, consentirebbe di salvare molti dei pazienti che attualmente muoiono fuori dall’ospedale perché ritardano il ricorso al ricovero. Per tali motivi è assolutamente necessario ricoverare urgentemente ogni paziente; non solo quelli con diagnosi certa di infarto, ma anche quelli in cui, sulla base della clinica, il sospetto diagnostico sia fondato. È noto che la maggiore latenza nei tempi di ricovero di un paziente con infarto miocardio acuto è legata al ritardo con cui il paziente si rivolge al medico, o comunque richiede un’assistenza; la soluzione di questo problema, dunque, si basa fondamentalmente su una corretta educazione sanitaria che informi la popolazione sui sintomi di allarme di un attacco coronarico acuto. Aritmie ipercinetiche sopraventricolari  Mentre la presenza di semplici extrasistoli sopaventricolari raramente pone problemi clinici e terapeutici di rilievo e le tachicardie sopraventricolari nella fase acuta dell’infarto sono rare, la comparsa di fibrillazione atriale (o anche di flutter atriale) può comportare conseguenze significative. Essa complica il 5-10% degli infarti miocardici e la sua insorgenza è spesso espressione di una compromissione funzionale del ventricolo sinistro, con aumento della pressione telediastolica e conseguente dilatazione dell’atrio sinistro; probabilmente è proprio la dilatazione o l’aumento della pressione atriale il meccanismo più comune di innesco di questa aritmia in questo contesto. Anche un’ischemia del tessuto atriale o la presenza di alterazioni metaboliche ed elettrolitiche può tuttavia contribuire all’insorgenza dell’aritmia. Pur essendo molto meno gravi delle aritmie ventricolari maggiori, le tachiaritmie sopraventricolari richiedono una diagnosi precoce e un trattamento immediato per due ragioni: (1) l’elevata frequenza ventricolare, che caratterizza queste aritmie nella maggior parte dei casi, comporta un aumento del consumo miocardico di O2, e quindi tende ad aggravare l’ischemia e può comportare un’estensione della necrosi; (2) la mancanza della sistole atriale nel caso della fibrillazione/flutter atriale può comportare (particolarmente nei casi con funzione ventricolare sinistra depressa) una riduzione significativa della portata cardiaca e peggiorare quindi il quadro emodinamico. L’amiodarone è il farmaco di prima scelta per risolvere la fibrillazione o il flutter atriale nell’infarto miocardico acuto, data la sostanziale assenza di effetti negativi sulla funzione ventricolare sinistra, che hanno invece diversi altri farmaci antiaritmici. Esso è indicato anche per trattare eventuali tachicardie sopraventricolari. Quando si opta per il semplice controllo della frequenza cardiaca in corso di flutter/fibrillazione atriale, i b-bloccanti sono in questo contesto i farmaci di scelta, anche se il verapamil può essere utilizzato in assenza di una significativa compromissione della funzione ventricolare sinistra in caso di controindicazioni ai b-bloccanti. Aritmie ipocinetiche  • Bradicardia sinusale: la bradicardia sinusale complica più frequentemente le fasi iniziali di un infarto inferiore e può essere causata da un riflesso vagale a partenza dai meccanocettori della parete inferiore del ventricolo sinistro (riflesso di Bezold-Jarisch), ma può anche essere una spia di un’ischemia del nodo seno-atriale. Di solito la bradicardia sinusale non ha implicazioni cliniche rilevanti, ma, in rari casi, se di grado elevato e in infarti estesi, può comportare una riduzione della portata cardiaca. • Blocchi atrioventricolari: dal punto di vista clinico, è utile distinguere i blocchi che si verificano nel nodo atrioventricolare (AV) (blocchi soprahissiani o nodali) dai blocchi che si manifestano per alterazioni a livello del fascio di His o della sua suddivisione nelle branche (blocchi hissiani o sottohissiani). I blocchi AV nodali si verificano in genere negli infarti inferiori e sono raramente espressione di un interessamento diretto del tessuto di conduzione da parte della necrosi; più spesso sono infatti dovuti a ischemia o edema perinfartuale. Essi sono pertanto abitualmente transitori, risolvendosi entro qualche giorno. All’ECG i blocchi AV nodali si presentano come blocco AV di I grado, blocco AV di II grado tipo Mobitz 1 (o di Luciani-Wenckebach), blocco AV di II grado avanzato o anche blocco AV di III grado (completo). Il ritmo di scappamento ventricolare in quest’ultimo caso è nodale, per cui la frequenza cardiaca rimane comunque accettabile (in genere 50-60 bpm). In caso di instabilità emodinamica la somministrazione di atropina consente di migliorare la conduzione AV, migliorando quindi anche il quadro emodinamico. Più raramente, a causa del limitato effetto dell’atropina, o se si vuole evitare l’effetto tachicardizzante di quest’ultima, può essere indicata l’applicazione di un pacemaker temporaneo per via transvenosa. Come detto, la prognosi di questi blocchi è di solito favorevole. I blocchi sottohissiani, viceversa, si verificano in caso di infarto anteriore, e in genere di infarti particolarmente estesi; essi, inoltre, sono quasi sempre dovuti a un interessamento diretto del tessuto di conduzione da parte della necrosi. Essi si presentano in genere come blocco AV di II grado tipo Mobitz 2, blocco AV di II grado avanzato o blocco AV completo; il QRS di base, inoltre, è in genere largo per la presenza di un disturbo di conduzione intraventricolare. La loro pericolosità sta nel fatto 145 1 146 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO che hanno un notevole rischio di evoluzione verso il blocco AV completo e che, quando ciò avviene, il ritmo di scappamento è forzatamente di origine ventricolare, e quindi a frequenza molto bassa (< 30 bpm), che è spesso incompatibile, nel contesto dell’infarto acuto, con un’adeguata gittata cardiaca. In caso di blocco AV sottohissiano l’unico trattamento possibile è l’impianto di uno stimolatore artificiale; l’atropina è infatti inefficace e l’uso di amine simpaticomimetiche dà al massimo risultati transitori. La prognosi dei BAV sottohissiani nell’infarto acuto è sfavorevole per l’elevato rischio di asistolia, ma, ancor più, perché essi sono spia di una necrosi miocardica particolarmente estesa. Poiché, come visto, la premessa per lo sviluppo di un blocco AV sottohissiano è in molti casi la presenza di base di un disturbo della conduzione intraventricolare, nei casi di comparsa di nuovi blocchi intraventricolari durante un infarto miocardico acuto può essere indicata l’applicazione di un pacemaker temporaneo a scopo profilattico. Complicanze emodinamiche/meccaniche Scompenso cardiaco e shock cardiogeno  Sia lo scompenso cardiaco sia lo shock cardiogeno sono espressione di una grave compromissione della funzione contrattile miocardica in pazienti con infarto miocardico acuto. Esistono peraltro vari gradi di passaggio dal quadro dello scompenso a quello dello shock, secondo che prevalga un aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro o una riduzione della portata cardiaca. Nei casi più gravi sono presenti entrambi i fenomeni. Clinicamente l’aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro si manifesta con un aumento della pressione a livello dei capillari polmonari. Quando questa pressione supera il valore di 15 mmHg può comparire una congestione vascolare polmonare (rilevabile alla radiografia del torace); quando supera i 20 mmHg, d’altro canto, può verificarsi trasudazione di liquido negli alveoli, per cui all’auscultazione toracica si apprezzano piccoli rantoli alle basi polmonari; quando infine la pressione nei capillari polmonari supera i 25 mmHg si può manifestare il quadro dell’edema polmonare. Tabella 5.5  C  lassificazione del paziente con infarto miocardico acuto secondo Killip Classe I Non segni di insufficienza cardiaca Classe II Insufficienza cardiaca lieve: III tono cardiaco e/o rantoli la cui estensione non supera il 50% dei campi polmonari Classe III Insufficienza cardiaca grave: rantoli la cui estensione supera il 50% dei campi polmonari Classe IV Shock cardiogeno La riduzione della portata cardiaca è caratterizzata clinicamente da ipotensione (PA sistolica < 90 mmHg) con segni di ipoperfusione periferica, quali cute fredda, subcianosi, tachicardia, confusione mentale e oliguria. Queste manifestazioni cliniche di shock conclamato non si evidenziano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la portata cardiaca per m2 di superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,0 L/min/m2. Una valutazione clinica dello stato funzionale dell’attività contrattile cardiaca e della gravità della sua ­compromissione può essere fatta all’ingresso con la classificazione clinica di Killip, che divide i pazienti in quattro classi, che indicano un quadro clinico progressivamente peggiore e gravato di una mortalità progressivamente maggiore (Tab. 5.5). La classificazione di Killip ha anche l’utile scopo di orientare la terapia. È possibile anche effettuare in UTIC un monitoraggio emodinamico, introducendo da una vena del braccio un catetere sottile e flessibile munito in punta di un palloncino gonfiabile. Questo catetere, noto come catetere di Swan-Ganz, viene fatto procedere con relativa facilità sino a un ramo periferico dell’arteria polmonare destra o sinistra (si veda anche il Capitolo 12). Gonfiando il palloncino, si occlude temporaneamente il ramo periferico dell’arteria polmonare e quindi si può rilevare la pressione capillare polmonare che rispecchia fedelmente la pressione telediastolica del ventricolo sinistro. In alcuni casi con lo stesso catetere è possibile misurare anche la portata cardiaca con il metodo della termodiluizione. In questo modo è possibile effettuare una valutazione emodinamica sufficientemente precisa direttamente al letto del malato, misurando sia la portata sia la pressione telediastolica del ventricolo sinistro. Tuttavia, il monitoraggio invasivo della pressione polmonare mediante catetere di SwanGanz è sempre meno utilizzato, in quanto un’accurata valutazione clinica ed ecocardiografica (che consente di avere una stima della pressione polmonare e della funzione ventricolare sinistra) dà informazioni sovrapponibili e consente di evitare manovre invasive. I pazienti con scompenso cardiaco grave o shock cardiogeno richiedono spesso un trattamento complesso, basato sull’utilizzazione di diuretici, vasodilatatori e/o farmaci inotropi positivi i cui effetti vanno valutati costantemente mediante monitoraggio continuo dello stato emodinamico, oltre che clinico, onde aggiustare o modificare la terapia in base alla risposta. In particolare, può essere indicata la somministrazione di farmaci inotropi (dobutamina, dopamina) e/o vasodilatatori (in particolare, nitroprussiato di sodio), anche se, nei casi conclamati di compromissione della funzione ventricolare sinistra conseguente a necrosi miocardica estesa, la terapia farmacologica riesce a ottenere successi solo parziali e la prognosi rimane quindi molto grave. Talvolta, in centri altamente specializzati, in caso di shock cardiogeno si ricorre alla contropulsazione aortica. Questa consiste nell’inserimento nell’aorta discendente di un palloncino che si sgonfia in sistole e si gonfia in diastole, aumentando la pressione aortica e migliorando così la perfusione cardiaca durante questa fase. Tuttavia, questo approccio è riservato solo a pazienti per i quali è programmato un intervento di rivascolarizzazione miocardica nella speranza che una quota di miocardio disfunzionante Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica sia vitale e recuperi dopo rivascolarizzazione (miocardio ibernato o stordito). La mortalità intraospedaliera dei pazienti infartuati con compromissione della funzione contrattile cardiaca è considerevolmente più elevata di quella dei pazienti che non presentano evidenza di insufficienza ventricolare sinistra. È da sottolineare che alcuni casi di grave ipotensione che si verificano nel corso di un infarto miocardico acuto possono essere dovuti a ipovolemia, piuttosto che rappresentare veri stati di shock cardiogeno. La diagnosi differenziale, dal punto di vista clinico, è fondamentale in quando lo shock ipovolemico ha una prognosi molto più favorevole rispetto a quella dello shock cardiogeno. Fattori che contribuiscono al manifestarsi di uno shock ipovolemico nell’infarto miocardico acuto sono la comparsa di vomito, sudorazione profusa e aumentato tono vagale con vasodilatazione secondaria. Inoltre, anche l’uso inappropriato di diuretici e di vasodilatatori può facilitarne l’insorgenza. L’importanza di discriminare tra i due tipi di shock è importante anche dal punto di vista terapeutico. Nel caso di shock ipovolemico, infatti, l’infusione di liquidi può rapidamente portare alla normalità il quadro emodinamico. Infarto del ventricolo destro  Un infarto miocardico del ventricolo destro si verifica in circa un terzo dei pazienti con infarto della parete inferiore. Esso, tuttavia, passa spesso inosservato in quanto ha solitamente scarse conseguenze cliniche e non è rilevabile con l’ECG standard. Quando l’infarto del ventricolo destro è esteso, tuttavia, il quadro clinico può essere dominato dalla sua compromissione. Il sintomo principale in questo caso è rappresentato dall’ipotensione e possono inoltre essere evidenti segni di scompenso destro (congestione giugulare ed epatica). L’ECG consente in genere di fare una diagnosi corretta, mostrando un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali destre (V3R-V4R). L’ecocardiografia bidimensionale consente di confermare la diagnosi visualizzando la dilatazione della camera ventricolare destra e un’alterazione cinetica della parete ventricolare destra. In questi casi bisogna evitare la somministrazione di nitrati o altri vasodilatatori e di diuretici, mentre può essere utile la somministrazione di liquidi. Rottura del setto interventricolare   Quando la necrosi interessa il setto interventricolare è possibile che nella sua porzione muscolare si verifichi una rottura. Il quadro emodinamico è caratterizzato da un brusco aumento della portata a livello del circolo polmonare per l’instaurarsi di uno shunt sinistro-destro; la portata sistemica si riduce e il ventricolo sinistro è sottoposto a un improvviso sovraccarico di volume. Ne consegue rapidamente un quadro di scompenso e/o di shock. Clinicamente la diagnosi può essere posta in base alla comparsa di un soffio olosistolico abitualmente di intensità elevata, udibile principalmente al mesocardio, a volte irradiato verso destra e spesso associato a un fremito. Il secondo tono può apparire ampiamente sdoppiato a causa del sovraccarico del ventricolo destro. La diagnosi è di solito agevolmente confermata con l’ecocardiografia bidimensionale e color Doppler (Fig. 5.32), che consente di rilevare lo shunt e anche la discontinuità del setto interventricolare, oltre a dare informazioni sull’entità del sovraccarico pressorio del ventricolo destro. Nei casi dubbi la diagnosi può essere confermata con l’ausilio del cateterismo cardiaco destro, che evidenzia, in particolare, la presenza di un alto contenuto di ossigeno nel sangue in arteria polmonare. L’evoluzione può essere rapidamente peggiorativa nell’arco di poche ore. In questo caso l’unica possibilità terapeutica è la correzione chirurgica urgente, che è però gravata da un’elevata mortalità. In altri casi si riesce a ottenere la stabilizzazione del quadro emodinamico con la terapia farmacologica, e l’intervento correttivo può essere posticipato di alcune settimane, il che consente di ridurre il rischio dell’intervento, che in questa fase risulta associato a una mortalità più bassa rispetto a quella osservata in fase acuta. 147 1 Rottura o malfunzionamento di un muscolo papillare  Quando la necrosi interessa anche uno dei muscoli papillari, sono possibili due evenienze: (1) malfunzionamento del muscolo, con conseguente disfunzione dell’apparato valvolare mitralico e comparsa di un rigurgito mitralico di variabile entità; (2) rottura del muscolo, con rigurgito mitralico massivo. Figura 5.32 Documentazione all’ecocardio­ gramma bidimensionale e color Doppler di un difetto interventricolare in un paziente con infarto miocardico acuto. (a) Si può osservare una soluzione di continuità nella porzione basale del setto (freccia), sotto il lembo anteriore della valvola mitrale (VM). (b) Si può osservare la documentazione con color Doppler della presenza di flusso (in rosso) attraverso il difetto, diretto dal ventricolo sinistro (VS) al ventricolo destro (VD). 148 Parte 1 - MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO La prima evenienza è relativamente comune ed è diagnosticabile clinicamente per la comparsa di un soffio meso-telesistolico alla punta; il grado di compromissione emodinamica è funzione dell’entità del rigurgito. Il fenomeno, inoltre, può essere transitorio, perché legato a un’ischemia, piuttosto che alla necrosi del muscolo papillare. La seconda evenienza è per fortuna rara e si diagnostica per la comparsa di un soffio olosistolico alla punta, che si associa a un quadro di scompenso acuto per l’improvviso sovraccarico di volume del ventricolo sinistro, con secondario sovraccarico di pressione nel circolo polmonare. L’ecocardiografia bidimensionale e color Doppler consente di evidenziare lo sviluppo e l’entità di un’insufficienza mitralica e, nel caso della rottura del muscolo, mostra un parziale o totale spostamento del lembo mitralico posteriore in atrio sinistro durante la sistole, insieme a un massivo rigurgito mitralico. Essa consente anche di porre la diagnosi differenziale con la perforazione del setto interventricolare. Il cateterismo cardiaco può essere utile per una valutazione accurata delle alterazioni emodinamiche. L’evoluzione è quasi sempre rapidamente peggiorativa; l’unica terapia efficace è quella chirurgica, con la sostituzione della valvola mitrale. Rottura della parete libera del ventricolo sinistro  Questa complicanza è causa di circa il 10% delle morti in ospedale dei pazienti con sopraslivellamento del tratto ST. È più frequente nelle persone anziane (oltre i 70 anni) e nel sesso femminile, e compare abitualmente tra la 3ª e la 10ª giornata dell’infarto. I segni clinici sono quelli del tamponamento cardiaco acuto. Un caratteristico aspetto è quello della dissociazione elettromeccanica: mentre il polso è completamente assente, l’attività elettrica del cuore è mantenuta e all’ECG si rileva la persistenza di complessi ventricolari. Questa complicanza è di solito rapidamente mortale. In rari casi il rapido aumento della pressione in pericardio e l’organizzazione di un coagulo a livello della breccia possono determinare una stabilizzazione del quadro clinico che può dare il tempo di intervenire chirurgicamente per riparare la rottura. Il rischio operatorio, comunque, rimane elevato. Aneurisma ventricolare sinistro  Questa evoluzione dell’infarto miocardico acuto si osserva sempre meno frequentemente da quando sono utilizzate efficaci terapie di riperfusione coronarica. L’aneurisma è rappresentato da una zona della parete ventricolare che non solo rimane acinetica, ma diviene discinetica, cioè si estroflette durante la sistole. Le zone più frequentemente interessate sono la punta e la parete anteriore del ventricolo sinistro. Le conseguenze di un aneurisma ventricolare possono essere di tre tipi: (1) la sua presenza compromette la regolare dinamica di contrazione e riduce ulteriormente la frazione di eiezione del ventricolo sinistro, facilitando la comparsa di un quadro di scompenso cardiaco; (2) in presenza di un aneurisma sono più frequenti le aritmie ventricolari minacciose (per esempio, la tachicardia ventricolare ricorrente), in quanto l’area aneurismatica spesso costituisce una sede per fenomeni di rientro; (3) all’interno dell’aneurisma si formano più facilmente trombi murali che possono dare origine a episodi embolici sistemici. All’obiettività può rilevarsi un itto sollevante o un evidente impulso sistolico precordiale; quasi sempre è presente un III tono. All’ECG un segno comune è la persistenza di sopraslivellamento del tratto ST nella sede della necrosi, anche a distanza di tempo dalla fase acuta. La radiografia del torace può evidenziare un’alterazione del contorno del margine ventricolare; tuttavia un aneurisma può essere presente anche con un’ombra cardiaca assolutamente normale. L’ecocardiografia consente facilmente la conferma della diagnosi, permettendo di valutare accuratamente anche la localizzazione ed estensione dell’aneurisma. Con l’ecocardiografia è anche possibile evidenziare se sono presenti trombi adesi alla parete ventricolare nella regione aneurismatica. Complicanze ischemiche Le complicanze ischemiche sono rappresentate dal reinfarto e dall’angina postinfartuale. La maggior parte dei pazienti non lamenta dolori anginosi nell’immediato periodo postinfartuale. Tuttavia, alcuni possono presentare dolori spontanei o per sforzi modesti al momento della mobilizzazione. L’angina precoce postinfartuale è la forma di angina instabile gravata del più elevato rischio di eventi coronarici maggiori, come già notato nell’esposizione dell’angina instabile. È più frequente dopo fibrinolisi che dopo angioplastica primaria. Altre complicanze Pericardite epistenocardica   Questa complicanza si verifica abitualmente tra il 2° e il 4° giorno dall’infarto. In circa un sesto dei pazienti con infarto miocardico transmurale si rilevano sfregamenti pericardici; questa percentuale, tuttavia, sottostima la reale incidenza della pericardite, perché spesso gli sfregamenti sono fugaci e quindi sfuggono all’esame obiettivo. Clinicamente la pericardite si manifesta con dolore toracico, che spesso pone problemi di diagnosi differenziale con la ripresa o la persistenza del dolore ischemico, soprattutto se non si rilevano sfregamenti; tuttavia, le caratteristiche del dolore pericardico (aumento con l’inspirazione, riduzione con l’assunzione della posizione seduta) consentono in genere la differenziazione. L’ECG può non presentare modificazioni, oppure mostrare un’accentuazione del sopraslivellamento ST, che tuttavia può essere più diffuso rispetto alla precedente lesione ischemica. La presenza di un versamento pericardico anche lieve all’ecocardiogramma consente di confermare la diagnosi. Tuttavia, nel caso di una reazione pericarditica localizzata o semplicemente fibrinosa l’ecocardiogramma non è diagnostico. Il riconoscimento della pericardite epistenocardica è importante perché è un’indicazione a sospendere un’eventuale terapia anticoagulante in corso a causa del rischio di emopericardio. Sindrome di Dressler o pericardite postinfartuale   La sindrome di Dressler si ritiene dovuta a un meccanismo di reazione autoimmune al tessuto pericardico alterato in seguito al coinvolgimento nel processo patologico dell’infarto. Questa forma di pericardite insorge da 1 a 6, o anche 12 settimane, dopo un infarto miocardico transmurale. Capitolo 5 - Cardiopatia ischemica Essa si presenta con il classico dolore della pericardite, ed eventualmente della pleurite, insieme a febbre. All’auscultazione si possono apprezzare sfregamenti pericardici,­ che tuttavia sono, come in precedenza, spesso fugaci, per cui possono sfuggire. L’ECG può mostrare i segni distintivi della pericardite; in questo caso essi sono più facilmente riconoscibili rispetto alla pericardite epistenocardica, in quanto compaiono quando ormai i segni ECG della lesione ischemica sono regrediti. L’esame diagnostico più importante è costituito dall’ecocardiogramma, che quasi sempre mostra la presenza di un versamento pericardico di variabile entità. Tromboembolia  L’infarto miocardico è una situazione favorevole all’insorgenza di embolia polmonare e sistemica. L’embolia è più frequente negli infarti estesi, complicati da shock e scompenso. L’embolia polmonare era un reperto più frequente in passato, quando i pazienti con infarto miocardico acuto erano mobilizzati solo dopo diversi giorni dall’evento acuto e non erano trattati con antiaggreganti e anticoagulanti; l’attuale mobilizzazione precoce, oltre all’uso estensivo di terapie antitrombotiche, ne ha praticamente azzerato l’incidenza. L’embolia sistemica consegue in genere alla formazione di trombi intracavitari murali che si formano a livello di aree aneurismatiche o anche solo acinetiche o discinetiche, del ventricolo sinistro; essa è più frequente nell’infarto anteriore e della punta, particolarmente in presenza di aneurisma. Morte improvvisa coronarica La morte improvvisa costituisce il quadro di esordio della cardiopatia ischemica in circa il 10-20% dei casi. La morte improvvisa è definita come una morte che avviene in modo inatteso senza alcun apparente sintomo o, comunque, entro un’ora dalla comparsa di sintomi. Sebbene diverse malattie cardiache possano determinare morte improvvisa, la cardiopatia ischemica ne è la causa più frequente. Una fibrillazione ventricolare in corso di ischemia transmurale causata da trombosi o da spasmo coronarico occlusivi è di solito l’aritmia responsabile della morte improvvisa ischemica, sebbene questa possa anche essere causata da asistolia, soprattutto in pazienti con malattia cardiaca avanzata. In pazienti con pregresso infarto, soprattutto se complicato da disfunzione ventricolare sinistra, la fibrillazione ventricolare e la morte improvvisa sono dovute più frequentemente a meccanismi indipendenti dall’occorrenza di ischemia e più legati a fenomeni aritmici favoriti dalla disomogeneità dei processi di depolarizzazione e ripolarizzazione in zone perinfartuali con anomalie elettrofisiologiche della cellule miocardiche (si veda il Capitolo 11). I pazienti resuscitati da morte improvvisa che non hanno evidenza di una causa ischemica acuta hanno sempre indicazione all’impianto di un ICD. Nei pazienti risuscitati da morte improvvisa che presentano evidenza di una causa ischemica acuta (infarto acuto, spasmo coronarico) la terapia segue le indicazioni discusse nei paragrafi relativi alle singole sindromi cliniche. Bibliografia Braunwald E. Control of myocardial oxygen consumption: physiologic and clinical considerations. Am J Cardiol 1971;27:416–32. Camici PG, Crea F. Coronary microvascular dysfunction. Coronary microvascular dysfunction. N Engl J Med 2007;356:830–40. Crea F, Gaspardone A. New look to an old symptom: angina pectoris. Circulation 1997;96:3766–73. Heidenreich PA, McDonald KM, Hastie T et al. Meta-analysis of trials comparing beta-blockers, calcium antagonists, and nitrates for stable angina. JAMA 1999;281:1927–36. Jones CJH, Kuo L, Davies MJ et al. Regulation of coronary blood flow: coordination of heterogeneous control mechanisms in vascular microdomains. Cardiovasc Res 1995;29:585–96. Katritsis DG, Ioannidis JP. 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