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Etica E Governance - Consiglio Regionale Della Campania

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Antonino Palumbo Etica e Governance L’etica pubblica e applicata nella filosofia politica contemporanea Ila Palma/Athena Ai miei genitori e a Nenè ii Indice Introduzione FILOSOFIA ANALITICA, ETICA PUBBLICA E GOVERNANCE Parte Prima Filosofia analitica ed etica pubblica Capitolo 1 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO Capitolo 2 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE Capitolo 3 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE Parte Seconda Etica applicata e governance Capitolo 4 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA Capitolo 5 ETICA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E TEORIE DELLA BUROCRAZIA Capitolo 6 MAFIA, ANTIMAFIA E CODICI ETICI: UNA PROPOSTA NORMATIVA Conclusione LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO: CONTINUITÀ E TENSIONI BIBLIOGRAFIA Introduzione Filosofia analitica, etica pubblica e governance A partire dalla metà del '900 tre approcci principali hanno dominato la filosofia politica contemporanea: quello analitico-epistemologico, quello etico-deontologico e quello deliberativo-repubblicano. Ognuno di questi ha visto il ruolo della riflessione filosofica da punti di vista diversi. L'approccio analitico emerso a seguito del positivismo logico ha visto la riflessione normativa come un'analisi metateorica sul linguaggio morale. Ciò ha comportato la separazione delle assunzioni di fatto da quelle di valore e la valutazione empirica della praticabilità di progetti di riforma istituzionale alternativi. Per questo tipo di approccio, l'intera dimensione normativa doveva essere ridotta all'analisi epistemologica delle precondizioni linguistiche e socio-economiche necessarie per avere un ordine sociale stabile e duraturo. Negli anni '70 e '80 l'approccio analitico è stato riproposto attraverso le teorie naturalistiche della morale, le teorie analitiche dello stato e le teorie della scelta pubblica. L'obiettivo congiunto di queste teorie è stato quello di muovere la riflessione normativa da un livello ideale ad uno genealogico che fosse in grado di evitare i conflitti tra sostenitori di valori contrapposti e i costi del riformismo utopico. Nella pratica queste teorie hanno imposto alla riflessione filosofica una svolta antipolitica, hanno, cioè, cercato di ridimensionare il ruolo e la necessità della discussione pubblica e delle pratiche democratiche. A partire dagli anni '70 l'etica normativa ha spostato il dibattito filosofico-politico dall'ambito metaetico a quello riguardante i principi e le forme di organizzazione politica che devono caratterizzare le società contemporanee. La discussione ha così cercato di influenzare direttamente e indirettamente la pratica politica sia parlamentare sia extraparlamentare. Sulla scia di Rawls e del liberalismo deontologico di derivazione americana, i filosofi politici hanno dimostrato un crescente interesse verso i valori che debbono ispirare le scelte collettive e le istituzioni pubbliche. Diversamente dall'approccio metaetico, questo tipo di riflessione attribuisce alla filosofia politica il compito di definire i principi di giustizia sui quali è possibile costruire il consenso necessario per arrivare ad una società bene ordinata e promuove lo sviluppo socio-economico. Coerentemente con l’attitudine antistatalista del pensiero liberale e cosciente dei limiti intrinseci della legge nel regolamentare le società pluraliste, l’approccio deontologico ha inoltre elaborato nuovi strumenti di governance basati sulla scelta di valori comuni e sull’autogoverno. Le etiche applicate sorte negli ultimi tre decenni del '900 hanno infatti cercato di supplire ai difetti dell’azione statale promuovendo l’elaborazione di contratti sociali parziali che potessero ridurre i conflitti e dilemmi morali con cui si confrontano gli individui nell’esercizio delle loro funzioni professionali. In Europa il liberalismo deontologico proveniente da oltre oceano è stato appropriato da quelle correnti di pensiero socialdemocratiche che si sono opposte al tentativo neoliberale di ridefinire i diritti di cittadinanza sociale alla base del Welfare State e che sono sempre state scettiche dei poteri taumaturgici del mercato. Parte di queste correnti socialdemocratiche hanno comunque premuto per una revisione che andasse nella direzione di un maggiore riconoscimento del ruolo della partecipazione politica attiva. Secondo questa prospettiva deliberativa (la quale si richiama alla tradizione repubblicana di Machiavelli ma anche a Rousseau e a Kant) la discussione normativa deve essere meno astratta e più direttamente impegnata nel dibattito politico corrente. La revisione auspica inoltre un uso diverso e più esteso degli strumenti di autoregolamentazione proposti dalle etiche applicate. L'autoregolamentazione viene qui vista come uno strumento di principled governance diretta all'effettivo 2 coinvolgimento dei cittadini nei processi deliberativi pubblici che hanno luogo nelle società pluraliste. Questo capitolo introduttivo ricostruisce il percorso teorico che ha portato al rifiorire della filosofia politica come riflessione normativa e che ha accompagnato lo sviluppo dell'etica applicata quale punto di incontro tra riflessione filosofica e pratica politica. La discussione prende spunto dalla critica di Peter Laslett alle teorie empiriste e metaetiche promosse dall’approccio analitico. Segue poi un breve resoconto dei lavori di John Rawls a Robert Nozick con i quali sono riproposti gli approcci normativi tipici della tradizione liberale: il contrattualismo kantiano e le teorie dei diritti lockiane. Successivamente sono discusse le teorie analitiche dello stato e le teorie etiche naturalistiche, le cui preoccupazioni epistemologiche e l'opposizione a concezioni allargate di cittadinanza sociale rappresentano la reazione del pensiero filosofico analitico tradizionale alla svolta deontologica di Rawls e Nozick. Il capitolo si chiude con la presentazione delle etiche applicate quali strumenti di principled governance per società complesse e pluraliste. FILOSOFIA ANALITICA E METAETICA Il punto di partenza della riflessione filosofico-politica del secondo dopoguerra è rappresentato dal saggio introduttivo di Peter Laslett alla raccolta di articoli con la quale inizia la serie di volumi in Philosophy, Politics and Society (Laslett, 1956). Nel saggio Laslett lamenta la morte della filosofia politica come disciplina autonoma e strumento di analisi e critica dei principi di valore e delle forme di governo delle democrazie liberali occidentali. La morte della filosofia politica denunciata da Laslett sta ad indicare la morte dell'intellettuale impegnato in prima persona nella definizione di uno schema generale di pensiero avente un diretto impatto sulla pratica politica. Per Laslett la responsabilità del decesso si deve attribuire ai positivisti, una eterogenea confraternita che comprende tutti i deterministi di destra e di sinistra, e ai positivisti logici in particolare, siano essi razionalisti o empiristi. I primi perché negano all'ambito politico indipendenza e autonomia da presunte leggi sociali oggettive e universali, gli ultimi per avere negato dignità filosofica alle analisi concernenti la difesa di valori e principi normativi. La denuncia di Laslett dà inizio alla riflessione sullo stato della filosofia politica, sui presupposti metodologici e sulle relazioni fra teoria e pratica che pone le basi per il successivo orientamento della disciplina. Malgrado le differenze, il positivismo logico e le scienze empiriche convergevano nel ridimensionare il ruolo di una genuina analisi normativa. L'approccio analitico avocato dai positivisti logici concepiva l'analisi filosofica come lo studio dei vari livelli argomentativi, la separazione delle assunzioni di fatto da quelle di valore e la risoluzione delle incongruenze logiche e linguistiche. Sottoposti a tale tipo di analisi i sistemi di pensiero di pensatori classici quali Hobbes, Locke, Rousseau vennero destituiti di ogni fondamento. Questi vennero infatti tacciati di essere eccessivamente speculativi, basati su assunzioni discutibili, viziati da confusioni concettuali e sbilanciati verso conclusioni spesso inconsistenti con le premesse. L'analisi empirica portata avanti dalle scienze sociali era invece vista come in grado di verificare il realismo delle assunzioni di fatto alla base dei vari sistemi filosofici e di valutare l'utopismo implicito nelle assunzioni di valore e nelle conclusioni difese da tali sistemi. L'obiettivo congiunto dell'analisi linguistica e della ricerca empirica era quello di identificare un livello argomentativo neutrale (o scientifico) dal quale giudicare la validità di posizioni teoriconormative alternative e risolvere conflitti ideologici ritenuti ostici1. Da un punto di vista metateorico, la filosofia analitica si caratterizza per la ricerca di fondamenta adeguate alla ricomposizione del conflitto sociale e individua come punto di vista preferenziale il livello epistemologico. Secondo questa prospettiva l'intera dimensione normativa deve essere ridotta all'analisi delle precondizioni linguistiche e sociali delle varie assunzioni di valore. In questo modo è possibile evitare le vacue e arbitrarie referenze a valori inerentemente soggettivi e gli inevitabili conflitti fra coloro che sottoscrivono posizioni 3 normative diverse. L'approccio epistemologico risulta inoltre compatibile con l'opposizione liberale alle posizioni teoriche che vedono la politica e le pratiche democratiche come il terreno adatto a definire sistemi di valore pubblici. Il massiccio sviluppo dell'approccio behaviorista fa inoltre sì che l'analisi normativa venga sistematicamente subordinata a questioni linguistiche, epistemologiche e metodologiche ritenute non controverse2. Analisi linguistica e discussione epistemologica hanno dunque l'obiettivo di distinguere una volta per tutte il filosofo dal predicatore e dall'ideologo e l'effetto di inibire la produzione di teorie politiche genuinamente prescrittive. Questo non significa però che l'approccio analitico sia privo di una dimensione normativa. Il punto di vista archimedeo individuato dagli epistemologi stranamente coincide con la difesa dei principi liberali classici (nella versione utilitarista proposta da J.S. Mill), mentre l'analisi concettuale finisce per affermare gli schemi (e i pregiudizi) linguistici propri di un particolare punto di vista socioculturale: quello che Alisdair MacIntyre sarcasticamente chiama il sistema di valori del circolo di Bloomsbury. È contro questa dimensione ideologica nascosta che ben presto si rivoltano, sulla scia di Laslett, i membri di quella che poi sarà definita come la scuola storica di Cambridge: Quentin Skinner, John Dunn e Richard Tuck. L'impatto dell'analisi storica portata avanti da questi pensatori è notevole ed influenzerà profondamente le posizioni teoriche che emergeranno negli anni '90. Infatti, è grazie alla scuola di Cambridge che viene affermata l'inerente dimensione storica della categorie concettuali e riscoperta la tradizione civica repubblicana3. In più l'approccio interpretativocontestuale portato avanti da questi autori rappresenterà il più originale contributo dell'accademia inglese alla riflessione filosofica postanalitica. Resta comunque il fatto che il contributo della scuola di Cambridge rimarrà metodologico e ristretto all'interpretazione dei classici. Da questo punto di vista non segna certo una rottura radicale con le preoccupazioni epistemologiche dei positivisti logici e non contribuisce alla rinascita del dibattito normativo4. LA SVOLTA DEONTOLOGICA La ripresa della tradizione di pensiero richiamata da Laslett si deve a John Rawls (1971) e a Robert Nozick (1974). Nel criticare l'approccio utilitarista dominante la cultura filosofica anglosassone, Rawls e Nozick propongono un tipo di giustificazione filosofica dove la legittimità dell'azione politica deriva dal rispetto di vincoli morali indipendenti e prioritari rispetto all'azione politica stessa. Per Nozick questo significa assumere che, "la filosofia morale definisce lo sfondo e i confini della filosofia politica" (1974: 6). Naturalmente, i due autori differiscono sia riguardo alle forme sia alla sostanza della teoria morale proposta. Rimane il fatto che per entrambi le fondamenta di una società bene ordinata vanno ricercate in un livello argomentativo morale distinto da quello propriamente politico. L'approccio deontologico difeso dei due pensatori americani mantiene quindi una struttura concettuale simile a quella della filosofia analitica dove alla politica è assegnato un ruolo strumentale e non costitutivo. A differenza di quello analitico, l’approccio deontologico di Rawls e Nozick difende l'autonomia delle argomentazioni morali da quelle epistemologiche (Rawls, 1999a, cap. 15). Il problema in cui questo tipo di approccio filosofico incorre è quello di risolversi nella produzione di una pluralità di teorie morali alternative. Problema questo che è al centro della discussione filosofica moderna sin dai tempi di Thomas Hobbes. Rawls e Nozick sono appunto casi emblematici perché finiscono per sostenere due diverse e inconciliabili teorie normative. Ralws definisce un modello decisionale che formalizza il contrattualismo ideale kantiano attraverso gli strumenti della teoria della scelta razionale. Nel modello elaborato dal filosofo americano istituzioni sociali legittime sono quelle che si conformano o perseguono principi di giustizia universali. Questi principi sono derivati dalla scelta ponderata di soggetti autointeressati posti dietro un velo di ignoranza che impedisce loro di conoscere sia i loro talenti naturali sia il posto che occuperanno in società. La rimozione di queste informazioni assicura, secondo Rawls, la selezione di principi di giustizia che non si basano né sulla massimizzazione di preferenze individuali contingenti né sul potere contrattuale degli agenti. I principi di 4 giustizia derivati attraverso tale procedura ideale hanno quindi caratteristiche simili agli imperativi categorici kantiani. Diversamente da quelli suggeriti da Kant, si tratta comunque di principi con un contenuto sostanziale ben preciso. Secondo Rawls la scelta ponderata porterà alla selezione di due principi di giustizia profondamente egualitari e che operano una divisione delle risorse sociali a favore degli individui più svantaggiati. Il contrattualismo ideale di Rawls finisce però per scontentare sia i pensatori liberali classici sia i filosofi analitici tradizionali. I primi vedono i due principi di giustizia come un mezzo per giustificare la violazione delle libertà individuali e civili difese della tradizione liberale. I secondi puntano invece l'indice sul fatto che l'approccio rawlsiano risulta non solo controverso, ma anche inconsistente. Sulla scia di Hume, diversi pensatori sottolineano infatti come gli accordi ipotetici sottoscritti dietro un velo di ignoranza non siano in grado di stabilire obblighi morali di alcun genere. Mentre altri puntato l'indice sul fatto che nel contesto decisionale descritto da Rawls la scelta non cadrebbe affatto sui principi di giustizia indicati dal filosofo americano. Il contrattualismo rawlsiano diverrà infine l'obiettivo critico di quanti, comunitari e aristotelici, non condividono né le premesse individualistiche su cui si basa, né il tentativo deontologico di separare il giusto dal buono. Sono queste critiche che hanno portato Rawls alla revisione del contrattualismo morale kantiano proposto originariamente a favore di un costruttivismo politico più circoscritto. Dal canto suo, Nozick elabora una teoria dei diritti che porta alle estreme conseguenze l'approccio deontologico perseguito da Rawls. Questi ritorce contro Rawls la critica che quest’ultimo avanza contro le teorie utilitariste: di non prendere sul serio l'idea della separatezza tra persone. Come alternativa alla teorie della giustizia di Rawls, Nozick propone teoria del titolo valido che si basa su tre principi: 1. una persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giusta acquisizione ha un titolo valido su quella proprietà 2. una persona che acquisisce una proprietà secondo il principio del giusto trasferimento, da qualcuno che possiede un titolo valido sulla stessa, ha un titolo valido su quella proprietà 3. Nessuno possiede un titolo valido su una proprietà se questa non deriva dall'applicazione (ripetuta) di 1 e 2 (1974: 151) Una teoria dei dritti simili è per l'autore in grado di stabilire sia quali sono i titoli individuali validi da garantire sia quali sono i principi di giustizia che una autorità pubblica legittima deve perseguire. I problemi con cui si confronta l'approccio deontologico di Nozick sono però non meno gravi di quelli imputati a Rawls. Come l'autore stesso riconosce, il principio di giusta acquisizione richiede titoli di proprietà che soddisfano le clausole di Locke: clausole che assicurano una distribuzione della proprietà e dei frutti della terra equa e riconoscono il valore aggiunto dal lavoro umano alle cose (1690, II, § 27). Diversamente da Locke, Nozick non ha però una teoria che spiega come tali titoli possano emergere senza l'intervento di un dio razionale e benevolente. Sulla base di questa constatazione Thomas Nagel (1975) definisce l'approccio di Nozick un 'liberalismo senza fondamenta': superfluo quando si rivolge a coloro che già credono in esso e incapace di proporre ragioni valide quando si rivolge a coloro che lo ritengono inadeguato. Un ulteriore punto debole riguarda la praticabilità dei principi di giustizia avocati dall'autore. In contesti dove i diritti di proprietà hanno origini controverse, l'accettazione della teoria del titolo valido potrebbe richiedere politiche ridistributive la cui portata andrebbe molto aldilà di quanto richiesto da Rawls. Lo stesso Nozick è cosciente del problema e afferma che: "è meglio considerare alcuni principi modellati di giustizia distributiva come regole grossolane intese ad approssimare i risultati generali dell'applicazione del principio di rettificazione dell'ingiustizia" (1974: 245). Questo spiega l'accoglienza tiepida con cui Nozick è stato ricevuto in Europa proprio da quegli stessi neo-liberali (o libertari) che negli USA hanno invece abbracciato l'approccio del filosofo di Harvard in maniera entusiasta. John Gray da fiato a tali riserve quando afferma che "Nozick va troppo in là nel raccomandare un principio di giustizia ridistributiva rigorosamente egualitario per la rettificazione delle ingiustizie passate: non esiste 5 giustificazione alcuna per i tentativi di realizzare una ridistribuzione modellata della ricchezza e dei redditi" (1995: 84). In molti paesi occidentali il linguaggio dei diritti rimane peraltro patrimonio di movimenti culturali che vedono l'azione politica e di governo un fattore necessario per il riconoscimento dei diritti sociali e politici delle minoranze (sociali, razziali, sessuali e culturali) e per l'allargamento della nozione di cittadinanza morale ai soggetti non umani (animali e ambiente). TEORIE ANALITICHE DELLO STATO E DILEMMI DELLA COOPERAZIONE I lavori di Nozick e Rawls sono stati di stimolo per lo sviluppo di numerose teorie analitiche dello stato le quali combinano riflessione normativa e teoria della scelta razionale. Il contributo di queste teorie alla riflessione filosofico-politica è duplice. Per un verso hanno portato alla formalizzazione delle critiche liberali alla democrazia e alle procedure deliberative. Per altro verso le teorie analitiche dello stato si sono adoperate per predisporre un paradigma alternativo a quello statista ed interventista delle democrazie del benessere. La combinazione di questi due aree di ricerca ha prodotto una vasta letteratura, il cui obiettivo è stato quello di dimostrare come l'azione politica non è soltanto costosa e potenzialmente oppressiva, ma spesso anche superflua. In questo senso le teorie analitiche dello stato hanno cercato di confutare la tesi hobbesiana secondo la quale la sovranità assoluta è la precondizione acché si possa avere una società civile pacifica e prospera. Le teorie analitiche dello stato hanno due obiettivi complementari: la risoluzione dei problemi di azione collettiva che viziano le teorie della scelta razionale e la ridefinizione del concetto di obbligo politico avanzato da Hobbes. Rispetto al primo problema la sfida lanciata dai teorici analitici consiste nel dimostrare come la cooperazione possa emergere spontaneamente anche in contesti quali il dilemma del prigioniero. Questo tipo di soluzione al dilemma dell'ordine sociale caratterizza un filone letterario riconosciuto come 'anarchismo hobbesiano'. Il nome si deve al fatto che in questi modelli la soluzione cooperativa si ottiene per mezzo di strategie individuali che riescono a discriminare tra cooperatori ed opportunisti e quindi ad eliminare la minaccia del free-riding senza ricorrere a soluzioni esogene quali il sovrano hobbesiano. Per quanto riguarda la nozione di obbligo politico, l'obiettivo di queste scuole di pensiero è quello di dimostrare come la soluzione hobbesiana sia del tutto implausibile. Agenti razionali e autointeressati rifiuterebbero, per questi pensatori, di sottoscrivere il contratto di alienazione proposto da Hobbes. Oggetto di accordo sarebbero invece principi di tipo lockeano che garantiscono diritti individuali esclusivi e giustificano solo una autorità politica limitata. Tra gli autori che hanno intrapreso il tentativo di tradurre Hobbes nel linguaggio della teoria dei giochi, le figure più significative sono quelle di David Gauthier (1986) e Jean Hampton (1986). Gauthier affronta il problema più squisitamente metaetico; sarebbe a dire il tentativo di spiegare l'emergere della morale a partire dalle azioni autointeressate di agenti hobbesiani. Tecnicamente questo implica la risoluzione dei problemi di azione collettiva posti dal dilemma del prigioniero. Se per Hobbes questi problemi richiedono esistenza di un sovrano in grado di attivare le leggi di natura, Gauthier pensa sia possibile arrivare ad una soluzione puramente endogena dove gli individui osservano le leggi di natura in modo del tutto volontario. Secondo il filosofo canadese ciò richiede l'adozione di una strategia condizionale che impegna gli individui a vincolare le loro tendenze massimizzatrici. Aldilà della sua rilevanza tecnica, il progetto di Gauthier ha delle implicazioni curiose per quanto riguarda l'interpretazione di Hobbes. Se, infatti, il tentativo metaetico di riconciliare moralità e autointeresse ha successo, l'intera teoria politica hobbesiana crolla e risulta affatto dubbio se si possa mai arrivare alla giustificazione di una autorità qualsivoglia. La Hampton per canto suo è interessata alla giustificazione di una autorità limitata di tipo locheano a partire da premesse hobbesiane. Estremamente raffinato è il modo in cui l'autore 6 ricostruisce la struttura strategica dello stato di natura e il processo che porta gli agenti hobbesiani alla elezione del sovrano. A differenza di quanto precedentemente sostenuto, la Hampton dimostra che la sottoscrizione di un contratto sociale non ha una struttura logica del tipo descritto dal dilemma del prigioniero. Per la studiosa americana, sottoscrivere un contratto risulta equivalente ad un gioco di coordinazione ed è quindi meno ostico da risolvere rispetto al dilemma del prigioniero. Considerazioni simili vengono sviluppate riguardo al processo di attribuzione dei poteri al sovrano. Per l'autore questo processo risulta equivalente alla produzione di un bene pubblico a gradini; un problema anche questo diverso e più semplice da risolvere rispetto al dilemma del prigioniero. Alla rivalutazione epistemologica del contratto sociale, la Hampton contrappone una critica serrata della versione suggerita da Hobbes: il contratto di alienazione. L'alternativa contrattualista ricercata da Hampton mira infatti a domare il Leviatano attraverso la definizione di vincoli costituzionali che giustificano solo una sovranità limitata. La natura tecnica dei modelli neo-hobbesiani ha favorito numerose critiche che contestano le soluzioni avanzate da Gauthier e Hampton. In entrambi i casi ad essere messa in discussione è la risoluzione dei problemi di azione collettiva che caratterizzano lo stato di natura. Gauthier è stato accusato di proporre una soluzione del dilemma del prigioniero incompatibile con gli assiomi della teoria della scelta razionale5. Nel caso della Hampton sorgono invece diversi dubbi sia sull'analisi del gioco di contrattazione che porta all'attribuzione di poteri effettivi al sovrano sia sulla critica del contratto di alienazione hobbesiano. Da un punto di vista filosofico sono invece di particolare interesse le critiche rivolte alla lettura del contratto sociale quale meccanismo emergenziale proposta dai neo-hobbesiani. Patrick Neal, per esempio, afferma che: "Il Leviatano è indirizzato a persone civilizzate che usufruiscono dei benefici dell'ordine politico e sociale [...] l'obiettivo di Hobbes è quello di spiegare loro come mantenere tale ordine ed evitare di cadere nello stato di natura, non quello di spiegare ad esseri non ancora civilizzati come fuoriuscire da tale stato" (1988: 643). L'astrazione del contratto ha cioè un fine prettamente normativo che le preoccupazioni epistemiche dei teorici della scelta razionale tendono ad oscurare e distorcere6. Naturalismo etico e ordine liberale Se John Locke e la tradizione dei diritti naturali rappresentano il riferimento ideale della destra libertaria americana, in un contesto culturale come quello britannico ad ispirare i filosofi liberali sono David Hume e la tradizione dell'ordine spontaneo incarnata da F.A. Hayek. Il passaggio da Locke a Hume è indicativo di un approccio metodologico il cui fine è l'elaborazione di una teoria fondativa dei diritti di proprietà e delle regole procedurali che eviti le sabbie mobili della filosofia morale e le diatribe fra teorie dei diritti contrapposte. Così se per Nozick è la filosofia morale a definire il limite della politica, per i teorici dell'ordine spontaneo la dimensione morale è a sua volta derivativa e ha come base ultima e non controversa un'epistemologia individualista ed evolutiva. Il punto è stato chiaramente espresso da Hayek un decennio prima della pubblicazione dell'influente lavoro di Rawls. "Io non ritengo la libertà individuale un valore etico supremo" afferma Hayek, "Se vogliamo convincere coloro che non condividono i nostri stessi criteri morali, allora non dobbiamo considerare questi criteri come dati. Dobbiamo invece dimostrare che l'idea di libertà individuale non è una nozione di valore, ma il presupposto e la fondazione di molte delle nostre nozioni di valore" (1960: 6). Per i pensatori e le scuole di pensiero che sottoscriveranno questa linea di pensiero, la fondazione dell'ordine risiede in una teoria sociale in grado di dimostrare come norme e convenzioni sociali possano emergere attraverso meccanismi spontanei, che fanno uso di modelli a mano invisibile e che non richiedono l'intervento del politico. Rispetto al contrattualismo neo-hobbesiano la caratteristica distintiva di questa scuola di pensiero è quella di rifiutare l'approccio eduttivo tipico della tradizione razionalista a favore di un approccio evolutivo (Binmore, 1990). Questa teoria sociale evolutiva è, secondo i loro proponenti, in grado di chiarire sia quali sono i diritti individuali legittimi sia quali sono i limiti alla discrezionalità 7 dell'autorità pubblica nel regolamentare i conflitti tra possessori di titoli validi. Tre le aree di ricerca sulle quale si è indirizzata l'analisi teorica: (i) (ii) (iii) la derivazione di norme e pratiche morali da convenzioni sociali emerse spontaneamente ed in maniera non intenzionale la distinzione tra civile e politico e la definizione delle priorità logiche fra i due l'elaborazione di standard oggettivi per mezzo dei quali valutare la praticabilità delle diverse opzioni istituzionali suggerite nei dibattiti normativi. Gli anni '80 vedono l'esplodere di teorie naturalistiche della morale di derivazione humeana e darwinista. Questo tipo di naturalismo differisce da quello Aristotelico perché è noncognitivista, parte da premesse individualistiche e considera la dimensione normativa come strumentale piuttosto che costitutiva7. La versione più genuinamente humeana si deve a John Mackie il quale distingue tre modi di fare analisi normativa: come analisi genealogica, come ricerca delle precondizioni linguistiche ed epistemologiche sottostanti i giudizi di valore e come costruzione di teorie normative ideali alla Rawls. Quest'ultimo tipo è ritenuto inadeguato in quanto si basa su una concezione oggettiva dei valori che nega sia il dato empirico del pluralismo culturale sia i limiti intrinseci della natura umana nell'adattarsi a ideali astratti. Secondo Mackie, la teoria dei giochi e la sociobiologia sono in grado di integrare l'approccio genealogico-descrittivo di Hume ed "indicare i limiti intrinseci di ogni sistema normativo praticabile, limiti che debbono essere tenuti in considerazione ogni qualvolta si invocano principi morali o si propongono riforme delle attitudini morali esistenti" (1982: 153). La versione più chiaramente darwinista si deve invece a F.A. Hayek. Per Hayek le idee, gli artefatti culturali e le pratiche sociali si sviluppano e diffondono attraverso processi selettivi naturali che penalizzano le pratiche maladattive e assicurano la sopravvivenza di quelle benefiche. Da questa prospettiva, l'ordine liberale (Great Society) rappresenta il precipitato di continui processi selettivi che hanno eliminato tutti quei principi morali e le regole di comportamento che si sono dimostrati inadeguati. Come l'autore stesso chiarisce: "le regole che definiscono i diritti di proprietà individuale e familiare sono i due principi morali sulla cui base ha operato la selezione tra gruppi sociali. Tali principi sono responsabili per lo sviluppo economico e culturale dei gruppi che li hanno messi in pratica e osservato. [...] L'analisi scientifica del processo evolutivo che ha guidato la selezione tra gruppi sociali ci obbliga a riconoscere che le credenze religiose sono state strumentali nel preservare le regole di condotta che hanno poi permesso al genere umano di progredire e il cui significato l'approccio scientifico ed economico in particolare sono in grado di spiegare retrospettivamente" (1987: 230-35)8. Le analisi epistemologiche di Mackie e Hayek non hanno un fine meramente descrittivo, ma intendono arrivare a conclusioni normative esplicite che riflettono quelle di Nozick: stato minimo e diritti di proprietà esclusiva delle cose e della persona. Diversamente da Nozick comunque, humeani e darwinisti concorrono nel sostenere un approccio che riduce l'intera dimensione normativa allo studio dei processi sociologici, psicologici ed economici sottostanti i vari fenomeni normativi. Questo naturalismo di fine secolo sembra però affetto dagli stessi problemi e incongruenze notate a suo tempo a proposito dei positivisti logici. La concezione della morale come superveniente e derivativa rispetto a pratiche sociali aventi una natura convenzionale e strumentale sembra risolversi in un visione esternalista delle regole che sottovaluta la natura dialettica e simbolico-riflessiva delle relazioni sociali e delle pratiche comunicative. In secondo luogo l'uso di dinamiche adattive di derivazione darwinista tradisce una concezione monodirezionale delle relazioni causali che risulta palesemente inadeguata a dare conto della complessità delle dinamiche sociali e della relativa autonomia delle istituzioni culturali. Sul piano assiologico la logica sottostante l'approccio evoluzionista sembra invece giustificare un conservatorismo relativista che rende i principi liberali una mera contingenza storica. Tale logica risulta inoltre inconsistente con l'idea di una natura umana non plastica e universale e si dimostra decisamente inadeguato come cornice normativa per le moderne società pluralistiche9. 8 ETICA APPLICATA E GOVERNANCE Il dibattito aperto da Rawls e Nozick non è stato ristretto agli ambiti filosofici tradizionali ma ha dato vita ad un nuovo campo di indagine dove si combinano riflessione morale e pratica politica: l'etica applicata. L'etica applicata si prefigge l'obiettivo di una principled governance; sarebbe a dire, la regolamentazione delle interazioni sociali in determinati contesti che hanno rilevanza pubblica sulla base di principi di giustizia accettati o accettabili universalmente. La nozione di governance differisce da quelle di governo e governabilità utilizzate nelle scienze politiche perché riguarda non tanto le istituzioni dello stato ma quelle della società civile. Al tempo stesso l'idea di una principled governance è distinta da quella di governo della legge perché ha come campo d'azione aree dove il ricorso alla legislazione pubblica e ai tribunali è percepito o come ineffettivo o come controproducente10. Esempi tipici di relazioni sociali e istituzioni che ricadono nel campo di indagine dell'etica applicata sono quelle riguardanti le pratiche medico-scientifiche (bioetica), quelle economiche (l'etica degli affari), e il trattamento dei soggetti non umani (diritti degli animali e etica dell'ambiente). Le innovazioni tecnologiche in medicina, in genetica e nell'economia sono spesso all'origine di conflitti e dilemmi morali che richiedono la valutazione della legittimità delle azioni degli agenti coinvolti in esse e delle riforme strutturali da questi favorite. Queste innovazioni hanno inoltre effetti profondi sull'ambiente naturale al punto da potere cambiare in modo irreversibile gli equilibri ecologici esistenti. L'esprimere giudizi di valore riguardanti la legittimità o meno di un corso d'azione implica la definizione del punto di vista morale adeguato; in grado cioè di tenere nella dovuta considerazione le ragioni di tutti coloro che sono, direttamente o indirettamente, coinvolti nel processo. Problemi simili sorgono in ambiti dove gli individui sono chiamati ad esercitare potere discrezionale e dove esistono conflitti potenziali fra i doveri connessi al ruolo, quelli della morale comune e l'interesse personale. L'etica applicata parte quindi dalla definizione dei diversi livelli di governo che regolano le istituzioni della società civile, dei problemi di carattere morale che affliggono questi livelli e degli attori coinvolti a ciascun livello. La definizione del punto di vista morale dal quale valutare i diversi problemi segue gli approcci metodologici discussi prima. A seconda dei casi, il punto di vista morale implica l'adozione di una prospettiva imparziale del tipo descritto da Rawls o di principi prudenziali capaci di riconciliare razionalità e moralità. L'obiettivo che l'etica applicata si prefigge è, in altre parole, la definizione di 'contratti sociali parziali' che stabiliscono i principi di giustizia a cui fare appello per risolvere i conflitti e i dilemmi morali con cui gli individui si confrontano quotidianamente. L'equità e l'imparzialità dei principi di giustizia sottostanti i contratti sociali parziali sono inoltre visti come elementi indispensabili per motivare i vari attori sociali ad agire moralmente senza il ricorso al potere coercitivo dello stato. Da una prospettiva kantiana questo significa concepire l'etica applicata come uno strumento per l'autolegiferazione e lo sviluppo di personalità morali autonome. Alternativamente, l'etica applicata può essere intesa come l'ambito dove provare la compatibilità tra razionalità e moralità e dimostrare come l'agire morale possa rappresentare una strategia atta a ridurre i costi di governo. Come per l'etica pubblica, anche quella applicata si è dovuta confrontare con una forte tradizione positivista scettica verso le analisi genuinamente normative. In campo medicoscientifico la bioetica è stata percepita come un modo per giustificare l'interferenza dei filosofi nella ricerca e nella deontologia del ricercatore. Particolarmente accesi sono stati i dibattiti riguardanti aborto, eutanasia, sperimentazione genetica e cibi transgenici. Qui al riconoscimento della natura genuinamente morale dei dilemmi sollevati si è spesso accompagnata l'idea che non esistano criteri etici oggettivi a cui rifarsi. In campo economico l'etica applicata si è invece scontrata con approcci teorici neo-liberali estremamente confidenti nei poteri taumaturgici del mercato e dell'ingegneria manageriale. In tale ambito le soluzioni etiche sono state viste o come teoricamente superflue o come semplici opportunità manageriali per incrementare i profitti aziendali a costo zero. Nei paese dove domina una cultura giuridica formalistica in particolare, l'etica applicata è stata ritenuta o troppo controversa o troppo flessibile. L'autoregolazione è 9 stata quindi relegata ad ambiti ritenuti di secondaria importanza (come le deontologie professionali) o ha giocato un ruolo meramente transitorio e second best. Come avremo modo di vedere nella seconda parte, ciò ha portato all'emergere di un curioso fenomeno: il diffondersi dell'etica applicata e degli strumenti di autoregolazione contemporaneamente al restringersi degli spazi di partecipazione democratica e dei diritti di cittadinanza attiva. SCHEMA DEL LIBRO Il lavoro si divide in due parti composte di tre capitoli ciascuna. La prima parte discute lo sviluppo dall’etica pubblica a partire dai primi anni settanta. Il punto di partenza è ovviamente il lavoro di John Rawls del 1971. Di questo autore vengono presentati i punti più importanti, le critiche salienti e le risposte dello stesso suoi ai critici contenute nella revisione del 1993. Segue un capitolo sulle teorie neohobbesiane, quelle teorie cioè che hanno portato alle estreme conseguenze l’idea che la filosofia morale è parte della teoria delle decisioni avanzata originariamente dallo stesso Rawls. A differenza del filosofo di Harvard i neo-hobbesiani finiscono però per riportare la discussione da un livello genuinamente normativo ad uno epistemologico. In questa direzione si muovono le teorie naturalistiche della morale discusse nel terzo capitolo le quali riprendono e formalizzano l’approccio genealogico di Hume. Nella seconda parte sono discusse le etiche applicate ed in particolare l’etica degli affari (capitolo 4) e l’etica della pubblica amministrazione (capitolo 5). Per ognuna di queste sono indagati sia i dibattiti teorici che hanno accompagnato la nascita della disciplina sia gli sviluppi pratici di queste discipline come strumenti di principled governance. Il capitolo 6 rappresenta invece un tentativo di applicare questi due approcci etici ad un caso concreto: quello della mafia. La questione a cui il capitolo intende rispondere è se l’etica applicata ha le potenzialità per rendere più effettive le politiche pubbliche elaborate per combattere il fenomeno mafioso. Il libro si conclude con una breve disanima delle sfide lanciate dal pensiero repubblicano a quello liberale e le implicazioni che queste hanno per una riconcettualizzazione dell’etica pubblica e di quella applicata come strumenti di governance delle società complesse e multiculturali. Note 1 L'analisi concettuale assume due distinte forme, lo studio critico di pensatori classici (Plamenatz, 1963) e l'analisi linguistica dei termini morali (Hare, 1952; Macdonald, 1956), politici (Barry, 1965; Berlin, 1958; Weldom, 1956) e di quelli più propriamente giuridici (Hart, 1961). Per quanto riguarda invece l'influenza delle scienze empiriche si debbono distinguere due diversi approcci. Da un lato abbiamo i lavori di coloro che mettono in evidenza le implicazioni epistemologiche e metodologiche delle scienze naturali (Hayek, 1952; Popper, 1945; Runciman, 1962). Dall'altro lato si ha la critica portata avanti dall'approccio behaviorista e incrementalista di derivazione americana al pensiero riformista (Dahl e Limdblom, 1953). Fra i lavori di carattere storico che discutono l'impatto negativo che la riflessione epistemologica e le scienze empiriche hanno avuto sulla filosofia politica va ricordato lo studio raffinato di Sheldon Wolin (1960, cap. ix e x). 2 Con il termine epistemologia intendiamo riferirci sia alla filosofia della conoscenza in generale sia a quella morale (metaetica). Nel contesto analitico di inizio secolo, le preoccupazioni metaetiche di G.E. Moore fanno parte del tentativo di definire i limiti della conoscenza e di arrivare ad una chiara distinzione tra predicati di fatto e predicati di valore portati avanti da Russell e dal primo Wittgenstein. Ayer (1957) raccoglie i maggiori saggi che hanno contribuito al successo del positivismo logico e offre una introduzione della retrospettiva molto ben bilanciata. Per un'analisi storica del positivismo logico e dei legami fra questo e la filosofia analitica e linguistica vedi i saggi di Kolakowski (1968), Passmore (1966) e Rorty (1980). Una panoramica di questa letteratura in italiano la si trova in D'Agostini (1997). 3 Sul pensiero repubblicano vedi il capitolo conclusivo. 4 L'enfasi posta sull'analisi contestuale come elemento metodologico primario sembra infatti negare la 10 possibilità stessa di una riflessione normativa che non sia analisi storica. Da questa prospettiva, non esistono questioni normative aventi rilevanza tale da richiedere un approccio filosofico autonomo. Per altro verso il contestualismo linguistico difeso da Skinner sembra risolversi o in una impossibilità logica o risolleva gli stessi dubbi evidenziati a proposito dell'analisi epistemologica nel definire un punto di vista archimedeo. Sulle critiche al contestualismo e per le risposte di Skinner a queste vedi la raccolta di saggi edita da James Tully (1988). 5 Particolarmente esaustive sono le due raccolte di saggi critici editi da Gauthier e Sugden (1993) e da Peter Valentyne (1991). 6 Sul problema della corretta interpretazione del testo hobbesiano è più volte ritornato Quentin Skinner il quale si preoccupa di sottolineare la struttura retorica dell'opera di hobbes. Vedi a proposito Skinner (1996). Sulle controversie interpretative vedi inoltre il saggio di Rorty (1988). 7 Darwall, Gibbard e Railton (1992) distinguono almeno tre tipi di teorie naturalistiche: neoaristoteliche, postpositiviste-antiriduzioniste e riduzioniste. In aggiunta Railton (1989) propone di distinguere tra un naturalismo metodologico e un naturalismo prescrittivo. La nostra analisi riguarda solo l'approccio riduzionista. Le teorie che discutiamo intendono inoltre connettere metodo e prescrizione in modo rigido, anche se, come vedremo nel cap. 3, l'approccio scelto non sempre arriva alle conclusioni volute dagli autori. 8 Hayek naturalmente si è espresso contro la sociobiologia. L'analisi mimetica suggerita da Dawkins (1989) segue comunque da vicino il modello culturale suggerito da Hayek soprattutto nell'epilogo a (1982) e in (1988). 9 Problemi identici affliggono l'interpretazione internalista di Hume proposta da Peter Winch (1962) e dagli allievi del secondo Wittgenstein. In entrambi i casi il discorso normativo si risolve nella difesa di una morale di gruppo localistica e relativista che assume come dato di fatto non problematico esistenza di 'tradizioni' culturali omogenee e contigue. Sui limiti di questi due approcci vedi O'Neill (1989; 1992). 10 Sulle relazioni che l'etica applicata intrattiene con tradizioni filosofico-giuridiche alternative vedi i saggi di Maffettone (1989; 1992; 2001), Pontara (1988) e Singer (1989). 11 Parte Prima Filosofia analitica ed etica pubblica I Contrattualismo kantiano e approccio normativo L'attuale ripresa di interesse per il contrattualismo si deve principalmente al filosofo americano John Rawls, autore di A Theory of Justice (1971) e Political Liberalism (1993), due delle più importanti opere di filosofia politica contemporanea1. L'opera di Rawls si caratterizza per il tenore marcatamente normativo del ragionamento filosofico sviluppato. L'obiettivo dell'autore è infatti quello di identificare la base morale comune sulla quale si reggono le società pluraliste contemporanee e da qui arrivare poi a definire i principi di giustizia ritenuti necessari per costruire una società bene ordinata. Nel portare avanti questo progetto, il filosofo di Harvard ha introdotto una serie di novità e spunti teorici che hanno dato impeto non solo all'analisi normativa, ma promosso lo sviluppo delle varie etiche applicate discusse nella seconda parte del volume. La prima delle innovazioni proposte da Rawls è la riproposizione della tradizione contrattualista classica, così come era stata elaborate da Locke, Rousseau e Kant, in contrapposizione alla tradizione utilitarista dominante nella filosofia morale di lingua inglese. Per Rawls l'approccio contrattualista ha una maggiore capacità propositiva e permette di evitare la debolezza del pensiero utilitarista nel trattare i diritti individuali. Un secondo elemento di novità è rappresentato dall'introduzione della moderna teoria delle decisioni in filosofia morale. Il contratto dal quale si ricavano i principi di giustizia viene presentato come una particolare scelta ponderata operata da individui razionali in situazioni di incertezza. Le controversie promosse da questo tentativo hanno successivamente portato l'autore ad abbandonare tale soluzione e a negare utilità alcuna ai modelli di scelta razionale (cfr. 1999a: 401, n. 20). Come vedremo, all'abbandono della teoria della scelta razionale da parte di Rawls ha fatto da contraltare lo sviluppo delle teorie analitiche dello stato di derivazione hobbesiana e humeana che fanno un uso massiccio dei modelli assiomatici sviluppati in teoria dei giochi. Compito di questo capitolo è quello di dare una presentazione sistematica del modello contrattualista proposto da Rawls e delle diverse revisioni apportate dall'autore nel corso degli anni. Vedremo innanzitutto cosa l'autore intende per contrattualismo e i modi in cui questo viene connesso con la teoria della scelta razionale. Successivamente concentreremo l'attenzione sugli elementi principali del modello contrattualista proposto da Rawls originariamente; sarebbe a dire: le assunzioni riguardanti gli individui e le loro caratteristiche, la situazione all'interno della quale questi sono chiamati a scegliere, il particolare meccanismo decisionale che adottano. La presentazione si conclude con alcune osservazioni sull'equilibrio riflessivo. Quest'ultimo non ha un legame diretto col modello di scelta proposto; non rappresenta cioè un elemento interno e necessario al meccanismo decisionale. Risulta però importante per due ragioni. Primo: perché permette di operare una verifica dei risultati ottenuti ed è quindi uno strumento di controllo sull'intero modello. Secondo: perché rappresenta un elemento che sembra essere passato indenne le revisioni operate dall'autore a partire dagli anni '802. Nella seconda parte del capitolo sono discusse le maggiori critiche rivolte alla Teoria che hanno lanciato il dibattito filosofico contemporaneo. Queste sono suddivise in due categorie: le critiche di tipo interno, relative alla coerenza tra assunzioni iniziali e risultati finali dell'argomento rawlsiano, e quelle di tipo esterno, che cioè contestano l'intera argomentazione del filosofo americano. Le prime concentrano l'attenzione sul concetto di stabilità e hanno come principale obiettivo il criterio di giustizia ridistribuiva difeso da Rawls: il principio di differenza. Le seconde riguardano il sistema di diritti individuali, la priorità che Rawls COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO attribuisce a questi rispetto al bene, come anche la supposta l'obiettività, neutralità e universalità del ragionamento rawlsiano. Nella sezione conclusiva sono discusse le novità introdotte da Rawls con la pubblicazione di Political Liberalism avvenuta nel 1993. La discussione ha comunque uno scopo prettamente introduttivo e non dà una panoramica del dibattito suscitato da questa seconda opera (per la quale si rimanda ai cenni contenuti nel capitolo conclusivo). IL CONTRATTUALISMO IN RAWLS Rawls si prefigge di individuate i principi di giustizia sociale che sono in grado di favorire la nascita di una società bene ordinata; sarebbe a dire, una società che si basa sul consenso di agenti liberi e razionali. Le istituzioni che compongono una società bene ordinata sono concepite come uno schema cooperativo in cui gli individui entrano in relazione reciproca al fine di produrre risorse economiche in grado di soddisfare le esigenze di tutti i membri. Come ogni schema cooperativo, gli individui impegnati nella costruzione di una società bene ordinata si confrontano con due elementi contrastanti. Da un lato si ha una identità di vedute, un sentimento che spinge verso la collaborazione reciproca nella consapevolezza che solo ciò permette di ottenere più di quanto la limitatezza dei singoli renderebbe possibile. Per altro verso esiste però un conflitto di interessi, dovuto al fatto che ognuno desidera una quota maggiore dei prodotti della cooperazione sociale rispetto a quanto è possibile in una società a scarsità moderata. Compito di istituzioni sociali giuste è allora quello di: (i) assicurare un'equa divisione dei frutti della cooperazione; (ii) soddisfare le pretese legittime dei singoli; (iii) mantenere il sostegno quanto più volontario possibile al progetto cooperativo. Una società giusta è infatti per Rawls una società che si basa su principi regolativi che tutti, o quasi tutti, riconoscono come validi e degni di essere osservati. Nel portare avanti l'analisi delle condizioni che rendono possibile una società bene ordinata Rawls ridiscute la problematica contrattualista dell'accordo fra individui autointeressati proposta originariamente da Hobbes: un accordo che da vita alla società civile e che assicura la sopravvivenza e il progresso culturale ed economico. Diversamente da quanto suggerito da Hobbes, il meccanismo contrattuale al quale fa appello Rawls non serve per scegliere un sovrano a cui è demandato un potere assoluto, ma per identificare un insieme di principi normativi validi per individui e istituzioni sociali. Il contrattualismo rawlsiano rappresenta un'etica pubblica che ricerca criteri di giustificazione aventi un valore universale ed oggettivo. L'approccio contrattualista serve per stabilire un insieme di regole di convivenza che, come chiarisce Tim Scanlon, nessuno potrebbe ragionevolmente rifiutare come base per un accordo equo e duraturo (1982). L'astrazione del contratto ha quindi una doppia funzione: quella di individuare principi normativi universalmente condivisi e quella di giustificare valori e istituzioni. La prospettiva metaetica ricercata nel secondo caso vede inoltre l'approccio contrattualista come uno strumento per discriminare fra le teorie morali che difendono e promuovono principi di giustizia alternativi (cfr. Maffettone, 1984, cap. 2). Le ragioni teoriche che portano il filosofo americano a scegliere l'approccio contrattualista sono connesse con le debolezze che affliggono le maggiori teorie morali contemporanee. Per Rawls queste ultime si basano su un mix di utilitarismo e intuizionismo. L'utilitarismo rappresenta una tradizione di pensiero che elegge come principio di azione e di valutazione la massimizzazione dell'utilità attesa. In quanto tale ha il difetto, dice Rawls, di non tenere nella dovuta considerazione i diritti individuali, la cui violazione viene ad essere giustificata ogniqualvolta ciò produce un aumento dell'utilità generale attesa. Per l'utilitarista le ragioni generali hanno la meglio su quelle 'centrate sull'agente', mentre considerazioni di efficienza e benessere hanno priorità su quelle riguardanti i diritti dei singoli. L'utilitarismo rappresenta per Rawls una teoria morale avente una struttura teleologica la quale antepone il bene al giusto e definisce giuste tutte quelle azioni che massimizzano il bene. 14 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO L'intuizionismo è invece una dottrina alla cui base stanno una serie di principi primi irriducibili derivati da un appello alle intuizioni morali dei singoli. "Le teorie intuizioniste hanno quindi due caratteristiche: primo, sono costituite da un insieme di principi primi che possono entrare in conflitto, fornendo indicazioni contrastanti in casi particolari; e, secondo, non includono né un metodo esplicito né regole di priorità per valutare questi principi l'uno rispetto all'altro" (Rawls 1982: 45). Contrariamente all'utilitarismo, l'intuizionismo è una teoria morale che riconosce una pluralità di principi di giustizia ma difetta di criteri che stabiliscono un ordine gerarchico fra questi. Risulta quindi scarsamente utile quando è chiamata a risolvere conflitti fra principi primi. Un esempio di teorie intuizioniste sono le teorie dei diritti di derivazione giusnaturalistica. Queste teorie si basano sull'idea che gli agenti morali sono portatori di diritti assoluti e imprescrittibili. Il difetto di tali teorie riguarda appunto l'assenza di criteri oggettivi che servano per l'identificare i soggetti portatori di diritti, il contenuto dei diritti stessi, i modi in cui risolvere i conflitti fra titolari di diritti legittimi. Come si vede siamo in presenza di due approcci i quali finiscono per tenere in considerazione elementi opposti e per proporre soluzioni normative alternative. L'unione di due tradizioni filosofiche così diverse è dovuto al fatto che entrambe, prese singolarmente, risultano insoddisfacenti e non sono in grado di proporre un sistema normativo condivisibile dagli agenti morali a cui si rivolge. Rawls sostiene che un tentativo di composizione siffatto è però destinato al fallimento e che un progetto teorico unitario deve sviluppare argomenti diversi da quelli utilizzati da utilitaristi e intuizionisti. Da qui la preferenza per un progetto di teoria morale di stampo contrattualista: il contratto sociale rappresenta un modello teorico alternativo in cui utilità e diritti, ragioni generali e particolari, teleologia e deontologia sono mantenuti in un equilibrio appropriato. Significato etico del contrattualismo rawlsiano Il contrattualismo rawlsiano prende forma all'interno di un contesto argomentativo particolarmente astratto e complesso. I principi di giustizia sono il frutto di un accordo fra individui razionali posti in un contesto decisionale, la posizione originaria, dove le informazioni sono fortemente limitate. L'accordo deve inoltre soddisfare criteri di razionalità strumentale. Deve essere cioè in grado di tenere nella dovuta considerazione le ragioni autointeressate che spingono gli individui ad agire e che, si ritiene, influenzano gli uomini in modo oggettivo. L'idea contrattualista consiste appunto in questo: riuscire a definire un insieme di principi che verrebbero scelti da agenti perfettamente razionali in condizioni di scelta ideali. In altri termini, la posizione originaria descrive un contesto decisionale all'interno del quale gli accordi presi sono equi, giusti e moralmente accettabili. Essa incarna ciò che Rawls definisce un ideale di giustizia procedurale pura. "La posizione originaria è definita in modo da essere uno status quo in cui tutti gli accordi raggiunti sono equi. E' uno stato di cose in cui le parti sono rappresentate in modo eguale come persone morali e in cui il risultato non è condizionato da contingenze arbitrarie o dall'equilibrio relativo delle forze sociali. La giustizia come equità è in grado di usare fin dal principio l'idea di giustizia procedurale pura" (Rawls 1982: 113). Il contratto rappresenta quindi un meccanismo euristico che partendo da un ragionamento controfattuale del tipo come se permette di identificare i criteri che dovrebbero regolare istituzioni giuste o, alternativamente, valutare l'equità delle istituzioni sociali esistenti. Rawls definisce la posizione originaria attraverso una serie di limitazioni sulle informazioni disponibili agli individui che daranno vita al contratto. Le limitazioni principali riguardano il grado di conoscenza che questi hanno circa i talenti naturali che possiedono e il posto che occupano all’interno delle varie gerarchie sociali. Nella terminologia utilizzata da Rawls ciò equivale a dire che le decisioni avvengono dietro un velo di ignoranza che non permette la conoscenza dei fatti particolari. Il significato delle limitazioni imposte è connesso con la concezione di merito morale sostenuta dall'autore. Per Rawls sia i talenti naturali sia i privilegi sociali sono il risultato di fattori contingenti sui quali gli individui non hanno che un limitato controllo e su cui non possono avanzare pretese e meriti alcuno. Una teoria normativa 15 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO della giustizia sociale deve quindi procedere in modo da ridurre le influenze di questi fattori arbitrari e muovere da una base morale neutrale e condivisibile universalmente. I principi di giustizia cui si arriva mediante l'astrazione della posizione originaria sono equi e razionali perché frutto di una scelta razionale avvenuta per mezzo di una procedura equa che elimina tutte le influenze moralmente arbitrarie prodotte dalle lotterie naturali e sociali. Secondo Rawls, individui razionali posti nella posizione originaria finiranno per scegliere due principi di giustizia. Il primo stabilisce che ogni persona ha un eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri. Il secondo afferma che le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere (a) (b) ragionevolmente previste a vantaggio dei meno avvantaggiati; collegate a cariche e posizioni aperte a tutti3. Il primo principio assegna i diritti di cittadinanza e garantisce un insieme di libertà quali quelle politiche, civili, personali, di proprietà, etc. Il secondo traccia invece i criteri per la ripartizione dei benefici e dei costi della cooperazione sociale: "i principi tracciano una distinzione tra quegli aspetti del sistema sociale che garantiscono e definiscono eguali libertà di cittadinanza e quelli che specificano e stabiliscono le ineguaglianze economiche e sociali" (Rawls, 1982: 66). I due principi sono inoltre ordinati lessicograficamente e questo impedisce di potere scambiare una minore libertà con un maggior benessere. Secondo Rawls, dei due principi elencati solo il secondo, chiamato anche 'principio di differenza', risulta controverso e merita una specifica giustificazione. Struttura analitica del contratto rawlsiano La 'giustizia come equità' è, per Rawls, parte della teoria della scelta razionale. Necessita allora definire su quali assunti razionali si basa il meccanismo di scelta adottato dall’autore. Rawls opera a questo fine due assunzioni: la prima è che gli agenti chiamati a scegliere nella posizione originaria sanno di avere degli obiettivi ben determinati che vogliono realizzare; la seconda è che le parti non sono a conoscenza del proprio bene. Queste assunzioni possono sembrare in contraddizione dato che correntemente si ritiene una maggiore informazione come necessaria per scegliere in modo razionale. Nel caso specifico però l'autore sostituisce la definizione particolare di bene con una generale. Per bene, dice Rawls, si intende l'insieme dei mezzi che aiutano a realizzare un piano di vita individuale, qualunque esso sia. Il concetto di razionalità fatto proprio da Rawls è infine quello tradizionalmente usato dagli economisti: la capacità di ordinare le proprie preferenze e di effettuare scelte coerenti con tale ordinamento. L'unica assunzione particolare che viene fatta è l'assenza di invidia: "l'assunzione di razionalità reciprocamente disinteressata si riduce a questo: le persone nella posizione originaria tentano di riconoscere dei principi che favoriscono il più possibile il loro sistema di fini. Ciò è ottenuto cercando di assicurare a se stessi il più alto indice di beni sociali principali, poiché ciò li mette in grado di promuovere la loro concezione del bene, nel modo più efficace [...] Allo stesso modo, non cercano di avvantaggiarsi rispetto agli altri; non sono ne invidiosi ne presuntuosi" (1982: 131). Rawls assume infine che gli agenti sono dotati di un senso di giustizia, cioè, che una volta accordatesi su dati principi le parti tendano a rispettarli. Ne consegue che ognuno ha fiducia negli altri e che nessuno aderirà a principi che non possono essere mantenuti, o il cui rispetto è altamente oneroso. L’azione congiunta del disinteresse reciproco e del velo ignoranza dovrebbe fare inoltre sì che la scelta sia anche indipendente da considerazioni strategiche, non viziata cioè dalle scelte o dagli atteggiamenti degli altri. Alla luce di tali assunzioni Rawls ritiene che la scelta debba cadere su principi equi ed imparziali; una soluzione diversa non sarebbe infatti soltanto ingiusta ma anche irrazionale. Il ragionamento che porta alla scelta dei due principi di giustizia, e in modo particolare al principio di differenza, è un ragionamento prudenziale che Rawls identifica con il criterio del maximin. Quest'ultimo è una delle regole decisionali utilizzate nei casi di incertezza: per quelle 16 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO situazioni, cioè, in cui non si hanno tutte le informazioni necessarie. II termine maximin significa massimo dei minimi e rappresenta la regola decisionale che intende garantire l'individuo dai peggiori risultati possibili. Posti di fronte ad una serie di alternative delle quali si ha scarsa o nessuna conoscenza della probabilità del loro realizzarsi, il maximin suggerisce di considerare i risultati minimi garantiti da ogni alternativa e di scegliere quella che garantisce il minimo più alto. Tramite una lunga e complessa discussione, Rawls cerca quindi di dimostrare che le condizioni descritte a proposito della posizione originaria sono tali per cui esiste un grado di incertezza che giustifica l'applicazione del maximin e che a sua volta tale criterio porta alle scelta dei due principi di giustizia. Nel fare ciò il filosofo americano opera una comparazione fra maximin e altri criteri decisionali utilizzati in situazione di incertezza: l'utilitarismo classico (nella versione datane da Henry Sidgwick) e il criterio dell'utilità della media ponderata elaborato da John Harsanyi. La conclusione alla quale Rawls arriva è, ovviamente, che solo il maximin porta alla scelta di principi di giustizia che garantirebbero gli individui in modo effettivo. Nelle pagine successive ritorneremo sulle ragioni tecniche che secondo Rawls giustificano l'applicazione del maximin piuttosto che un criterio alternativo. Per il momento completiamo la presentazione della teoria discutendo l'ultimo tassello del modello contrattualista rawlsiano: l'equilibrio riflessivo. L'equilibrio riflessivo Tradizionalmente i ragionamenti ipotetici del tipo sostenuto da Rawls sono stati accusati di non tenere conto dei limiti della natura umana nell'adattarsi ai requisiti ideali definiti dalla teoria. Rawls affronta il problema dell'utopismo insito nell'approccio contrattualista discutendo la stabilità dei principi di giustizia proposti. Principi di giustizia stabili e duraturi sono per l'autore principi che vengono osservati volontariamente e non richiedono un intervento coercitivo continuo delle autorità. Le condizioni che rendono possibile la scelta di principi di giustizia stabili sono di due tipi: interni ed esterni. Le condizioni interne riguardano il meccanismo decisionale utilizzato nella posizione originaria. Come abbiamo visto la posizione originaria non consente informazioni che possono portare alla scelta di principi che riflettono il potere contrattuale delle parti. Allo stesso modo l'applicazione dei criteri di scelta razionale impedisce la selezione di principi di giustizia la cui applicazione richiederebbe azioni supererogatorie. A questi meccanismi (che possiamo definire come interni al processo decisionale) Rawls aggiunge il criterio dell'equilibrio riflessivo, il cui scopo e quello di verificare la consistenza tra i principi ideali così selezionati e le intuizioni morali degli individui che devono poi metterli in pratica4. L'equilibrio riflessivo opera a due livelli distinti: a livello individuale rappresenta uno strumento che permette al singolo individuo di strutturare in un insieme coerente intuizioni morali e principi d'azione; a livello generale rappresenta invece un criterio per verificare la congruenza fra teoria e intuizioni morali. Rawls asserisce che non è sempre possibile ottenere un riconoscimento intuitivo di prescrizioni frutto di una elaborazione astratta che utilizza gli assiomi della scelta razionale. Questo però può dipende dal fatto che gli individui posseggono intuizioni morali in conflitto fra di loro, o incongruenze tra giudizi di valore (del tipo buonocattivo, corretto-scorretto, giusto-sbagliato, etc.) e principi morali. L'equilibrio riflessivo inteso in senso ristretto è dunque un meccanismo che procede per successive revisioni e adattamenti e riduce le incongruenze fra i principi d'azione che riconosciamo come razionalmente validi e le nostre intuizioni morali. Un identico procedimento viene proposto per quanto riguarda i rapporti fra teorie normative generali e le intuizioni morali che caratterizzano una data società. In questo secondo senso l'equilibrio riflessivo rappresenta uno strumento di verifica semi-empirica delle teorie morali deduttive, dove le intuizioni rappresentano i fatti con i quali confrontare la teoria. L'equilibrio riflessivo allargato permette dunque un avvicinamento dell'etica ai modelli positivi, e impone una verifica della validità dei principi normativi astratti (la teoria) con la realtà del contesto morale (i fatti)5 . L'equilibrio riflessivo è un concetto che precede il lavoro del 1971. Già nel 1951 Rawls avanza uno schema di procedura per convalidare regole morali, vigenti o ipotetiche, e le scelte 17 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO richieste da tali regole. Lo schema, che corrisponde grosso modo a quello che abbiamo chiamato equilibrio riflessivo allargato, ha come riferimento i criteri di verifica empirica delle scienze naturali nella versione sottoscritta dagli empiristi logici. "Così come nella logica induttiva", scrive Rawls, "l'obiettivo è quello di scoprire criteri che ci possano permettere di decidere se proposizioni, teorie e relative evidenze empiriche a supporto delle stesse possano essere considerate vere, anche nell'etica siamo interessati a trovare principi che possano permetterci di determinare se le prescrizioni indicateci sono buone e giuste e debbano essere portate avanti" (1999a: 2). Con la pubblicazione della Teoria il concetto viene ridefinito con l'aggiunta del criterio di equilibrio riflessivo ristretto. A partire dal 1975, e come risposta alle critiche rivolte alla Teoria, Rawls suggerisce invece una lettura quineana dell'equilibrio riflessivo. Quest'ultimo è visto ora come una procedura diretta a rafforzare la coerenza del modello normativo proposto e "non presuppone l'esistenza di verità morali oggettive" (1999a: 290). Rimane comunque immutata l'idea che l'equilibrio riflessivo serve non solo come test di coerenza, ma per aggiudicare fra teorie morali che, a parità di coerenza, prescrivono principi e corsi d'azione alternativi. POSIZIONI CRITICHE Prima di passare in rassegna le critiche rivolte a Rawls occorre fare una precisazione. Esistono due possibili letture del modello contrattualista rawlsiano e della relazione che questo intrattiene con la teoria della scelta razionale. Per una di queste i principi di giustizia sono derivati dalla scelta ponderata di un decisore razionale posto in un contesto idealizzato quale quello della posizione originaria. Da questa prospettiva una teoria della giustizia del tipo ricercato da Rawls deve partire da assunzioni semplici e moralmente neutre e, attraverso passaggi deduttivi rigorosi, derivare conclusioni normative aventi una validità oggettiva ed universale. Questa lettura trova una sua giustificazione nell'affermazione di Rawls secondo cui la filosofia morale e parte della teoria della scelta razionale e vede l'approccio rawlsiano come equivalente a quelli di tipo emergenziale discussi nei prossimi due capitoli. La seconda lettura vede invece la scelta dei due principi di giustizia come compatibile con il meccanismo di scelta razionale in situazioni di incertezza descritto sopra. In questo caso le assunzioni iniziali da cui partire non debbono essere amorali, ma debbono esprimere posizioni di valore universalmente accettate o ritenute tali. Questa lettura alternativa trova una sua giustificazione non solo nel testo rawlsiano, dove i principi di giustizia sono illustrati nel capitolo che precede la discussione sulla posizione originaria, ma anche nelle revisioni apportate dall'autore alla teoria nel corso dei decenni successivi. Secondo questa interpretazione, il progetto rawlsiano non è di tipo emergenziale ma esprime e si basa su valori condivisi. Come accennato precedentemente alla teoria rawlsiana sono state rivolte due tipi di critiche. Il primo tipo ha avuto come obiettivo la logica interna al meccanismo di scelta, vale a dire la cogenza della derivazione dei principi di giustizia dal contesto di scelta della posizione originaria. Ad essere preso di mira è stato soprattutto il principio di differenza. Diversi autori hanno sottolineato come tale principio, diversamente da quanto asserito da Rawls, sia dovuto alla particolare concezione dell'eguaglianza morale sostenuta dall'autore. In altre parole, questi critici affermano che il principio di differenza deriva da ragioni di natura intuitiva piuttosto che dalla scelta prudenziale di individui razionali. La scelta nella posizione originaria non giustificherebbe, per questi, l'applicazione del maximin, ma un qualche criterio di massimizzazione dell'utilità attesa. Al problema deduttivo se ne lega un altro riguardante la stabilità del contratto. E' stato fatto notare che una volta rimosso il velo di ignoranza, e restituita agli individui la piena informazione circa se stessi, i più avvantaggiati non avrebbero nessun motivo per collaborare. Sarebbe a dire, che Il contratto non è in grado di garantire che l'accettabilità ex ante risulti anche ex post. La critica in questo caso riguarda l'applicabilità dei principi di giustizia a situazioni concrete, ma ha rilevanza anche sul piano teorico perché le 18 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO parti, come dice Rawls, non possono accordarsi su principi che sanno di non essere in grado di rispettare. Di tenore diverso sono invece le obiezioni rivolte a Rawls dai pensatori comunitari. Per questi oggetto di critica non è la coerenza interna al modello, ma l'intera struttura argomentativa rawlsiana. Ad essere rifiutata è l'idea di un progetto teorico astratto che possa definire principi normativi aventi validità universale e, quindi, la possibilità stessa di un'etica razionale del tipo proposto da Rawls. Un rifiuto categorico viene espresso sia contro la pretesa universalità dei principi di giustizia, sia contro le assunzioni deontologiche da cui l'autore muove, come anche la metodologia individualista su cui si basa. In breve, mentre le critiche interne assumono che l'approccio perseguito da Rawls è di tipo emergenziale e mettono in risalto i difetti del ragionamento deduttivo proposto dal filosofo americano, quelle dei comunitari mettono in discussione sia il fatto che esistono valori condivisi del tipo a cui fa appello Rawls, sia l'abilità dell'approccio razionale prescelto nel generare il consenso necessario per ottenere una società bene ordinata6. Il problema deduttivo Per dare un'idea del tipo di obiezioni che sono rivolte al modello decisionale rawlsiano partiamo da una raffigurazione grafica del modo in cui i beni primari vengono distribuiti fra i soggetti rappresentativi della classe dei meno avvantaggiati e di quella di coloro più avvantaggiati. Le curve di indifferenza riprodotte in figura 1.1 rappresentano le diverse alternative sociali fra cui un individuo razionale e disinteressato si trova a scegliere. L'assenza di invidia e le altre assunzioni fatte da Rawls trasformano tali curve in linee parallele che si incontrano ad angolo retto (cfr. 1982: 78). Figura 1.1. Distribuzione dei beni primari fra i rappresentanti dei meno avvantaggiati e dei più avvantaggiati. Tratta da Boudon (1981). Per Rawls fra due distribuzioni alternative come quelle definite dai punti A e B è razionale scegliere B. B infatti rappresenta una situazione sociale in cui l'ammontare complessivo delle risorse e la loro distribuzione è superiore a quanto garantito da A. Nessuno in questo contesto di scelta può avanzare motivazioni valide per scegliere A piuttosto che B. Nel linguaggio della 19 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO teoria della scelta razionale B viene definito come l'alternativa dominante. Consideriamo ora il punto C. Dal confronto fra A e C emergono due tipi di preferenze: il rappresentante della classe più avvantaggiata preferisce A a C in quanto A assicura un maggiore ammontare di risorse rispetto a C; il rappresentante della classe meno avvantaggiata preferisce invece C ad A per le ragioni opposte. Fra A e C non esiste dunque una alternativa dominante. Siccome però la scelta viene operata dietro un velo di ignoranza che impedisce di sapere in anticipo (o di calcolare le probabilità relative) a quale classe un individuo apparterrà dopo la stipula del contratto, l'applicazione del criterio del maximin porta alla selezione dell'alternativa C. C infatti massimizza l'ammontare di risorse minimo al quale si può accedere in caso si finisca nella classe dei meno avvantaggiati. Come Boudon nota, "i contraenti devono preferire B ad A e, in funzione di differenti considerazioni, C ad A. [...] mentre la preferenza per B rispetto ad A viene direttamente dedotta dall'assioma, lo stesso non avviene per la preferenza di C rispetto ad A, che suppone la proposizione supplementare che, in assenza di una strategia dominante, il maximin rappresenta la strategia ottimale" (1981: 156). La differenza fra le due assunzioni è per il sociologo francese indice delle inconsistenze che viziano la struttura deduttiva di Rawls. Prendiamo infine in considerazione le alternative B e C. Come si può vedere dalla figura 1.1, B e C si trovano sulla stessa curva e sono quindi indifferenti. Il risultato sembra però implausibile: per il rappresentante dei più avvantaggiati B risulta superiore rispetto a C perché assicura maggiori risorse; per il rappresentante dei meno avvantaggiati fra B e C esiste una relazione di indifferenza perché una delle premesse di Rawls è l'assenza di invidia. Ne consegue che B deve essere preferita a C anche se posti dietro un velo di ignoranza e quindi che B e C non possono stare sulla stessa curva di indifferenza come suggerito da Rawls. In altre parole, non è chiaro perché individui autointeressati debbano trovare indifferente l'alternativa dominante B a quella più egualitaria C; a meno di non considerare la maggiore equità di C come qualcosa di preferibile per se. Così facendo però si finisce per introdurre nel modello elementi estranei a quelli definiti nella posizione originaria. Come Boudon afferma: "la preminenza accordata al meno favorito nel secondo principio di giustizia, non solo non viene dedotta dall'assioma della posizione originale; ma sembra addirittura in contraddizione con esso. Si è obbligati ad ammettere che il secondo principio di giustizia deriva da una teoria di tipo 'intuizionista' in contraddizione con le stesse ambizioni di Rawls" (ibid.: 160). Che l'approccio rawlsiano ha una base intuitiva più che razionale è reso evidente, secondo i critici, dall'applicazione del criterio del maximin. Il maximin rappresenta un meccanismo decisionale messo a punto da von Neumann e Morgenstern negli anni '40 quale soluzione razionale per tutti quei contesti strategici formalizzati come giochi a somma zero. Quei giochi, cioè, dove i guadagni di uno corrispondono alle perdite dell'altro. In questi casi la scelta razionale consiste nel selezionare il corso d'azione i cui pay-offs sono i massimi fra i minimi possibili. Il maximin è un meccanismo prudente, preoccupato più delle perdite che dei guadagni potenziali e quindi portato a scegliere quelle alternative che assicurano dei pay-offs che non dipendono dalle scelte della controparte. Tale criterio ha cominciato ad essere oggetto di critiche prima ancora di essere stato utilizzato da Rawls. A criticarlo sono stati due correnti di pensiero: coloro che hanno messo in evidenza il ristretto ambito di interesse che hanno i giochi a somma zero relativamente a quelli a somma positiva; i teorici bayesiani i quali riducono i problemi strategici a casi equivalenti di scelta parametrica attraverso l'impiego di probabilità soggettive. Nel caso di Rawls il criterio del maximin risulta problematico per almeno due ragioni. Innanzitutto perché la posizione originaria non si caratterizza affatto come un contesto strategico e tantomeno come un gioco a somma zero. In secondo luogo perché, come hanno evidenziano bayesiani, la posizione originaria descrive una situazione in cui esiste una distribuzione di rischio equiprobabile e quindi non giustifica la scelta di un criterio prudenziale che si basa su aspettative estremamente pessimistiche. Sin dai primi anni '50 John Harsanyi ha sviluppato un programma di ricerca che utilizza la teoria delle decisioni in modi del tutto simili rispetto a Rawls7. Harsanyi arriva però a conclusioni che giustificano la scelta del criterio dell'utilità della media ponderata attesa. Nel 20 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO presentare le caratteristiche della situazione di scelta iniziale, Rawls tiene conto delle critiche bayesiane e di quelle di Harsanyi in particolare, ma non le ritiene sufficienti per giustificare l'utilizzo di un criterio di scelta utilitarista. Harsanyi dal canto suo è intervenuto diverse volte sul punto dimostrando come nell'operare concreto il criterio del maximin porti a risultati paradossali: "e completamente irrazionale far dipendere il proprio comportamento esclusivamente da qualche eventualità sfavorevole ma altamente improbabile senza considerate quanto è bassa la probabilità che siete disposti ad assegnarli" (1989: 113). Per Harsanyi il maximin attribuisce un peso eccessivo ad elementi le cui probabilità sono infinitesimali, determinando come risultato finale decisioni che sono inammissibili. Secondo l'autore il principio di differenza giustifica grandi perdite per i più avvantaggiati anche se queste procurano guadagni infinitesimali ai meno avvantaggiati; oppure impedisce enormi guadagni che comportano perdite irrisorie per coloro che sono meno avvantaggiati. Nel discutere il principio dell'utilità della media, Rawls considera le debolezze elencate da Harsanyi ma ritiene che queste riguardino il maximin come criterio di scelta per decisioni micro; che cioè non riguardano la società nel suo insieme. Nel caso di decisioni macro, riguardanti cioè l'assetto delle maggiori istituzioni sociali, il criterio del maximin è immune dai difetti menzionati da Harsanyi e rappresenta il solo criterio di scelta in grado di riscuotere il consenso degli agenti razionali posti dietro il velo di ignoranza. La risposta rimane comunque insoddisfacente, come anche lo stesso Rawls è stato costretto ad ammettere. Nell'introduzione alla traduzione francese della Teoria avvenuta nel 1987 l'autore afferma infatti quanto segue: "io continuo a pensare il principio di differenza come importante e sarei ancora disposto ad argomentare in suo favore [...] Ma riconosco che la sua giustificazione non è così evidente e non ha certo una portata simile a quella che porta alla scelta dei primi due principi [eguaglianza delle libertà, primo principio, e delle opportunità, parte B del secondo principio]" (1999a: 418-9). Un secondo problema deduttivo cui va incontro il modello decisionale rawlsiano è quello relativo alla stabilità del contratto ex post. Rawls asserisce che esiste in ognuno di noi un senso di giustizia che porta all'osservanza e al rispetto di istituzioni giuste e che le parti nella posizione originaria si accorderanno su principi che non richiedono sacrifici troppo alti e/o duraturi. Queste due assunzioni dovrebbero permettere di riconciliare moralità e razionalità e assicurare così la stabilità del contratto nel tempo. Che i principi di giustizia scelti da Rawls siano in grado di garantire un grado soddisfacente di stabilità è stato però messo in dubbio ripetutamente. Robert Nozick per esempio afferma che "il principio di differenza presenta dei termini in base ai quali i meno dotati sarebbero desiderosi di cooperare. (Quali termini migliori potrebbero proporre per se stessi?). Ma è questo accordo in base al quale i peggio dotati possono aspettarsi la cooperazione spontanea di altri equo? [...] il principio di differenza non è neutrale tra i meglio e i peggio dotati" (1974: 204-5). La parzialità a favore dei meno avvantaggiati ha effetti negativi sulla stabilità del contratto rawlsiano perché una volta rimosso il velo di ignoranza coloro che hanno più talento e contribuiscono maggiormente alla cooperazione sociale non avrebbero, secondo Nozick, ragioni sufficienti per accettare un criterio distributivo che li penalizza sistematicamente. Simile ragionamento è sviluppato da David Gauthier. Per il filosofo canadese "un principio che stabilisce i termini associativi deve essere razionale non solo prospettivamente ma anche retrospettivamente" (1974: 156). Sarebbe a dire che "la scelta deve essere razionalmente accettabile [...] per ciascun rappresentante anche dopo che il velo di ignoranza è stato rimosso" (Ibid.). I principi di giustizia proposti da Rawls non soddisfano, secondo l'autore, questo criterio di razionalità. Al contrario, Gauthier asserisce che "il principio di differenza lessicale assicura ai meno dotati il potere di sfruttare coloro che hanno maggiore talento, imponendo a questi ultimi di impiegare le loro abilità non per il loro diretto avvantaggio, ma per massimizzare il livello minimo di benessere" (1986: 252)8. La corretta applicazione dei criteri di razionalità strumentale nella posizione originaria porterebbe, secondo Gauthier, né al principio di differenza lessicale di Rawls né al principio dell'utilità media ponderata attesa di Harsanyi, ma ad un principio di differenza proporzionale che assicura una distribuzione del surplus cooperativo in relazione al contributo marginale dato alla cooperazione sociale. 21 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO Considerazioni tecniche a parte, la rilevanza delle critiche di Nozick e Gauthier risiede nel proporre principi morali alternative riguardo alla natura, ruolo e rilevanza del talento individuale. In entrambi i casi si ritiene inaccettabile l'idea che il talento sia un patrimonio collettivo piuttosto che una caratteristica individuale sulla quale basare un riconoscimento morale di merito. Per entrambi gli autori, un principio distributivo che nega legittimità alcuna alle disuguaglianze dovute alla distribuzione ineguale dei talenti equivale alla giustificazione di forme di sfruttamento schiavistico. Ciò consente ai due autori di ritorcere contro lo stesso Rawls le critiche da questi rivolte all'utilitarismo: "nel supporre che una distribuzione giusta dei costi e benefici della interazione sociale non debba essere connessa con le caratteristiche personali degli individui che compongono la società Ralws viola l'integrità degli esseri umani, per come essi sono e per come concepiscono se stessi" (Gauthier, 1986: 254). Questa identità di vedute non porta comunque gli autori ad elaborare principi di giustizia convergenti. Come accennato, nel caso di Gauthier il principio di giustizia selezionato porta al riconoscimento dell'obbligo morale a retribuire in base al contributo marginale di ogni individuo al surplus cooperativo e quindi indipendentemente dalla prospettiva dei meno avvantaggiati. Nel caso di Nozick, i criteri distributivi hanno invece una base storica e dipendono dall'esistenza di titoli di proprietà esclusiva sulle cose e sulle persone il cui possesso è valido9. Le critiche dei comunitari Con il termine comunitari intendiamo riferirci ad un gruppo di studiosi contemporanei che negli ambiti accademici di lingua inglese si oppongono al paradigma liberale. Quello che caratterizza e che risulta comune a tutti questi autori è l'impostazione critica nei confronti di tutte le filosofie che pongono al centro della loro speculazione l'individuo: un individuo astratto, slegato da ogni riferimento storico e contestuale ma ritenuto il riferimento di valore fondamentale per la giustificazione di principi, istituzioni e pratiche che regolano le società moderne. I rilievi dei comunitari partono dal fatto che tutti i sistemi morali sono creazioni umane e in quanto tali dipendono strettamente dal contesto in cui sono nate. I valori ai quali l'etica si riferisce non sono creazioni fatte a priori, ma dipendono da culture e tradizioni ben definite. Inoltre questi non sono definibili una volta per tutte ma variano al variare delle epoche e dei contesti sociali e culturali. La varietà delle posizioni comunitari e di quelle liberali e l'ampiezza del dibattito fra le varie parti ha creato non pochi fraintendimenti riguardo sia all'oggetto della disputa sia ai soggetti a cui è indirizzata. Charles Taylor (1995) ha avanzato uno schema interpretativo che cerca di fare chiarezza sull'argomento e che riportiamo in forma di matrice. OLISTI ATOMISTI COLLETTIVISTI INDIVIDUALISTI Aristotelici e Marxisti comportamentisti Mutualisti e pluralisti Liberali e libertari Figura 1.2. Schieramenti nel dibattito tra comunitari e liberali Lo schema separa le questioni normative da quelle epistemiche10. La distinzione fra olisti e atomisti si riferisce al diverso modo in cui gli epistemologi concepiscono le istituzioni e i fenomeni sociali: come aventi una natura oggettiva che si impone ai singoli condizionandone i sistemi di credenze e i comportamenti (olisti), o come il risultato delle azioni e reazioni di individui autonomi e/o autosufficienti (atomisti). La dimensione prettamente normativa distingue fra coloro che attribuiscono priorità alle libertà e ai diritti degli singoli (individualisti) e coloro invece che subordinano questi ultimi alle esigenze della comunità (collettivisti). Fra i quattro tipi ideali che emergono dall’incrocio di queste due dimensioni il meno rilevante è quello comportamentista, il cui solo esempio è quello dell'utopia cibernetica di B.F. Skinner. La tabella mette in evidenza la presenza di due posizioni comunitarie fra le quali Taylor è ansioso 22 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO di distinguere: quella radicale che comprende aristotelici e marxisti e quella moderata che comprende mutualisti e pluralisti11. Dal punto di vista epistemologico, i comunitari focalizzano l'attenzione su due temi fondamentali: • • il tipo di relazione che intercorre tra l'io e la comunità di riferimento il diverso grado di stabilità a cui portano concezioni morali che sposano versioni alternative del rapporto fra io e comunità Dal punto di vista più genuinamente normativo il dibattito concerne invece: • il tipo di relazione che intercorre tra giusto e bene, o tra libertà negative e positive • la definizione di bene e dei relativi criteri distributivi Per i comunitari la teoria della giustizia di Rawls rappresenta un condensato di elementi tipici del pensiero liberale ed è, quindi, un obiettivo critico privilegiato. Contro la pretesa rawlsiana di derivare principi morali universali dalla scelta libera e razionale di un agente idealmente situato i comunitari affermano che "non esistono standard di giustificazione razionale a cui è possibile appellarsi per risolvere questioni che tradizioni diverse giudicano in modo alternativo" (MacIntyre, 1988: 351). Fanno quindi notare che il gruppo e il contesto storico-culturale sono elementi basilari per la costruzione dell'identità individuale e lo sviluppo della personalità morale. Come afferma Sandel, "la comunità non descrive solo quello che [gli individui] hanno in comune come cittadini, ma anche quello che sono, non una relazione che essi scelgono [...] ma un legame che essi scoprono, non semplicemente un attributo ma un elemento costitutivo della loro identità" (1982: 150). Un riferimento agli individui presi isolatamente dal contesto è quindi privo di senso perché non permette una descrizione appropriata degli stessi. Conseguentemente viene scartata l'idea di individuo libero ed autonomo, di biografia che si autocostruisce indipendentemente dalla comunità, o prioritariamente rispetto alla comunità. Le conseguenze a cui porta una tale concezione dell'io sono diverse. Innanzitutto abbiamo il rifiuto del concetto di neutralità e del formalismo liberale da cui questo deriva. I principi riconosciuti dalle società liberali, dice MacIntyre, "non sono neutrali rispetto a teorie del bene rivali. Laddove sono applicati questi impongono una concezione particolare della vita giusta, di razionalità pratica e della giustizia a coloro che volontariamente o involontariamente accettano le procedure liberali e i termini del dibattito. Il bene principale che il liberalismo persegue è nient'altro che la difesa dell'ordine politico e sociale liberale" (1988: 345). Inoltre si ritiene che il riferimento al contesto non consente la separazione fra giusto e bene così come proposto da Rawls e dalle teorie deontologiche in generale. Il poter separare il giusto dal bene richiede una priorità del se rispetto ai suoi fini, valori e attaccamenti sociali, afferma Sandel, "se il se è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene" (1984: 17). Per Sandel questo è però impossibile: "per quanto aperta può essere, la mia vita è parte integrale della storia delle comunità dalle quali io derivo la mia identità - che siano queste la famiglia o la città, la tribù o la nazione, il partito o la causa. Per i comunitari queste storie hanno rilevanza da un punto di vista morale e non solo psicologico. Da esse dipende la nostra collocazione nel mondo e la specificità morale della nostra esistenza" (ibid.). Da un punto di vista metateorico il problema con cui si confrontano i liberali risiede sia nell'abilità di autoriproduzione di una società che si riconosce in valori individualistici, sia nella possibilità di imporre tali valori a società che non condividono la stessa storia. Come afferma Charles Taylor: "esistono dubbi circa la capacità di sopravvivenza (viability) di una società che cerchi di funzionare secondo questi principi, e sorge inoltre il problema se sia possibile applicare questo modello in società diverse da quella degli Stati Uniti (e forse la Gran Bretagna) dove è in gran parte originato" (1995: 187). Riguardo alla prima questione, Taylor ritorce contro gli individualisti le critiche di utopismo che i liberali hanno tradizionalmente rivolto alle dottrine collettiviste. Per Taylor, "modelli alternativi del rapporto individuo-società -atomismo e olismo- sono connessi con concezioni diverse della relazione tra io e l'identità; io disincarnato 23 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO contro io contestualizzato. [...] dato che un io totalmente disincarnato risulta umanamente impossibile, un modello estremo di società atomistica è una chimera" (ibid.: 182). Riguardo al problema dell'etnocentrismo che affligge le teorie liberali, Taylor mette in evidenza come "esistono società democratiche moderne la cui unità patriottica si basa su una cultura nazionale [...] definita attraverso la lingua o la storia. [...] Il modello deontologico-procedurale è inadeguato per tali società perché per queste non è possibile mantenere una posizione neutrale fra tutte le definizioni possibili di vita buona" (ibid.: 203). Le implicazioni normative a cui arrivano i comunitari sono incompatibili con la priorità che i liberali attribuiscono ai diritti, quali sfere di autonomia individuale, rispetto ad una concezione condivisa del bene. La conclusione normativa a cui arriva Sandel è, per esempio, un appello a preservare forme solidaristiche presenti nelle società contemporanee: "se coloro che credono nel bene comune hanno ragione, il nostro obiettivo morale e politico è quello di rivitalizzare le istituzioni civiche repubblicane implicite nella nostra tradizione ma che sono attualmente in fase di deperimento" (1984: 17). L'esistenza di una pluralità tradizioni culturali e comunità morali ha inoltre dirette conseguenze sul modo di intendere l'uguaglianza. Per i comunitari un principio distributivo generale del tipo ricercato da Rawls risulta chimerico perché non tiene conto né del significato sociale del bene né dell'esistena di una pluralità di beni diversi. La definizione di criteri distributivi validi è per questi possibile solo all'interno di contesti specifici. Come chiarisce Michael Walzer: "beni sociali differenti devono essere distribuiti per ragioni differenti secondo procedure differenti da agenti differenti e tutte queste differenze derivano dai significati differenti degli stessi beni sociali -il prodotto inevitabile della particolarità storica e culturale" (1983: 6). L'implicazione è duplice: (i) non si ha un singolo principio distributivo perché beni diversi da distribuire a persone diverse richiedono criteri diversi; (ii) non è possibile definire uno standard astratto di giustizia, ma si può solo di volta in volta e per casi concreti stabilire l'equità di istituzioni singole. Per Walzer ciò significa abbandonare la ricerca di criteri di giustizia semplici del tipo ricercato da Rawls e adottare un criterio di giustizia complessa per cui "nessun bene sociale X deve essere distribuito a uomini e donne che possiedono un altro bene Y solo perché possiedono Y e senza considerate il significato di X" (ibid.: 20). Le teorie comunitarie hanno evidenziato alcuni elementi deboli del contrattualismo rawlsiano (ma il discorso vale per l'etica razionale in generate) e stimolato gli approcci deontologici a prestare maggiore attenzione all'origine storico-sociali dei concetti morali e dei criteri di giustificazione. Hanno inoltre posto l'accento sui i vincoli sociali all'interno della quale principi di giustizia astratti devono poi operare e contribuito a bilanciare l'eccessiva astrazione dei modelli normativi ideali. Alle critiche però non sono seguite proposizioni normative convincenti. Nessuno dei pensatori comunitari è riuscito a proporre una teoria della giustizia che sia capace di giudizio critico e in grado di dare delle risposte chiare circa i problemi posti dal conflitto fra sistemi di valore alternativi. In altre parole, le teorie comunitarie hanno evidenziato i problemi di natura epistemologica che affliggono le etiche normative, ma non hanno affatto chiarito le implicazioni sostanziali di questi argomenti. Come lo stesso Taylor velatamente ammette, "il tenore di queste tesi riguardo l'identità risulta ancora puramente ontologico. Esse non implicano l'apologia [advocacy] di un qualcosa di definitivo. Quello che si propongono, come del resto fà ogni tesi ontologica circa il bene, è quello di strutturare il campo delle possibilità in modo più chiaro. Ma questo ci lascia di fronte a scelte per la cui risoluzione necessitiamo di ulteriori argomentazioni normative e deliberative" (1995: 183). Non solo i vari pensatori comunitari finiscono per difendere principi contrapposti, ma, a loro volta, basano questi principi su nozioni di comunità, identità personale e di psicologia morale non meno controverse di quelle criticate. Anche per quanto riguarda le obiezioni rivolte alle dottrine individualiste esistono notevoli ambiguità: hanno come obiettivo Rawls o libertari come Nozick? Taylor preme perché si faccia una netta distinzione tra comunitari radicali, dai quali si dissocia, e comunitari moderati ai quali si associa. Non sembra però consistente quando sottace che lo stesso può dirsi riguardo alle differenze fra liberali come Ralws e libertari come Nozick. Se la critica delle dottrine atomistiche cattura le debolezze di quanti avanzano teorie dei 24 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO diritti senza dare una adeguata giustificazione dei diritti scelti, la stessa sembra portare fuori pista quando viene applicata nei confronti di Rawls senza ulteriori qualificazioni. Non solo Rawls non parte dall'idea che esistano diritti senza ulteriore giustificazione, ma i principi di giustizia avocati si basano su considerazioni morali circa il merito e la natura sociale del talento individuale che sono incompatibili con le concezioni atomiste attribuitele. In breve, non è chiaro se e in che misura una teoria normativa individualista debba dipendere da un'epistemologia atomista e se nel caso specifico di Rawls ciò accade12. DAL CONTRATTUALISMO ETICO AL COSTRUTTIVISMO POLITICO Con Political Liberalism (1993) Rawls opera una radicale revisione della Teoria; un cambio di direzione che riguarda sia la sostanza delle prescrizioni proposte sia il tipo di argomentazione utilizzato per giustificare i principi normativi avanzati. Nelle intenzioni dell'autore lo scopo del nuovo lavoro è comunque quello di chiarire gli obiettivi che l'opera precedente perseguiva. Obiettivi che, sostiene Rawls, sono stati fraintesi da molti commentatori. Alla chiarificazione segue però una revisione che mira a risolvere alcune delle debolezze che affliggono la Teoria. La revisione più evidente riguarda la discussione sulla stabilità dei principi di giustizia e in particolare l'inconsistenza fra gli argomenti di psicologia morale sviluppati nella parte terza della Teoria e il modello di scelta razionale proposto all'inizio. Secondo Rawls, "il problema della stabilità ha giocato un ruolo minimo nella storia della filosofia morale [...] Nonostante ciò il problema della stabilità è di fondamentale importanza per la filosofia politica e un'inconsistenza in questo ambito è destinata a premere per revisioni radicali" (1993: xvii). Rawls chiarisce infine che le revisioni apportate non cercano di rispondere alle critiche avanzate dai comunitari, i quali sono per l'autore fra coloro che hanno frainteso maggiormente il significato complessivo della Teoria13. Nel concludere questo capitolo proponiamo un breve sommario della struttura analitica di (1993). L'obiettivo della discussione è quello di rendere evidente due cose: a che cosa si riferisce Rawls con il problema della stabilità e come questo problema viene affrontato e risolto. Come abbiamo visto nel discutere le critiche avanzate contro la Teoria esistono almeno due versioni del problema della stabilità. Le critiche interne affermano che l'errore di Rawls è di natura prettamente deduttiva e che soggetti razionali e autointeressati non avrebbero ragioni sufficienti per osservare il principio di differenza volontariamente. I comunitari affermano invece che l'errore risiede nella sottovalutazione del rapporto fra io e comunità e nell'imposizione di una priorità del giusto sul bene che promuove l'atomizzazione della società. L'impressione è che nel rivedere la Teoria Rawls consideri solo il secondo tipo di critica. Dal punto di vista sostantivo la revisione di Rawls porta all'eliminazione del principio di differenza quale principio costituzionale essenziale. Se questo può apparire come una concessione alle critiche degli internalisti, l'assenza di salvaguardie costituzionali al diritto di proprietà e la lunga discussione sulla priorità delle libertà sembra invece confermare come le obiezioni alle quali Rawls cerca di rispondere vengano proprio dai comunitari. Etica razionale o politica ragionevole? "Political Liberalism parte dal presupposto che [...] l'esercizio della ragione promosso dalle libere istituzioni di un regime democratico-costituzionale giustifica l'esistenza di una pluralità di tradizioni di pensiero (doctrines) che sono al tempo stesso ragionevoli e incompatibili" (ibid.: xvi). Una affermazione siffatta contrasta con l'obiettivo razionalista di stabilire una fondazione oggettiva della morale e, in particolare, col tentativo di derivare i principi morali per una società bene ordinata dalla scelta ponderata di soggetti razionali. Il pluralismo che caratterizza le moderne società occidentali è, per Rawls, un fatto reale e non il risultato di errori concettuali, linguistici o di altra natura. Rawls afferma inoltre che siccome la logica stessa dei sistemi democratici produce e si basa sull'esistenza di opinioni politiche diverse, il pluralismo è anche un'assunzione di valore. Come risolvere dunque le inevitabili tensioni che sorgono fra persone e 25 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO gruppi che sottoscrivono tradizioni di pensiero contrapposte? La risposta di Rawls si articola in tre parti: la prima considera la distinzione tra etica e politica e definisce i limiti della riflessione filosofica nell'affrontare il tema del conflitto; la seconda considera le basi su cui costruire una società bene ordinata pluralista; la terza discute il tipo di istituzioni necessarie per garantire un ordine sociale stabile. Se l'obiettivo della Teoria era quello di definire i principi di giustizia validi per una società bene ordinata, "il problema del liberalismo politico è quello di definire una concezione politica della giustizia valida per un regime democratico-costituzionale nel quale si possano riconoscere coloro che sottoscrivono tradizioni di pensiero ragionevoli" (ibid.: xviii, corsivo aggiunto). I termini in corsivo sono cruciali per capire le novità introdotte da Rawls rispetto al lavoro del 1971. Il problema non è quello di individuare principi morali oggettivi e universali da cui valutare la giustezza delle maggiori istituzioni sociali. Una teoria politica liberale deve, dice Rawls, riuscire a definire criteri di giustizia sociale accettabili indipendentemente dal fatto se questi siano o meno veri. In altre parole, la nozione di verità morale non si applica ad una concezione politica della giustizia, né questa deve ricercare necessariamente una fondazione ultima. Per Rawls questo non significa giustificare la scelta di principi arbitrari, ma riconoscere la diversa natura delle giustificazioni politiche rispetto a quelle filosofiche, etiche e religiose. Il termine ragionevole serve a qualificare il tipo di argomentazioni sui quali basare la scelta dei principi di giustizia, come anche le tradizioni di pensiero di cui si deve ricercare il consenso. L'aggettivo è utilizzato da Rawls in opposizione a due altri termini: razionale e onnicomprensivo. Una concezione filosofica è ragionevole quando riconosce sia la difficoltà di arrivare alla scoperta di verità ultime, sia l'esistenza di una varietà di teorie che aspirano ad essere vere. Le teologie filosofiche prodotte dalle maggiori religioni storiche rappresentano un esempio di teorie onnicomprensive. Il razionalismo come movimento filosofico impegnato nella scoperta dei principi primi sui quali si basa la conoscenza umana è un altro esempio di tradizione di pensiero onnicomprensiva. Onnicomprensivo non è sinonimo di irragionevole, ma serve per indicare l'esistenza di aspirazioni che vanno aldilà dell'ambito politico. Una tradizione di pensiero onnicomprensiva risulta irragionevole solo nel caso in cui questa si rifiuti di riconosce o di prendere sul serio l'esistenza di tradizioni di pensiero alternative. Aldilà delle definizioni, il nocciolo del ragionamento di Ralws è che, dato il fatto del pluralismo, una concezione politica della giustizia deve basarsi su argomenti in grado di riscuotere il consenso di tradizioni di pensiero diverse. Una concezione politica della giustizia che si basi su criteri giustificativi forti come quelli che ispirano le tradizioni di pensiero onnicomprensive sarebbe infatti destinata al fallimento14. Consenso universale e consenso per sovrapposizione Il modello contrattualista dal quale Rawls deriva i due principi di giustizia discussi nella Teoria ha come obiettivo un consenso universale. Tale consenso viene raggiunto rimuovendo le influenze arbitrarie e contingenti che viziano l'imparzialità di giudizio dei vari agenti. La persistenza del consenso nel tempo attraverso la scelta di principi che non richiedono all'individuo eccessivi costi e lo sviluppo di sentimenti morali quali il rispetto di se e il senso di giustizia. Con l'introduzione del pluralismo quale dato di fatto e di valore, lo schema concettuale contrattualista appena menzionato non è più utilizzabile. Innanzitutto, tale schema sembra presume l'esistenza di principi di giustizia oggettivi che la posizione originaria può portare alla luce. In aggiunta, l'accento posto sui meccanismi di scelta razionale non tiene nella dovuta considerazione il ruolo delle appartenenze sociali e di come queste influenzano le scelte individuali. Allo scopo di evitare l'accusa di realismo morale, Rawls è ora portato ad enfatizzare la natura construttivistica dei principi di giustizia15. Lo scopo della posizione originaria non è quello portare alla scoperta di principi oggettivi, ma quello di definire il contesto appropriato per scegliere principi sui quali può convergere il consenso delle tradizioni di pensiero ragionevoli. 26 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO Il costruttivismo avocato ha notevoli implicazioni per quanto riguarda il problema della stabilità. "La questione della stabilità assume una duplice forma", dice Rawls, "la prima è se le persone che crescono in un contesto istituzionale giusto [...] finiranno poi per acquisire un senso di giustizia che li porta ad osservare quelle stesse istituzioni. La seconda questione riguarda l'abilità di un contesto politico-culturale democratico che riconosce il valore del pluralismo nell'arrivare ad un consenso per sovrapposizione" (ibid.: 141). La prima questione è quella trattata nella terza parte della Teoria alla quale l'autore rimanda senza ulteriori discussioni. Il consenso per sovrapposizione (overlapping consensus) rappresenta invece la novità teorica principale del libro sulla quale Rawls concentra l'attenzione. Con l'espressione consenso per sovrapposizione Rawls intende due cose. Primo: che i principi di giustizia individuati hanno una rilevanza morale, non sono cioè il prodotto di un compromesso fra posizioni contrastanti o il risultato di un precario equilibrio fra poteri. Secondo: che i principi hanno una fondazione morale multipla, nel senso che coloro che ne riconoscono il valore morale lo fanno sulla base di ragioni diverse. Un esempio di principio morale che gode di un consenso per sovrapposizione è secondo Rawls il principio di tolleranza. Tale principio è infatti non solo riconosciuto da concezioni filosofiche, politiche e religiose diverse, ma ognuna di queste lo giustifica sulla base di criteri del tutto indipendenti. Costruttivismo e consenso per sovrapposizione sono due elementi che danno il senso del cambio di direzione rispetto al lavoro del 1971. Prima di ogni cosa occorre notare che a differenza del modello contrattualista, il consenso per sovrapposizione non ricerca l'unanimità di tutti i cittadini. Ad essere ricercato è l'accordo fra quelle tradizioni di pensiero che riconoscono il fatto del pluralismo e quindi sottoscrivono visioni del mondo ragionevoli. Nel caso specifico, i soggetti che secondo Rawls possono dare vita ad un consenso per sovrapposizione sono quelle concezioni religiose, filosofiche e politiche che si riconoscono nel principio di tolleranza. Visto da questa prospettiva, il liberalismo politico di Rawls ha un ristretto campo d'azione. I principi di giustizia sottoscritti non hanno una natura astorica e un campo d'applicazione universale, ma risultano validi solo per le società liberal-democratiche americane ed europee che condividono la stessa storia. Che questa sia una concessione alle critiche avanzate dai comunitari è ulteriormente confermato dalla discussione sulla stabilità. Non solo non vengono discusse le osservazioni critiche che i teorici della scelta razionale rivolgono alla posizione originaria, ma il principio di differenza finisce chiaramente per perdere ogni rilevanza. In merito a quest'ultimo la posizione di Rawls è che "è lecito aspettarsi un accordo su come realizzare libertà fondamentali, piuttosto che principi di giustizia sociale ed economica" (ibid.: 229-30). Conseguentemente, ora il filosofo americano ritiene che "sebbene un minimo sociale garantito per la soddisfazione di bisogni basilari risulta un requisito [costituzionale] essenziale, quello che ho chiamato il 'principio di differenza' richiede troppo e quindi non lo è" (ibid.: 228-9). In parole povere, se il libro del 1971 parte dalla premessa che una società che si riconosce in alcuni principi di fondo (autonomia individuale) deve garantire determinati diritti economici e sociali ai meno avvantaggiati, l'autore sembra ora impegnato a difendere l'idea stessa che esistano valori di fondo che caratterizzano le società moderne. Che questi valori comuni giustifichino o meno principi distributivi forti è una questione troppo controversa per metterla all'ordine del giorno di una eventuale assemblea costituente. Constitutional essentials Quali principi sostantivi portano ad, o possono essere la base per, un consenso per sovrapposizione? Ralws individua due tipi di principi: quelli che servono a regolare le istituzioni politiche fondamentali della società e quelli che regolano le libertà degli individui. I due tipi costituiscono ciò che l'autore chiama gli elementi essenziali della costituzione. Il primo tipo di principi definisce l'assetto istituzionale necessario per prendere decisioni politiche legittime. I principi debbono regolare i poteri attribuiti agli organi legislativi, esecutivi e giudiziari e gli ambiti dove sono ammesse decisioni a maggioranza. Riguardo alle caratteristiche 27 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO della struttura istituzionale, le indicazioni di Rawls sembrano limitarsi a raccomandare gli elementi tipici del costituzionalismo liberale: divisione dei poteri e sistema di pesi e contrappesi. Secondo Ralws la varietà di forme istituzionali emerse in occidente non pone particolari problemi filosofici e ciascuna di queste può essere ritenuta valida. L'unica raccomandazione sostantiva è che "una volta fatta la scelta è di vitale importanza che riforme costituzionali riguardanti la forma di governo siano dettate da criteri di giustizia politica e benessere pubblico, e non certo dal vantaggio politico che un partito o gruppo dominante possa ricavarne" (ibid.: 228). Per quanto riguarda il secondo tipo di principi sostantivi, questi riguardano i diritti e le libertà individuali che stabiliscono limiti invalicabili al potere delle maggioranze politiche. La lista proposta da Rawls corrisponde in questo caso ai tradizionali diritti liberali: libertà di pensiero e di coscienza; libertà di associazione e di espressione; libertà dirette a garantire l'integrità fisica e mentale delle persone; i diritti formali connessi alla nozione di governo della legge. La novità risiede nel fatto che Rawls, a differenza dei liberali classici (e di quanti come Dworkin avanzano teorie basate sui diritti) non considera la nozione di diritto come primaria. Come l'autore esplicitamente afferma: "la costituzione non è fondata su principi di giustizia, o su diritti fondamentali (o naturali); la sua fondazione si basa sulla concezione della persona e di cooperazione sociale che sono più congeniali alla cultura pubblica di una moderna società democratica" (ibid.: 339). Ancora più distante rispetto ai liberali classici è la posizione di Rawls in merito ai diritti di proprietà: "la natura privata o pubblica della proprietà dei mezzi di produzione non rientra tra le questioni affrontate dai principi di giustizia, ma dipende dalle circostanze storiche e dal contesto storico e istituzionale di ciascuna nazione" (ibid.: 338). La definizione delle libertà individuali e la priorità attribuita loro rispetto la processo democratico necessita comunque di una fondazione adeguata. A provvedere questa fondazione è la posizione originaria che Rawls riprende dalla Teoria ma che modifica così da potere rispondere alle critiche rivolte alla stessa nel corso degli anni. Una differenza cruciale rispetto alla versione di venti anni prima risiede nel fatto che a scegliere dietro il velo di ignoranza non sono più individui razionali, ma degli agenti morali ragionevoli. Una ulteriore differenza come anticipato riguarda il secondo principio di giustizia, il quale non risulta più necessario incorporare nella costituzione. Particolarmente significativo è infine il fatto che secondo Rawls anche il principio di equa opportunità risulta troppo controverso per poterlo integrare nella costituzione. Che ciò risulti sufficiente a riconciliare le diverse anime liberali sembra improbabile. La revisione ha comunque contribuito ad alienare le simpatie di quanti sottoscrivono i principi socialdemocratici sviluppati dal pensiero politico continentale. Significativo al riguardo è il fatto che l'insoddisfazione verso l'analisi etico-normativa rawlsiana ha portato alla rivalutazione del pensiero repubblicano. Una tradizione filosofico-politica che concepisce in modo diverso sia l'idea di giustificazione, sia il ruolo da attribuire alle libertà civili rispetto alla partecipazione democratica (vedi capitolo conclusivo). Note 1 Recentemente sono usciti altri quattro volumi dell'autore. Il primo (1999a) raccoglie tutti gli articoli pubblicati dal 1950 al 1998 con la sola esclusione dei saggi che compongono la parte terza di Political Liberalism e alcune recensioni di minore importanza. Il secondo (1999b) rappresenta l'estensione del modello contrattualista alle questioni di giustizia internazionale. Il terzo (2000) raccoglie le lezioni di filosofia morale tenute durante l'insegnamento alla Harvard University. L'ultimo (2001) rappresenta una revisione di (1971) il cui dattiloscritto era circolato agli inizi degli anni '90 ma era poi stato accantonato per dare spazio a (1993). A questi va aggiunto il lungo articolo di risposta alle critiche avanzate da Habermas (1995) il quale è stato però inserito nella versione economica di Political Liberalism. 2 Vale la pena ricordare che l'equilibrio riflessivo è anche il concetto teorico più vecchio, le cui origini affondano nella tesi di dottorato di Rawls. Un estratto della stessa è ristampato in (1999a, cap. 1). 3 Va comunque notato che a seguito delle critiche avanzate dal filosofo del diritto H.L.A. Hart (1975), 28 COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO Rawls ha successivamente rivisto l'espressione del primo principio il quale ora recita: "ogni persona ha un eguale diritto ad un adeguato schema di diritti fondamentali e di libertà, e questo deve essere compatibile con un simile schema per tutti" (1993: 291). 4 L'autore chiarisce che si tratta di "un equilibrio perché, alla fine, i nostri principi coincidono con nostri giudizi; è riflessivo poiché sappiamo a quali principi si conformano i nostri giudizi, e conosciamo le premesse della loro derivazione" (Rawls, 1982: 35). Cfr. inoltre Maffettone (1982: 120, 164). 5 La distinzione fra un equilibrio riflessivo allargato e uno ristretto si deve a Norman Daniels (1979) a cui rimandiamo per una discussione più approfondita. 6 Dalla discussione rimangono escluse le critiche femministe, le quali hanno avuto poca influenza sulle revisioni operate da Rawls nel corso degli anni '70 e '80. Per queste vedi i saggi di Galeotti (1996), Held (1989); Moller Okin (1989); Nussbaum (1998) Pateman (1988). 7 I maggiori saggi di Harsanyi sono ora raccolti in (1989). 8 Un discussione più ampia sul problema della stabilità del contratto sociale ex post è contenuta in Sacconi (1991). 9 Come accennato nel capitolo introduttivo, Nozick ritiene comunque che nei casi in cui i titoli di proprietà sono controversi, e non è possibile rettificare le acquisizioni illegittime, un criterio distributivo astorico del tipo proposto da Rawls potrebbe tornare utile. Cfr. (1974: 244-5). 10 Taylor si riferisce a queste come questioni di natura apologetica (advocacy) e ontologica, ma il significato che l'autore attribuisce al termine ontologico ha più a che fare con l'epistemologia che con l'ontologia. 11 Per la posizione aristotelica vedi Macintyre (1984, 1988) mentre per l'approccio marxista vedi Peffer (1990). Per quanto riguarda i comunitari moderati i maggiori esponenti sono: Sandel (1982), Taylor (1995), Williams (1985) e Walzer (1983). Il lettore italiano trova i testi più significativi di questi autori nel volume edito da Alessandro Ferrara (1992). 12 Il modello proposto da Rawls non rientra, secondo noi, fra le teorie atomiste sia per l'enfasi posta sulla natura sociale dei talenti individuali, sia perché la giustizia come equità tiene conto delle classi sociali e dei rapporti relativi. Sulla rilevanza degli elementi comunitari contenuti nella Teoria cfr. Alejandro (1993). 13 Vedi (1993: xvii, nota 6). Una prima risposta ai comunitari era stata comunque avanzata in (1985), ora in (1999a, cap. 18). 14 Se l'opera del 1971 viene vista come intenta a derivare principi morali oggettivi e universali dalla scelta ponderata di agenti razionali, anche questa, secondo Rawls, sarebbe da etichettare come onnicomprensiva. 15 La nozione di costruttivismo è derivata da Kant. Rawls discute il significato che lui attribuisce al termine e le differenze con la concezione di Kant in un saggio del 1989 ora ripubblicato in (1999a, cap. 23). Vedi in particolare pp. 510-16. 29 II Razionalismo hobbesiano e progetto di riconciliazione La riproposizione del contratto sociale da parte di John Rawls (1971) ha richiamato l'attenzione dei filosofi analitici sull'opera di Hobbes. Come aveva già fatto lo stesso Rawls con Kant, questa attenzione ha assunto la forma di una riformulazione della struttura analitica della teoria hobbesiana attraverso l'uso di sofisticati strumenti presi a prestito dalla teoria dei giochi. Tale riformulazione, vale la pena ricordarlo, non è neutrale rispetto alle posizioni interne al dibattito storiografico sul filosofo inglese ed ha generato una varietà di modelli neo-hobbesiani a volte davvero audaci, quando non totalmente estranei al testo hobbesiano. Questi risultano inoltre molto eterogenei e non sono sempre facilmente inquadrabili all'interno di un progetto di ricerca unitario1. L'interesse per queste letture modellizzate di Hobbes è dato da almeno tre ragioni. Prima di tutto l'approccio neo-hobbesiano rappresenta un esempio significativo di come è evoluta la filosofia analitica nel contesto dell'etica normativa. In secondo luogo i vari modelli neo-hobbesiani sviluppano in modo sistematico e rigoroso l'ideale moderno di etica razionale, un'etica, cioè, capace di riconciliare moralità e autointeresse. Infine i vari autori hobbesiani avanzano la difesa di principi sostantivi alternativi a quelli rawlsiani sulla base di una nozione di stabilità la cui rilevanza si deve proprio al filosofo di Harvard. L'oggetto di studio di questo capitolo prende forma con la contemporanea pubblicazione di tre libri avvenuta nel 1986. Il primo, che è anche il più rispettoso del testo hobbesiano, come anche il più significativo, elegante ed accurato tentativo di riformulare la teoria politica di Hobbes, si deve a Jean Hampton. Il secondo è quello di Gregory Kavka: un lavoro che, nelle intenzioni dello stesso autore, intende elaborare un ibrido tra le teorie di Hobbes e Rawls. Il terzo libro è quello di David Gauthier, un autore il cui obiettivo è quello di arrivare alla definizione di una metaetica in grado di derivare principi morali partendo da motivazioni puramente prudenziali. Aldilà delle differenze più o meno sostanziali fra questi tre esponenti del revival neo-hobbesiano, simile è l'approccio metodologico da essi seguito. La similarità non riguarda solo la sensibilità verso le tecniche microeconomiche, ma la preminenza attribuita a Leviathan e il modo in cui quest'opera è stata dissezionata e ricomposta. La riformulazione della teoria hobbesiana non rappresenta un esercizio fine a se stesso; lo spirito di fondo che anima questi studiosi è quello di valutare la consistenza logico-analitica dell'apparato concettuale hobbesiano e di procedere alla sua ricomposizione dopo averlo purificato da presunte contraddizioni interne. Tradizionalmente alla teoria hobbesiana sono state avanzate due principali critiche. La prima prende le mosse da Hume e mette in dubbio la possibilità stessa di un contratto sociale. Data la natura volontaristica degli obblighi contrattuali, qualsiasi tipo di accordo fra individui razionali e autointeressati risulta o impossibile o del tutto vuoto. La critica è stata utilizzata sia da coloro che, come i comunitari discussi nel precedente capitolo, ritengono impossibile stabilire un ordine sociale e politico duraturo sulla base di una epistemologia atomistica, sia da coloro che intendono giustificare l'ordine sociale liberale su basi consuetudinarie piuttosto che contrattuali (le teorie humeane discusse nel prossimo capitolo). Le due critiche hanno stimolato due tipi di ricerche alternative. La prima, portata avanti dagli autori menzionati sopra, riguarda la possibilità di elaborare una base epistemologica solida per il contrattualismo. Nel secondo caso l'indagine riguarda invece sia la rilevanza stessa delle critiche epistemologiche del contratto, sia la correttezza dell'interpretazione del progetto hobbesiano avanzata dai neohobbesiani. In questo capitolo ci limitiamo a dare una presentazione delle soluzioni RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE neohobbesiane al problema epistemologico che affligge la teoria contrattualista di Hobbes. Il secondo tipo di critica considera invece la peculiare soluzione normativa proposta da Hobbes al problema dell'ordine: la scelta di un sovrano assoluto. Malgrado condivida con Hobbes le stesse premesse di fondo (individualismo metodologico e soggettivismo morale), la tradizione liberale ha da sempre ritenuto la soluzione hobbesiana inaccettabile. Conseguentemente ha cercato di dimostrare l'implausibilità del ragionamento che porta individui razionali guidati da motivazioni puramente prudenziali ad accordarsi nell'istituire un'autorità avente poteri illimitati di vita e morte sui propri sudditi. Assunta inizialmente da Locke, tale posizione teorica ha di recente trovato una riformulazione nel lavoro di Jean Hampton la quale ha formalizzato le varie argomentazioni liberali nella forma di un paradosso dell'autorità assoluta. Nel discutere il paradosso proposto da Hampton, proveremo a dimostrare come non esista una contraddizione di base fra le motivazioni prudenziali che guidano gli agenti hobbesiani nel sottoscrivere il contratto sociale e la scelta di un'autorità cosiffatta. La tesi può essere utilizzata come base per riconciliare le preoccupazioni liberali riguardanti i diritti dei singoli e le esigenze politiche concernenti la produzione di beni pubblici. Alternativamente, l'analisi può essere vista come una ricostruzione analitica del processo che ha portato all'evoluzione dei contemporanei stati costituzionali: processo, questo, che può essere descritto come il simultaneo emergere di autorità politiche assolute e di sistemi di garanzia individuale per i cittadini. IL CONTRATTUALISMO HOBBESIANO COME MODELLO EMERGENZIALE L'approccio neo-hobbesiano parte dal presupposto secondo cui Hobbes sottoscrive una prospettiva individualista radicale che intende spiegare l'emergere della società civile a partire dalle azioni e interazioni di agenti razionali e autointeressati. Come afferma Hampton, "Hobbes credeva che il Leviatano doveva essere un libro il cui obiettivo iniziale era quello di ridurre gli esseri umani a organismi con una data struttura fisiologica, per poi definire determinati desideri e passioni che gli uomini possiedono in modo intrinseco e come risultato delle proprie funzioni fisiologiche, quindi usare questi desideri per spiegare come individui siffatti possono dare vita alla società" (1986: 13). Gli elementi che compongono la struttura analitica del modello hobbesiano sono i seguenti: l'esistenza di individui con una struttura di interessi e capacità razionali presociali; la definizione degli inconvenienti che l'interazione strategica in un contesto presociale determina; il meccanismo che porta alla sottoscrizione del contratto che dà vita alla società civile. In questo contesto, il successo del modello hobbesiano dipende dalla correttezza del processo logico-deduttivo che porta individui separati all'unione sociale quale soluzione ai problemi di azione collettiva prodotti dall'interazione decentrata. A partire da Hume, la validità della nozione di contratto come base per l'obbligo politico è stata l'oggetto di feroci critiche. Da un punto di vista storico Hume dimostra come non esistano dati che possano provare l'esistenza di alcun contratto sulla cui base giustificare o meno a legittimità di una autorità. Da un punto di vista logico, Hume è il primo a sostenere che la nozione di contratto comporta una logica argomentativa circolare. Se l'interazione decentrata di agenti razionali produce problemi di azione collettiva, non esiste per Hume possibilità alcuna di evitare ciò attraverso la sottoscrizione di un contratto che stabilisce una autorità comune. L'osservanza del contratto implica infatti la risoluzione di un problema di azione collettiva del tutto simile a quello che il contratto, e l'autorità che questo istituisce, è chiamato a risolvere. In parole povere, Hume chiarisce che se per avere un sovrano si deve sottoscrive un contratto, l'effettività del contratto presuppone l'esistenza di una autorità che faccia rispettare lo stesso. A questo tipo di critica i contrattualisti hanno spesso replicato affermando che l'atto stesso del promettere implica l'assunzione di un obbligo ad obbedire. Per Hume questo tipo di risposta equivale a "ragionare in circolo" (1740, parte II, sez. I). Sarebbe a dire, assumere che un obbligo possa fungere sia da explanans (la cosa da spiegare) sia da explanandum (l'elemento che spiega)2. 31 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE L'obiettivo dei neo-hobbesiani è quello di ribaltare la ferrea logica delle argomentazioni humeane e dimostrare come sia possibile stabilire forme di cooperazione sociale su basi puramente volontaristiche. Nel caso di Gauthier queste forme di cooperazione spontanea sono utilizzate come base per lo sviluppo di un'etica razionale, mentre nel caso della Hampton esse servono per giustificare un obbligo politico limitato. L'obiettivo comune dei tre autori è comunque quello di elaborare un modello neo-hobbesiano alternativo al modello kantiano proposto da Rawls. Un modello, cioè, che connette in modo forte analisi epistemologica e prescrizioni morali e quindi più coerente da un punto di vista deduttivo e meno dipendente dalle intuizioni morali dei singoli. Individualismo radicale Gli individui hobbesiani sono fonti di azione autonoma. Hobbes distingue due tipi di azioni: le azioni che sono dipendenti dalla volontà del singolo e quelle involontarie. Le prime dipendono dalla ragione e servono per definire i mezzi più appropriati per raggiungere determinati fini (razionalità strumentale). Le azioni involontarie dipendono invece da passioni e appetiti di natura biologica che definiscono i fini dell'individuo stesso. Anticipando Hume di circa un secolo, Hobbes afferma che la ragione è schiava delle passioni. Le passioni che muovono gli uomini ad agire sono innumerevoli e spesso in conflitto fra loro; al di sopra di tutte rimane però l'istinto di sopravvivenza, il fine ultimo di ogni creatura. Quali organismi, gli individui sono "biologicamente portati a perseguire le loro passioni (cioè i piaceri) in misura crescente. Se determinati oggetti soddisfano questo impulso emerge allora il desiderio per tali oggetti. [...] il perseguimento delle passioni è programmato geneticamente ed è questo che produce i desideri, ma non esiste un desiderio alla soddisfazione delle passioni" (Hampton, 1986: 18). Per Hobbes i desideri possono essere a loro volta di due tipi: intrinseci ed interattivi. I desideri intrinseci sono connessi con i bisogni biologici, mentre quelli interattivi sorgono a causa e come risultato dell'interazione sociale. Entrambi i tipi hanno comunque la stessa natura egoistica: "ogni individuo ricerca la propria sopravvivenza al di sopra di qualsiasi altra cosa e non la sopravvivenza di qualsiasi individuo" (ibid.: 15). Nell'opera di Hobbes è comunque possibile riscontrare almeno tre versioni concorrenti di egoismo che i neo-hobbesiani distinguono accuratamente. La prima afferma che tutte le azioni degli individui sono causate da desideri personali; la seconda afferma invece che tutte le azioni individuali sono causate da desideri personali il cui contenuto è direttamente connesso con l'agente stesso; l'ultimo sostiene infine che le azioni individuali sono non soltanto connesse con desideri relativi all'agente, ma hanno un contenuto esclusivamente egoistico determinato da meccanismi fisiologici3. Dei tre solo l'ultimo attribuisce una relazione causale diretta ai desideri egoistici. I primi due sono egoistici solo in quanto appartengono all'agente, ma non nel contenuto; è infatti possibile includere desideri di tipo altruistico fra le cose che un individuo persegue nel soddisfare desideri personali. Quale delle tre forme di egoismo è utilizzata da Hobbes nel Leviatano è una questione ancora controversa. Kavka, per esempio, sostiene che "Hobbes impiega la versione che più gli torna comodo in merito alle tematiche che tratta nel corso del lavoro" (1986: 45). Dopo una lunga analisi del testo hobbesiano l'autore infatti conclude che: "in generale il tipo di egoismo che caratterizza il Leviatano dipende dal peso relativo che attribuiamo a differenti criteri di classificazione" (ibid.: 51). I vari autori sono comunque d'accordo nel ritenere che la versione più appropriata è quella che spiega in modo effettivo il conflitto pervasivo e generalizzato esistente nello stato di natura. A tale fine risulta necessario che Hobbes si limiti a sottoscrivere un 'egoismo predominante', il quale stabilisce che ogni qual volta motivazioni autointeressate e disinteressate entrano in conflitto l'individuo attribuisce priorità alle prime sulle seconde. In breve, gli agenti hobbesiani sono caratterizzati da un generale egoismo che li porta ad agire per soddisfare le loro passioni, desideri e appetiti; tale natura egoistica ha una base biologica a cui si sfugge solo con la morte. Una seconda caratteristica degli agenti hobbesiani riguarda l'assunzione di razionalità. 32 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE La concezione di razionalità attribuita agli agenti è del tipo utilizzato in economia: l'abilità di scegliere mezzi appropriati per ottenere determinati fini e la tendenza a massimizzare i benefici attesi. La massimizzazione dei benefici attesi viene calcolata sulla base dell'utilità gli agenti pensano di potere ottenere per ogni singola azione. Ciò significa che gli individui sono in grado di utilizzare distribuzioni di probabilità per eventi futuri, siano queste probabilità oggettive o puramente soggettive. A differenza di quanto stabilito da Rawls, lo stato di natura hobbesiano non solo non pone limiti sul tipo di informazione disponibile agli agenti, ma richiede una sofisticata abilità individuale nell'acquisire informazioni e nell'utilizzare il calcolo delle probabilità. L'uso delle probabilità è inoltre necessario per calcolare il rischio insito nello scegliere fra corsi d'azione alternative e in particolare fra corsi d'azione di breve e di lungo periodo. In merito a questo ultimo punto, la Hampton ritiene che i soggetti hobbesiani si configurino come massimizzatori 'globali' piuttosto che come massimizzatori 'locali': hanno cioè un orizzonte temporale di lungo periodo. Secondo Kavka, invece, un'assunzione di questo tipo sarebbe controproduttiva perché non produrrebbe abbastanza conflitto per giustificare la scelta di un sovrano assoluto. La soluzione proposta da Kavka consiste nell'assumere uno stato di natura popolato da almeno tre tipi di agenti: i dominatori, che cercano di sfruttare tutto e tutti; i moderati, che sono disposti a collaborare solo su basi reciproche; i paurosi, che sono disposti a collaborare incondizionatamente. Lo stato di natura Hobbes descrive lo stato di natura come una situazione in cui non esistono né istituzioni politiche né un'autorità comune: non esiste quindi un potere legislativo centrale, un sistema giuridico unitario o corpi di polizia che fanno applicare la legge. Le dispute che insorgono in questo contesto sono lasciate alla discrezionalità dei singoli, al potere cioè di imporre la propria volontà attraverso la forza fisica o l'astuzia. Hobbes chiarisce che lo stato di natura descritto non è storico, non si riferisce cioè ad una condizione primordiale dell'umanità, ma rappresenta una condizione in cui gli individui si trovano spesse volte ad interagire. Gli esempi principali che l'autore cita sono due: il sistema di relazioni internazionali e le situazioni di guerra civile. A queste è possibile aggiungere i mercati illegali e tutti quei contesti in cui l'interazione assume la forma di giochi non-cooperativi. Hobbes spiega inoltre che l'immagine dello stato di natura popolato da individui isolati è un costrutto analitico atto a semplificare la discussione e che una rappresentazione più realistica implicherebbe gruppi piuttosto che individui4. Fatte queste dovute precisazioni, la caratteristica fondamentale dello stato di natura descritto da Hobbes è l'esistenza di un conflitto permanente e generalizzato. Nelle parole dell'autore: "appare chiaro che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo" (Hobbes, 1651, cap. 13: 62)5. Le ragioni che secondo Hobbes portano al conflitto sono tre: competizione, diffidenza e gloria. Come lo stesso autore spiega: "la prima porta gli uomini ad aggredire per trarne un vantaggio; la seconda per la loro sicurezza; la terza per la loro reputazione. Nel primo caso ricorrono alla violenza per rendersi padroni della persona di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli e del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli. Nel terzo caso, per inezie come ad esempio per una parola, un sorriso, una divergenza di opinioni e qualsiasi segno di disistima, direttamente rivolto alla loro persona o a questa di riflesso, essendo indirizzato ai loro familiari, ai loro amici, alla loro nazione, alla loro professione o al loro nome" (ibid.). Uno dei maggiori contributi dei neo-hobbesiani è stato quello di chiarire la dinamica che porta allo stato di guerra di tutti contro tutti descritto da Hobbes. Come nel caso dell'egoismo motivazionale discusso prima, il filosofo inglese sembra infatti avanzare diverse spiegazioni, alcune delle quali sono inconsistenti con le assunzioni iniziali, mentre altre sono incompatibili con la conclusione a cui si vuole arrivare. In breve, i neo-hobbesiani sostengono, primo che il conflitto deve emergere da considerazioni strategiche e, secondo, che l'intensità dello stesso deve potere spiegare la scelta contrattuale come il risultato di un'analisi costi-benefici. 33 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE Iniziamo con la dinamica che porta al conflitto: quali condizioni spiegano la guerra di tutti contro tutti? Secondo la Hampton, "nel Leviatano sono presenti due spiegazioni riguardanti le cause della guerra, e queste sono tra di loro inconsistenti" (1986: 58). La prima spiegazione si basa sull'esistenza di passioni e desideri intrinseci (l'istinto di sopravvivenza), mentre la seconda fa appello al ruolo giocato da passioni e desideri interazionali (la sete di gloria e di potere). Nel primo caso è la struttura biologica stessa degli individui che porta al conflitto. Individui isolati e acquisitivi cercano di soddisfare i propri bisogni attraverso l'appropriazione di quante più risorse possibili, nel fare ciò vengono a scontrarsi con altri individui simili e da questo origina il conflitto. Per i neo-hobbesiani un resoconto simile non è in grado di spiegare il tipo di conflitto generalizzato e permanente voluto da Hobbes. Nella peggiore delle situazioni si arriva soltanto ad un conflitto sporadico e di bassa intensità. Lo stato di natura che emerge da questo resoconto è quello descritto da Rousseau nel discorso sull'ineguaglianza (1755), la cui logica interna è quella descritta nel gioco della caccia al cervo riportato in figura 2.16. Agente A Coopera 1;1 2;4 Coopera Defeziona Agente B Defeziona 4;2 3;3 Figura 2.1. Gioco della caccia al cervo Nella matrice i numeri rappresentano l'ordine di preferenza degli agenti: 1 sta per la soluzione maggiormente preferita, 2 per la seconda, 3 per la terza, e così via. La combinazione A cooperaB coopera (CC), per esempio, è la scelta al primo posto nelle preferenze di entrambi gli agenti; la combinazione A coopera-B defezione (CD) è al secondo posto nelle preferenze di B ma all'ultimo nelle preferenze di A. Il gioco non descrive particolari problemi di azione collettiva dato che per entrambi gli agenti la strategia cooperativa rappresenta il corso d'azione favorito. Nel linguaggio della teoria dei giochi la combinazione CC rappresenta un equilibrio di Nash: una combinazione strategica che nessuno dei giocatori può cambiare unilateralmente senza danneggiare la propria situazione. Il gioco si rende interessante quando il comportamento di uno degli agenti risulta incerto. Supponiamo, con riferimento all'esempio di Rousseau, che A e B si accordano per dare la caccia al cervo ma A non si fida di B e crede che nel caso B veda una lepre questi finirà per corrergli dietro e abbandonare la caccia. Nel valutare i vari corsi d'azione A sceglierà di cooperare con B solo se la probabilità che anche B cooperi è alta; nel caso opposto A ha convenienza a defezionare per primo. Così facendo A evita di finire nella situazione che preferisce di meno CD. Nel caso di incertezza defezionare è per A una strategia di maximin, quale quella discussa da Rawls. Una interazione del tipo descritto non produce però lo stato di natura descritto da Hobbes e non potrebbe essere utile per spiegare la nascita del Leviatano. Secondo i pensatori neo-hobbesiani è a questo punto che Hobbes introduce i desideri interazionali quali l'orgoglio, la gloria, la sete di potere, etc. Il ricorso a questi desideri è visto però come del tutto deleterio. Come già aveva notato lo stesso Rousseau (cfr. 1755, nota 15), questi sono desideri di carattere sociale che non possono esistere nello stato di natura. Inoltre, la loro introduzione renderebbe il conflitto tendenzialmente irrazionale e renderebbe perciò impossibile l'analisi costi-benefici necessaria per dare vita al contratto sociale. I neo-hobbesiani ritengono inoltre tale mossa superflua in quanto pensano che sia possibile produrre il tipo e grado di conflitto necessario senza fare ricorso alcuno ai desideri interazionali. Per loro esiste una terza e più sofisticata versione della dinamica che genera il conflitto di tutti contro tutti, suggerita dallo stesso Hobbes, e che si basa sull'anticipo razionale. Nella prefazione al De Cive, Hobbes afferma infatti che le cause di conflitto fra gli uomini non sono dovute al fatto "che gli uomini sono cattivi per natura [...] se è vero che i malvagi sono pochi rispetto ai giusti, il fatto 34 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE stesso che non riusciamo a distinguerli ci impone di essere circospetti, di sospettare, di anticipare, di soggiogare, di autodifenderci qualsiasi possa essere il danno arrecato al più onesto e al più giusto" (1647). Il conflitto che caratterizza lo stato di natura di Hobbes deriva dal fatto che l'interazione sociale tra dominatori, moderati e paurosi avviene in condizione di anonimato. In un contesto dove non esiste la possibilità di conoscere l'identità dell'agente con il quale si interagisce colpire per primo è l'unica strategia ottimale. La logica di anticipazione è catturata dal 'dilemma del prigioniero' descritto in figura 2.27. Agente A Coopera 2;2 1;4 Coopera Defeziona Agente B Defeziona 4;1 3;3 Figura 2.2. Dilemma del prigioniero Il dilemma del prigioniero è un gioco non cooperativo dove ciò che è ottimo per gli agenti presi collettivamente non corrisponde a ciò che è ottimo per gli individui presi singolarmente. Come si vede dalla matrice, la strategia cooperativa C porta ad un equilibrio (CC) che rappresenta solo una scelta individuale secondaria. Individui mossi da una razionalità strumentale porrebbero al primo posto la combinazione strategica DC, che corrisponde alla situazione in cui un agente gode dei frutti della cooperazione senza doverne pagare i costi. L'interesse per il gioco origina dal fatto che se gli agenti optano per la strategia opportunistica D finiscono immancabilmente per produrre l'equilibrio strategico DD in cui entrambi defezionano. DD è però un equilibrio subottimale rispetto a quanto può assicurare l'equilibrio cooperativo CC. Il dilemma è ancora più grave se si pensa che la strategia D rappresenta inoltre un maximin. Scegliendo di defezionare un individuo evita infatti di essere sfruttato e ha la possibilità sfruttare coloro che, per scelta o per sbaglio, cooperano. Il gioco può essere visto come una rappresentazione adeguata dell'interazione strategica che ha luogo nello stato di natura hobbesiano. In un contesto dove dominatori, moderati e paurosi si trovano ad interagire, ma non esiste una autorità centrale in grado di assicurare il rispetto degli obblighi contrattuali assunti, o certezza circa l'identità e le reali intenzioni degli agenti con cui si interagisce di volta in volta, l'unica strategia razionale è quella dell'anticipazione: del colpire prima di essere colpiti8. La questione da indagare a questo punto è la seguente: hanno agenti razionali del tipo descritto le risorse necessarie per sottoscrivere un contratto effettivamente vincolante che ponga fine al clima di reciproca sfiducia e al conflitto che caratterizza lo stato di natura? Contratto, società civile e sovrano Nel rispondere alla domanda i pensatori neo-hobbesiani rompono anche i tenui legami con il testo di Hobbes e si lanciano alla ricerca di soluzioni innovative. Al tempo stesso sviluppano però percorsi di ricerca tra loro alternativi, se non incompatibili. David Gauthier cerca di arrivare ad una soluzione endogena al problema cooperativo posto dal dilemma del prigioniero da potere poi utilizzare come base per una metaetica strumentale pura. Vale la pena ricordare che la metaetica perseguita da Gauthier è incompatibile con la teoria politica hobbesiana. In caso di successo, infatti, tale metaetica giustificherebbe un ordine politico libertario. Kavka e Hampton avanzano una soluzione del dilemma del prigioniero diversa da quella suggerita da Gauthier e più in linea con la teoria politica di Hobbes. Anche in questo caso però i due autori seguono percorsi normativi divergenti. Kavka ritiene il contrattualismo hobbesiano interessante solo come argomento contro la possibilità di un ordine anarchico, e quindi contro i modelli 35 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE libertari alla Gauthier, e ben presto abbandona Hobbes per seguire una teoria normativa di tipo rawlsiano. La Hampton esplora invece possibili soluzioni al dilemma del prigioniero per arrivare poi alla giustificazione di una sovranità limitata di stampo liberale, la quale verrà discussa nella seconda parte del capitolo. Soluzione di Gauthier. David Gauthier è stato fra i primi ad identificare lo stato di natura hobbesiano con il dilemma del prigioniero. L'interpretazione del dilemma del prigioniero che per il filosofo canadese più si adatta al testo hobbesiano è quella di un gioco simmetrico, anonimo e che si esaurisce in un singolo round. Le tre condizioni impediscono l'attribuzione e il riconoscimento di identità individuali e rendono quindi impossibile utilizzare strategie condizionali del tipo 'coopero se cooperi, defeziono se defezioni'. Il risultato è così quello di rendere la strategia D l'unico corso d'azione razionale. Secondo Gauthier il risultato può essere evitato se si riconosce che una strategia di 'massimizzazione vincolata' rappresenta un'alternativa superiore alla defezione. Il ragionamento di Gauthier si divide in due parti: la prima riguarda la giustificazione della superiore razionalità della massimizzazione vincolata rispetto a quella diretta; la seconda riguarda invece l'applicabilità della strategia stessa. La logica sottostante il ragionamento di Gauthier a favore della massimizzazione vincolata riprende le argomentazioni di Hobbes contro lo stolto9. Applicata al dilemma del prigioniero tale logica richiede di concentrare l'attenzione non sulla razionalità delle singole strategie ma sugli equilibri che da queste possono derivare. La combinazione strategica CC è da questa prospettiva la sola a soddisfare criteri di razionalità strumentale; la strategia D soddisfa criteri di razionalità strumentale solo nel caso in cui una fetta consistente degli agenti è disposta a farsi sfruttare. La massimizzazione vincolata evita questo tipo di logica perversa. Massimizzatori vincolati cooperano con quanti sono disposti a cooperare; defezionano invece quando si trovano al cospetto di opportunisti. In una popolazione composta da opportunisti (D), massimizzatori vincolati (M) e cooperatori universali (C), ciò comporta che i primi possono contare solo sullo sfruttamento di C ma non trovano guadagno alcuno quando si confrontano con altri D o con M. Giocatori M per altro verso trovano un bacino d'utenza disposto a cooperare che include sia la popolazione di M sia quella di C. Ciò significa che i pay-offs dei giocatori M sono in media superiori sia a quelli a cui possono aspirare i giocatori D e C. Il ragionamento di Gauthier solleva non pochi dubbi. L'idea che agenti razionali debbano concentrare l'attenzione su combinazioni strategiche piuttosto che su strategie è inconsistente con l'individualismo metodologico adottato dall'autore. Nel dilemma del prigioniero gli agenti sono non solo indipendenti, ma ragionano isolatamente l'uno dall'altro. Il valutare la razionalità di combinazioni strategiche implica l'assumere un punto di vista esterno al gioco stesso: il punto di vista di un osservatore. Ciò equivale all'uso di un tipo di razionalità collettiva espressamente proibita dalla teoria dei giochi. Il secondo problema riguarda la praticabilità della massimizzazione vincolata. In questo caso il punto debole riguarda l'abilità dei giocatori M nel distinguere fra giocatori dello stesso tipo e del tipo D e quindi nel riuscire effettivamente a massimizzare le opportunità cooperative che la strategia garantisce in teoria. L'anonimità che caratterizza il gioco impedisce però di distinguere tra M e D e rende le interazioni tra giocatori M equivalenti a quelle tra giocatori D. Se questo è il caso, allora la strategia D torna ad essere l'unico corso d'azione razionale. Gauthier cerca di evitare il problema introducendo l'idea di 'predisposizione' (derivata da Aristotele). Siccome le varie strategie rappresentano predisposizioni ad agire in un certo modo, D, M e C possono essere paragonate a qualità comportamentali che rendono gli agenti 'traslucidi' e quindi identificabili con un certo grado di certezza. Si tratta però di una mossa estremamente controversa, una sorta di deus ex machina necessaria per fare uscire l'autore da un vicolo cieco. Per come impostato da Gauthier, il dilemma del prigioniero ha un solo corso d'azione razionale: la defezione. Ironicamente, le acrobazie logiche escogitate dall'autore per convincerci del contrario ricordano i tentativi di Hobbes di dimostrare ai matematici dell'epoca come fosse possibile fare quadrare il cerchio. Soluzione di Hampton e Kavka. L'approccio seguito dai due autori differisce da quello di Gauthier in due punti cruciali. Il primo riguarda la scomposizione del contratto in due fasi 36 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE aventi una logica strategica diversa da quella che l'autore canadese attribuisce ad esso: la prima fase corrisponde all'elezione del sovrano, mentre la seconda riguarda il processo di attribuzione dei poteri. La prima fase assume la forma di un gioco di coordinazione del tipo riportato in figura 2.3. Agente A Agente B candidato1 candidato2 1;2 3;3 3;3 2;1 candidato1 candidato2 Figura 2.3: Guerra dei sessi Nel gioco il problema con cui si confrontano gli agenti è quello di coordinare i propri sforzi. Entrambi sono d'accordo nel ritenere la società civile superiore allo stato di natura. L'unico elemento sul quale sono in disaccordo è il candidato alla carica di sovrano: mentre A preferisce il candidato 1, B è incline verso il candidato 2. E' importante osservare però come tale divergenza sia di minore importanza rispetto all'eventualità di non riuscire a raggiungere un qualsiasi tipo di accordo e perpetuare lo stato di natura. In linguaggio tecnico, la caratteristica saliente del gioco è quella di avere due equilibri di Nash: 1;2 e 2;1. Ciò cambia la natura del problema che gli agenti devono risolvere. "Nel dilemma del prigioniero il problema è quello di mantenere un accordo che risolve il dilemma [cooperativo]; nel gioco della guerra dei sessi il problema consiste nel raggiungere un accordo qualsiasi" (Hampton, 1986: 152). Per gli autori questo non rappresenta però un problema insolubile. Kavka, per esempio, ritiene che "la soluzione avanzata da Hobbes circa un criterio selettivo a due turni (l'accordarsi di sostenere unanimemente colui che riceve la maggioranza dei voti e poi procedere con l'elezione) rappresenta una strategia estremamente interessante per risolvere problemi di coordinazione simili" (1986: 185). La Hampton dopo una lunga e laboriosa discussione propone un sistema di multi-ballottagio sostanzialmente simile a quello proposto inizialmente dallo stesso Hobbes10. Se l'elezione di un sovrano risulta semplice, lo stesso non si può dire per quanto riguarda il processo di attribuzione dei poteri. Dato che il processo implica dei costi, l'interazione torna ad essere conflittuale. Gli autori ritengono comunque che anche in questo caso la logica sottostante il conflitto non è del tipo descritto dal dilemma del prigioniero, ma risulta sostanzialmente simile ad un gioco del tipo guerra dei sessi a cui prendono parte un numero di giocatori superiore a due. Come afferma la Hampton: "commetteremmo un serio errore se pensassimo che solo perché gli individui si confrontano con un problema di free-rider, questi si trovano di fronte ad un problema la cui struttura è quella di un dilemma del prigioniero" (1986: 177). In aggiunta, la Hampton crede che l'obiettivo ricercato dai giocatori, l'attribuzione di poteri effettivi al sovrano, rappresenta un bene pubblico a gradino; sarebbe a dire un bene discreto, la cui esistenza richiede una soglia contributiva minima e che non può essere rappresentato per mezzo di funzioni continue. Per esempio un gruppo composto da 10 persone che si confronta col problema di produrre un bene pubblico X a gradino il cui numero minimo è quattro necessita di almeno quattro individui disposti a contribuire altrimenti il bene non può essere prodotto affatto. In un contesto hobbesiano in cui gli individui vogliono i benefici garantiti dalla società civile ma sono portati a minimizzare i costi personali necessari a realizzarla il ragionamento seguito dagli agenti è del seguente tipo: • • • ogni individuo valuta la probabilità di raggiungere il numero minimo di contribuzioni se arriva alla conclusione che tale eventualità è altamente probabile, allora avrà un incentivo a fare l'opportunista e a defezionare nel caso arriva invece alla conclusione che tale eventualità è altamente improbabile, allora 37 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE avrà un incentivo a cooperare Il risultato finale è quello di convergere su un equilibrio vicino alla soglia di contribuzione minima. Al di sopra di questa soglia il bene pubblico assume la forma di un bene incrementale che giustifica l'uso di strategie opportuniste e quindi impedisce di produrre quantità del bene superiori a quelle minime. Il risultato è comunque sufficiente a garantire al sovrano le risorse necessarie per imporre il suo potere effettivamente: stabilire un nuovo sistema di incentivi individuali e porre fine allo stato di natura. La soluzione proposta è stata criticata da Gauthier. Per il filosofo canadese, "Il sovrano non è in grado di motivare i membri di un piccolo gruppo a contribuire volontariamente alla produzione di beni pubblici non esclusivi (sebbene a gradino) senza dare a questi ulteriori incentivi sostanziali. Inoltre questi beni non sono sufficienti per garantire pace e sicurezza. Hobbes non ha una soluzione generale per il problema del free-rider che condiziona l'abilità del sovrano nell'ottenere l'assistenza attiva dei suoi soggetti, se partiamo dall'assunzione [...] che la decisione di assistere o meno il sovrano si basa su un appello all'autointeresse" (1988: 76). Come accennato e come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la critica di Gauthier riprende le argomentazioni humeane contro il contratto sociale. Quello che vale la pena notare qui è che se ciò che Gauthier afferma è vero, allora anche il suo progetto metaetico risulta irrimediabilmente compromesso. L'impossibilità di definire il processo logico-deduttivo che porta agenti autointeressati ad abbandonare lo stato di natura e a dare vita alla società civile segna il fallimento del progetto di riconciliazione fra moralità e autointeresse perseguito dagli neo-hobbesiani. Se questa impossibilità rappresenta anche la prova definitiva dell'incoerenza del contrattualismo hobbesiano è qualcosa che analizzeremo discutendo l'alternativa convenzionalista proposta da Hume. Nel resto del capitolo l'obiettivo che ci proponiamo è invece quello di valutare la critica della Hampton alla nozione di sovranità assoluta. IL PROBLEMA DELL'AUTORITÀ ASSOLUTA Hobbes discute dell'autorità assoluta nel capitolo 18 del Leviatano, dove tratta "dei diritti dei sovrani per istituzione". Qui sono enunciati dodici principi che indicano sia le restrizioni che vengono imposte ai sudditi, sia i diritti che spettano al sovrano. I sudditi per esempio, non hanno la possibilità di cambiare la forma di governo stabilita nel contratto sociale, né possono, come singoli, sottrarsi al contratto stesso. Allo stesso modo, i singoli debbono riconoscere e accettare un sovrano votato a maggioranza anche quando gli hanno votato contro o si sono pronunciati per un candidato alternativo. Infine, i sudditi non hanno il potere di mettere sotto accusa il sovrano. Per parte sua, il sovrano ha completa discrezionalità nel decidere quali mezzi impiegare per garantire la pace sociale, quali dottrine possono essere insegnate, come vanno definiti e assegnati i diritti di proprietà. Il sovrano è inoltre l'arbitro di tutte le controversie che emergono fra sudditi e fra sudditi e autorità. È ancora demandata a lui ogni decisione concernente la politica estera, così come la scelta dei ministri e del personale amministrativo. Infine è il sovrano che premia e punisce i propri sudditi, o attribuisce loro onori e doveri. L'immagine del sovrano che emerge dalla descrizione proposta da Hobbes è duplice: esso rappresenta tanto la sola fonte legislativa legittima quanto l'arbitro unico ed ultimo. È in questa duplice veste che risiede il suo potere assoluto. Ma se il sovrano hobbesiano rappresenta l'essenza della sovranità del corpo politico, ciò non vuol dire né che non siano riconosciute altre fonti giuridiche diverse da quelle del sovrano, né che ogni funzione giudiziaria, esecutiva e legislativa è indissolubilmente legata alla figura del sovrano. Il sovrano è la suprema, ma non l'unica fonte legislativa dello stato. Hobbes infatti riconosce ed accetta come valide altre fonti legislative quali la common law e le convenzioni sociali. Le altri fonti legislative sono comunque subordinate alla funzione legislativa del sovrano. Ogni legge necessita infatti di un sistema giudiziario-militare che la renda effettiva, e perciò dipende in ultima analisi dalla volontà del sovrano. In secondo luogo, common law e convenzioni sociali, risultano spesso controverse e richiedono un'interpretazione autorevole. 38 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE Anche in questo caso è solo il sovrano colui che riveste la funzione di arbitro ultimo. Con questo il sovrano hobbesiano è assoluto, ma non arbitrario. Lo stesso Hobbes distingue ripetutamente fra la sovranità e il sovrano che la rappresenta. La distinzione non è linguistica ma sostanziale. La sovranità è l'anima del corpo politico, mentre il sovrano è solo una delle sue possibili incarnazioni: la morte fisica del sovrano non estingue la sovranità dello stato, mentre una sovranità può estinguersi malgrado l'attuale esistenza di un sovrano. Inoltre per Hobbes un governo assembleare potrebbe sostituire il sovrano senza perdita di autorità, a condizione che la sovranità dell'assemblea sia anch'essa assoluta. Il che equivale a dire che la forma di governo risulta, per Hobbes, del tutto irrilevante rispetto al principio secondo cui l'autorità deve essere assoluta. La conclusione è che il concetto di sovranità proposto da Hobbes né va confuso con il positivismo giuridico di stampo ottocentesco, né è incompatibile con la divisione dei poteri cara al pensiero liberale. Nel primo caso risulta infatti del tutto congruente concepire un sovrano la cui azione legislativa è ex post tale per cui seleziona fra convenzioni sociali alternative o fra interpretazioni conflittuali della stessa convenzione. Nel secondo caso la divisione delle funzioni legislative, esecutive e giudiziarie e la loro attribuzione a differenti organi dello stato rappresenterebbe solo un'articolazione interna all'autorità sovrana, senza ricadute sul principio dell'autorità assoluta. È del tutto plausibile assumere che per Hobbes la questione di principio non è data dal chi (o da quale organo) rivesta una particolare funzione, ma dal fatto che le diverse articolazioni interne al corpo politico producano alla fine decisioni unitarie e coerenti, cioè espressione di una singola volontà politica. Ciò che Hobbes rifiuterebbe è una divisione dei poteri che producesse un sistematico conflitto fra i poteri dello stato. Il punto sul quale si concentra la critica neo-hobbesiana riguarda comunque il fatto che individui razionali riterrebbero una siffatta autorità incapace di fornire adeguate garanzie individuali. E' a questa obbiezione che rivolgiamo ora l'attenzione. Sovrano assoluto e scelta razionale Il paradosso dell'autorità assoluta trova una sua prima formulazione nel Secondo trattato sul governo di John Locke. Nel discutere le relazioni fra sovrano e sudditi Locke sottolinea che: "se si chiede che garanzia, che difesa vi sia in tale stato contro la violenza e l'oppressione del governante assoluto, neppure la domanda è permessa. Vi si risponderebbe tosto che il solo fatto di preoccuparsi della sicurezza merita la morte. Tra suddito e suddito si ammetterà che vi debbano esser misure, leggi e giudici, per loro mutua pace e garanzia, ma il governante, invece, dev'esser assoluto ed è superiore a tutte le circostanze di tal genere, e, per il fatto ch'egli ha il potere di fare maggiori danni e torti, se li fa, non fa male. Chiedere come ci si possa garantire dal danno o dall'offesa da parte del più forte è senz'altro la voce della faziosità e della ribellione, come se gli uomini abbandonando lo stato di natura ed entrando in società, avessero convenuto che tutti meno uno sottostessero al limite della legge, e quello continuasse a conservare tutta la libertà dello stato di natura, accresciuta dal potere e resa arbitraria dall'impunità. Questo è come credere che gli uomini sono così pazzi da prendersi cura di evitare i danni che possano recare loro le faine, e le volpi, ed esser contenti, anzi, trovare la salvezza nell'esser divorati dai leoni" (1690, II, § 93)11. Questa posizione è stata riaffermata diverse volte nel corso della storia del pensiero politico. In tempi più recenti John Plamenatz ha posto la questione in questi termini: "cosa intende dire Hobbes quando afferma che l'autorità deve essere assoluta? Per conto mio, questo vuole dire che non è nell'interesse di nessuno che vi siano leggi e convenzioni che limitano il dovere di obbedire al governo, o che la suprema autorità dello stato venga attribuita a diversi organi istituzionali. [...] La giustificazione dell'autorità assoluta proposta da Hobbes si basa sull'assunto che solo questo tipo di governo consente un'efficace risoluzione dei conflitti e delle dispute, comprese quelle concernenti i limiti cui deve sottostare la stessa autorità. Chiaramente tale assunto è falso. È infatti possibile dividere i poteri in modo tale da definire colui cui spetta il giudizio finale per ogni tipo di controversia ed evitare conflitti di competenze" (1963: 149, 39 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE 150-51). Per Locke la scelta di un sovrano assoluto rappresenta non solo un caso esemplare di cura peggiore del male che si intende curare, ma anche una incongruenza logica. A suo parere è assurdo pensare che agenti razionali e autointeressati possano preferire un sistema oppressivo e assoluto agli inconvenienti tipici dello stato di natura. Piuttosto che il consegnarsi alla schiavitù dello stato politico l'analisi costi-benefici giustifica il persistere nello stato di natura. Dal canto suo, John Plamenatz ritiene implausibile la soluzione proposta da Hobbes perché, date le possibili alternative politiche, tale forma di governo è quella meno conveniente. Diversamente da Locke, l'analisi costi-benefici da lui proposta non confronta lo stato di natura e quello politico, ma diverse alternative politiche, fra le quali figura come preminente quella di un sovrano costituzionale limitato. Nel riproporre il problema la Hampton sostiene l'esistenza di una chiara contraddizione logica fra le motivazioni prudenziali che portano i soggetti hobbesiani alla sottoscrizione del contratto, e la scelta di un sovrano assoluto ed autointeressato quale quello hobbesiano, che potrebbe, una volta insediato, fare un uso arbitrario e discriminatorio del potere attribuitogli. Agenti razionali come quelli descritti da Hobbes sono in grado di anticipare questa eventualità e si rifiuterebbero di sottoscrivere un contratto di alienazione che conferirebbe al sovrano un'autorità assoluta. Ad essere prescelta sarebbe invece una forma contrattuale che definisce precisi limiti costituzionali all'esercizio del potere. La pensatrice americana riconosce che dalla descrizione di Hobbes viene fuori un sovrano estremamente moderato e paternalista. Malgrado ciò sottolinea che non è possibile trovare nel testo hobbesiano ragioni che spieghino perché un sovrano la cui motivazione principale è l'autointeresse dovrebbe scegliere di essere un sovrano illuminato. La conclusione cui arriva è perciò la seguente: "La giustificazione del contratto di alienazione elaborata da Hobbes è inconsistente [perché]: 1. Al fine di arrivare alla pace sociale deve essere istituito un sovrano assoluto con poteri illimitati sui suoi sudditi-schiavi, un sovrano assoluto che rappresenta il supremo tribunale per tutte le controversie che emergono nello stato 2. L'attribuzione di effettivi poteri al sovrano avviene attraverso la decisione dei sudditi di obbedire gli ordini del sovrano, e tale decisione di obbedire viene presa solo quando l'obbedienza è nell'interesse dei sudditi. 3. Da (2) segue che il sovrano non decide tutto; in particolare il sovrano non decide se e quando i suoi sudditi obbediranno. 4. L'implicazione che si ricava da (3) è che fino a quando il potere del sovrano dipende dalla reale obbedienza dei sudditi, sono questi ultimi [...] i veri depositari del potere sovrano. 5. Da (3) e (4) si ottiene che gli agenti hobbesiani non sono in grado di istituire un'autorità sovrana del tipo definito in (1). [...] Il che significa che gli agenti hobbesiani non sono in grado di mettere fine al conflitto dello stato di natura" (1986: 206). La Hampton nota da ultimo come, data la debolezza dell'intera giustificazione, Hobbes (coscientemente o meno) proprio su questo punto imbroglia, ed introduce concetti morali esterni all'intera discussione e che erano stati precedentemente rifiutati. Diversamente dalla Hampton, la tesi che sosteniamo è che la giustificazione dell'autorità assoluta avanzata da Hobbes è tutt'altro che incompatibile con la logica che porta soggetti razionali a sottoscrivere il contratto sociale. Le stesse ragioni autointeressate che spingono gli individui hobbesiani alla ricerca di un accordo possono essere utilizzate per giustificare la scelta di un contratto di alienazione e di un sovrano assoluto che lo faccia valere. La dimostrazione della tesi prevede l'analisi di due distinti tipi di relazioni strategiche che caratterizzano lo stato politico. Il primo tipo attiene ai rapporti tra sovrano e sudditi, mentre il secondo considera le relazioni strategiche che si instaurano fra i sudditi. Dall'articolazione si ricavano due distinti giochi strategici: un gioco del sovrano e un gioco di coalizione. La combinazione dei due giochi permette di dimostrare come un comportamento oppressivo e discriminatorio del sovrano renda possibile il costituirsi di coalizioni difensive fra i sudditi; come la previsione da parte del sovrano dell'effetto destabilizzante di tali coalizioni lo porti ad autoimporsi dei vincoli all'azione 40 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE politica e quindi alla scelta di comportarsi da sovrano illuminato; come la capacità dei sudditi nel ripetere il ragionamento del sovrano e di pervenire alle sue stesse conclusioni confermi loro che il sovrano manterrà un atteggiamento moderato e giustifichi la scelta di un'autorità assoluta. Il gioco del sovrano Una volta che le procedure di insediamento del sovrano sono state esaurite e il processo di attribuzione dei poteri è stato avviato con successo, le relazioni strategiche che si instaurano fra il sovrano e i suoi sudditi sono del tipo definito nel 'gioco del sovrano' riportato in figura 2.4. Ad ogni round il sovrano gioca con un suddito tratto a caso dalla popolazione. Il suddito muove sempre per primo; la sua scelta è tra violare oppure obbedire gli ordini del sovrano. Il sovrano muove successivamente al suddito e può scegliere fra punire o proteggere. Come già visto, I numeri in basso alla figura rappresentano l'ordine di preferenza dei due giocatori. Di conseguenza abbiamo il seguente ordine di preferenze. Figura 2.4. Gioco del sovrano Ordine di preferenze del sovrano. La scelta ritenuta dal sovrano come la migliore in assoluto è quella di proteggere il suddito che obbedisce agli ordini impartiti (2;1). Al secondo posto viene la scelta di punire il suddito che viola gli ordini del sovrano (3;2). Il sovrano è comunque indifferente fra punire un suddito che ha violato la legge o punire erroneamente un suddito che l'ha rispettata (3;2~4;2), in quanto il costo implicito nel punire è lo stesso nei due casi. La situazione ritenuta peggiore è quella in cui si protegge qualcuno che ha disobbedito (1;3), perché in questo modo si finisce per fornire il bene protezione gratis, e si incorre in ulteriori costi reputazionali che aumentano gli incentivi alla disobbedienza. Ordine di preferenze del suddito. Il suddito, dal canto suo, preferisce disubbidire quando esiste un'alta probabilità di non essere scoperto (1;3). Nel caso in cui la punizione del sovrano è certa, il corso d'azione preferito è quello dell'obbedienza (2;1). Infine, il suddito preferisce essere punito quando disobbedisce (3;2), piuttosto che esserlo erroneamente quando obbedisce (4;2). La soluzione ottimale del gioco del sovrano è l'equilibrio strategico in cui il suddito obbedisce e il sovrano protegge (2;1)12. Naturalmente per ottenere questo risultato debbono essere soddisfatte le seguenti condizioni: (i) deve esistere un sistema giudiziario-militare efficiente che consenta al sovrano di 41 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE (ii) (iii) scoprire coloro che violano e di punire con certezza deve vigere un corpo di leggi universale e pubblico, tale che ogni cittadino possa sapere quali sono i dettati della legge e come soddisfarli il sovrano deve condurre la propria azione pubblica nel rispetto delle legge e delle procedure di implementazione da lui stesso emanate Come anticipato, la Hampton pensa che l'attribuzione di poteri assoluti al sovrano renda estremamente probabile un esercizio del potere arbitrario ed oppressivo. Questo porterebbe individui razionali quali quelli hobbesiani ad anticipare tale eventualità e a rifiutarsi di sottoscrivere ciò che lei chiama un contratto di alienazione. Al fine di capire se è veramente nell'autointeresse del sovrano assoluto comportarsi arbitrariamente, occorre quindi dare una chiara definizione di potere arbitrario. In linea con le tre condizioni elencate sopra definirò un sovrano assoluto arbitrario come colui che: (i) (i) (ii) è incapace, o non interessato, a costituire un sistema giudiziario-militare efficiente emana leggi discriminatorie si rifiuta di rispettare le sue stessi leggi Per ragioni analitiche definiamo inoltre tre casi ipotetici di potere arbitrario. Nel primo caso il sovrano periodicamente incorre in errori giudiziari e finisce per punire degli innocenti. Nel secondo caso gli errori giudiziari sono così frequenti che esiste almeno il 50% di probabilità di essere punito malgrado innocente. Il terzo caso è quello in cui il sovrano emana un corpo di leggi che discrimina sistematicamente contro una parte della popolazione13. Il risultato più evidente nel primo caso è che coloro che sono stati erroneamente incarcerati finiscono per pagare l'intero costo dello sbaglio del sovrano. Questo tipo di problema comunque non è caratteristico dell'azione del sovrano assoluto. Errori giudiziari sono possibili in qualsiasi tipo di organizzazione politica, assoluta o limitata che sia. Il problema semmai potrebbe essere (ed è) usato come un argomento in difesa di soluzioni anarchiche. Questo tipo di critica ha però come obiettivo l'idea stessa di contratto sociale e non il problema della scelta tra autorità limitata e autorità assoluta posto dalla Hampton e per tale ragione non viene discusso ulteriormente. Il secondo caso descrive un sovrano altamente incompetente, il quale non è riuscito a (o non ha voluto) predisporre un sistema giudiziario-militare efficiente. Il comportamento del sovrano in questo caso si risolve in un agire capriccioso che condanna e assolve in modo del tutto arbitrario. La rappresentazione strategica del tipo di interazione prodotta dal sovrano capriccioso è data dal gioco in figura 2.4 al quale è aggiunto un nodo informativo (simboleggiato dalla linea tratteggiata che unisce i due nodi decisionali del sovrano). Il nodo informatico sta ad indicare l'incapacità del sovrano di vedere la scelta del suddito. Assumiamo che data l'incertezza il sovrano operi una scelta strategica casuale. Il corso d'azione del sovrano è deciso attraverso il tipico lancio della moneta: testa equivale ad essere protetto, croce equivale ad essere condannato. Dal punto di vista del suddito, le implicazioni del meccanismo decisionale utilizzato dal sovrano risultano equivalenti all'attribuzione del 50% di probabilità di essere punito (o protetto) qualunque sia il corso d'azione scelto. Ne consegue che disobbedire diventa la strategia dominante del suddito. Infatti solo disobbedendo il suddito è in grado di evitare la meno preferita delle situazioni (condannato malgrado innocente), e può sperare di ottenere il migliore risultato possibile (protezione malgrado la disobbedienza). Il risultato finale cui conduce il comportamento capriccioso del sovrano, è l'instabilità sociale. Kavka descrive questa instabilità come il prodotto di due paradossi: il paradosso della tirannia perfetta e il paradosso della rivoluzione (1986, cap. 6). Il primo paradosso consiste nel fatto che l'uso spregiudicato e arbitrario della forza fisica finisce per rendere la disobbedienza la strategia dominante dei sudditi. Obbedire è razionale quando esiste la certezza che ogni violazione comporti la reazione punitiva del sovrano. Nel caso in cui tale reazione sia imprevedibile e comporti la punizione di persone innocenti, diventa del tutto razionale violare la legge in qualsiasi evenienza. Da qui la spirale perversa che conduce da un lato alla repressione 42 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE poliziesca esasperata e dall'altro all'endemica violazione della legge. Il secondo paradosso riguarda l'impossibilità di prevedere uno sbocco rivoluzionario alla spirale di violenza generato dal comportamento tirannico del sovrano. Iniziare una rivoluzione rappresenta un tipico problema di azione collettiva e come tale implica costi organizzativi del tutto simili a quelli necessari a produrre un qualsiasi bene pubblico. Una rivoluzione risulta imprevedibile per tre ragioni: perché gli agenti stessi cercano di evitare i costi individuali impliciti nel prendere l'iniziativa rivoluzionaria; perché il comportamento del tutto imprevedibile del sovrano rende estremamente difficile l'emergere di asimmetrie e di salienze fra i sudditi su cui si concentri l'attenzione generale e che sono necessarie per l'emergenza di forme spontanee di cooperazione14; perché le poche organizzazioni collettive che riescono ad emergere finiscono per attrarre tutta l'attenzione delle strutture repressive del sovrano. La conclusione è che questa situazione ipotetica da luogo a dinamiche strategiche il cui risultato finale è indeterminato. L'emergenza di coalizioni difensive Rimane da considerare la terza situazione ipotetica, cioè il caso in cui il sovrano discrimina fra differenti settori della popolazione. Per una maggiore comprensione delle implicazioni derivabili da questo caso è necessario definire il tipo di relazioni strategiche esistenti fra i sudditi e come l'azione del sovrano influenzi queste relazioni. La scelta del sovrano e l'attribuzione allo stesso di poteri effettivi permette il passaggio dallo stato di natura alla società civile, con tutte le implicazioni in termini di pace sociale e benessere economico che questo comporta. La società civile rappresenta una possibilità logica solo all'interno di un contesto politico (il sovrano) che opera l'intermediazione fra i vari soggetti individuali. Al di fuori dell'intermediazione politica operata dal sovrano lo stato di natura persiste15. Malgrado ciò è del tutto plausibile che, data la sua natura pubblica, l'azione del sovrano abbia effetti rilevanti anche sul sistema delle interazioni da lui non mediate. In breve, l'idea che suggeriamo è che l'agire del sovrano rappresenta una fonte di informazione capace di produrre asimmetrie e salienze che consentono ai sudditi di dare vita a forme spontanee di cooperazione indipendentemente dall'azione del sovrano stesso. È questo effetto involontario dell'azione pubblica che rende possibile l'emergere di coalizioni difensive. Si tratta di vedere se, e come, l'atteggiamento arbitrario e vessatorio del sovrano conduca alla formazione di coalizioni difensive in grado di minacciarne la stabilità. Anche in questo caso individuiamo due situazioni ipotetiche in cui il sovrano discrimina sottoinsiemi della popolazione. Nel primo caso l'oggetto della discriminazione del sovrano non è sempre lo stesso, ma muta al variare delle situazioni e delle alleanze. Nel secondo caso il sovrano stabilisce un accordo stabile con uno specifico settore della popolazione allo scopo di sfruttarne altri. Si tratta di capire se le strategie relative ai due casi permettano al sovrano hobbesiano il mantenimento del suo dominio assoluto. Il mantenimento di un dominio assoluto e stabile sembra alquanto improbabile nel caso in cui il potere del sovrano si fondi su coalizioni provvisorie e momentanee. Per due ragioni principali. Prima di tutto queste coalizioni danno vita a continue pressioni interne per la ricontrattazione dei termini dell'accordo. In secondo luogo è quanto mai probabile il costituirsi di coalizioni di ex alleati insoddisfatti per il modo in cui sono stati precedentemente trattati dal sovrano. Ad ogni modo le dinamiche strategiche che questo tipo di politica delle alleanze sviluppa sono difficili da prevedere. Di conseguenza, un sovrano mosso da motivazioni prudenziali come quello hobbesiano difficilmente sceglierebbe di basare la sua azione politica su tale tipo di comportamento strategico. Più realistica risulta la seconda situazione ipotetica in cui esiste un'alleanza stabile e permanente fra il sovrano ed un singolo alleato. È questo comportamento strategico in grado di garantire al sovrano un potere assoluto duraturo e stabile? La risposta è anche qui negativa. Prima di tutto questo tipo di alleanza richiede l'instaurazione di relazioni cooperative fra i membri della coalizione dominante. Un sovrano abile a garantirsi l'alleanza di una componente 43 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE sociale tanto potente da permettergli lo sfruttamento sistematico del resto della popolazione avrebbe un potere assoluto e arbitrario solo nei confronti della parte sfruttata. Nei riguardi dell'alleato il sovrano è tutto tranne che assoluto. In secondo luogo lo sfruttamento sistematico di altri settori della popolazione risulta possibile solo sino a quando gli sfruttati non trovano il modo di organizzarsi e dare vita a coalizioni difensive. Come argomentiamo sotto, la discriminazione sistematica di ben identificabili settori della popolazione crea le precondizioni che permettono l'emergere di tali coalizioni. Vediamo di articolare meglio questo punto. La politica di discriminazione sistematica di alcuni settori della popolazione da parte del sovrano e della sua coalizione implica l'utilizzo di risorse e istituzioni pubbliche necessarie a: • • identificare i soggetti e le forme in cui operare lo sfruttamento procedere al prelievo delle risorse prodotte dallo sfruttamento Siffatte politiche sono per definizione pubbliche e creano ben definite identità sociali. Nei termini della teoria dei giochi la creazione di identità collettive è dovuta all'azione congiunta dell'emergere di asimmetrie informative e di salienze tra i giocatori. In altre parole, la formazione di identità collettive è il prodotto del venire meno dell'anonimato che caratterizza le interazioni nello stato di natura; interazioni che ora assumono la forma di un gioco ripetuto, non anonimo e asimmetrico. Un sovrano razionale è al corrente del fatto che in tali contesti strategici l'emergere di forme spontanee di cooperazione sociale è molto probabile16. Nel caso in questione lo svilupparsi di forme di cooperazione spontanea fra sudditi equivale all'emergenza di coalizioni difensive. Il sovrano verrebbe così a trovarsi nella scomoda posizione di dovere da un lato soddisfare i crescenti bisogni della coalizione di cui fa parte e dall'altro di fronteggiare la reazione difensiva degli sfruttati. La conclusione è che un comportamento arbitrario che mira allo sfruttamento sistematico di sottoinsiemi della popolazione risulterebbe incongruente con le motivazioni prudenziali che guidano l'azione del sovrano. La discussione condotta finora ha presentato diverse definizioni di potere assoluto arbitrario e ne ha analizzato le implicazioni strategiche. Per ogni situazione ipotetica identificata si è visto che esistono ragioni prudenziali che sconsigliano al sovrano di adottare quel tipo di comportamento. Un comportamento arbitrario e capriccioso conduce il sovrano di fronte ad un dilemma. Il sovrano potrebbe ritrovarsi, o nell'imprevedibile situazione descritta nel doppio paradosso proposto da Kavka, ovvero in un contesto in cui si determina una spirale di repressione indiscriminata e disobbedienza generalizzata, nonché nell'impossibilità di prevedere uno sbocco rivoluzionario a causa dei costi di azione collettiva connessi con l'inizio di una rivoluzione. Alternativamente il sovrano potrebbe finire con l'essere costretto a dibattersi fra coalizioni difensive che lo vogliono destituire e alleati interessati a ridimensionare il suo potere. Resta da domandarsi quale tipo di comportamento strategico possa assicurare al sovrano un potere assoluto e permanente. La nostra ipotesi è che tale comportamento preveda necessariamente la definizione di un corpo di leggi pubblico, universale e imparziale cui anche il sovrano si sottomette. Tre tipi di argomenti giustificano la scelta di questa soluzione. Il primo è che tale strategia è a prova di coalizione in quanto evita la produzione di asimmetrie e salienze che i sudditi possono sfruttare contro lo stesso sovrano. Il secondo argomento è che tale soluzione risulta la più immediata e la più facile da identificare. Il terzo argomento è che questo tipo di soluzione è semplice e non richiede al sovrano l'uso dei sofisticati ragionamenti necessari alla comprensione delle complessità strategiche tipiche di qualsiasi teoria delle coalizioni. La conclusione è dunque che il sovrano riconosce come sia nel suo interesse assumere le vesti di sovrano illuminato, mentre i sudditi trovano del tutto plausibile credere che un sovrano assoluto si comporterà in modo illuminato. Il modello di autorità politica che si ricava dalla discussione fin qui condotta è quello di un'autorità che riconosce la problematicità dei comportamenti arbitrari e che perciò sceglie di autovincolarsi. Questa scelta è il prodotto di un'analisi costi-benefici condotta dal sovrano fra due alternative: abusare liberamente dell'autorità o definire un insieme di regole cui 44 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE sottomettersi. La razionalità del vincolo risulta evidente una volta che si è proceduto all'analisi delle implicazioni strategiche dei casi ipotetici identificati. Il risultato interessante dell'esperimento è quello di rendere evidente come strumenti di garanzia individuali possano emergere direttamente della pratica politica. In questo senso si ribalta l'approccio liberale che vede i diritti individuali come elementi esterni (o precedenti) al processo politico e necessari al suo contenimento. Inoltre la possibilità di arrivare alla giustificazione di un sistema di regole pubblico, universale ed imparziale a partire da considerazioni genuinamente politiche e non morali rende conto della priorità logica della politica sulla filosofia morale proposta da Hobbes e avvicina il pensatore inglese alla tradizione politica repubblicana. L'analisi congetturale proposta rappresenta infine un tentativo di arrivare alla definizione analitica del processo che ha prodotto la nascita dei moderni stati costituzionali. Lo sviluppo di forme costituzionali che stabiliscano la divisione dei poteri e sistemi di garanzia individuale dei cittadini può essere visto come il prodotto di un processo di maturazione interna allo Stato assoluto. Tale processo sarebbe il risultato del conflitto fra istituzioni politiche arbitrarie e movimenti collettivi sviluppatesi come coalizioni difensive dei gruppi sociali oppressi. L'evoluzione dei moderni stati costituzionali rappresenterebbe così un caso empirico di progressiva definizione endogena di vincoli all'esercizio del potere conseguente all'emergenza di coalizioni difensive. Note 1 Un tentativo in questa direzione è quello portato avanti da Kraus (1993). Sul lavoro vedi comunque e osservazioni critiche della Hampton (1996). 2 Oltre che nel Trattato (1740, parte II, sez. V-X) e le Inchieste (1751, sez. iii-iv), la critica di Hume al contratto sociale è contenuta nei seguenti saggi: Of the first principles of government (1741), A letter from a gentleman to his friend in Edinburgh (1745), Of the original contract (1748), Of the origin of government (1777). Tranne che per (1745), tutti i saggi sono riprodotti in (1886). Per una accurata analisi della critica di Hume al contratto sociale vedi Brownsey (1978) e Thompson (1977). Per una riproposizione della critica humeana al contrattualismo contemporaneo cfr. de Jasay (1997). 3 Gauthier e Kavka si riferiscono ai tre come 'egoismo tautologico', 'egoismo psicologico' ed 'egoismo causale' (Gauthier, 1987: 284-5; Kavka, 1986: 35). La Hampton chiama i tre PE1, PE2 e PE3 (cfr. 1986: 23). 4 Kavka sottolinea che quella di Hobbes "è nella sostanza una teoria ipotetica interessata a definire (controfattualmente) cosa accadrebbe nell'eventualità in cui i legami politici e sociali fra le persone venissero a rompersi" (1986: 84) E quindi aggiunge, "'lo stato di natura' è un concetto relazionale. Due parti si trovano ad interagire in uno stato di natura se nessuno dei due può costringere l'altro a rispettare gli accordi presi e ad astenersi dall'aggredire l'altro" (1986: 88). 5 I numeri di pagina si riferiscono a quelli dell'edizione originale del 1651 i quali sono riportati in tutte le maggiori edizioni inglesi contemporanee. 6 Il gioco prende il nome da un esempio contenuto nel saggio di Rousseau (1755, parte II): "Se si tratta di prendere un cervo, ognuno sentiva di dovere per questo stare fedelmente al suo posto; ma se una lepre veniva a passare davanti a uno di loro, non c’è dubbio che egli non la inseguisse senza scrupoli e, avendo presa la sua preda, si preoccupasse pochissimo di far prendere la loro ai suoi compagni". Il gioco è stato però introdotto nella teoria delle decisioni da Amartya Sen (1967) come Assurance game e solo dopo sono state notate le affinità con l'esempio di Rousseau. 7 L'idea che lo stato di natura hobbesiano ha una struttura logica del tipo dilemma del prigioniero non è solo dei neo-hobbesiani ma si ritrova in diversi autori e opere precedenti a quelle discusse qui. Cf. Barry (1965: 253-4); Gauthier (1968: 76-89); Rawls (1971: 269); Taylor (1976: 6); Ullmann-Margalit (1977: 62-73). Il contributo dei neo-hobbesiani è stato quello di chiarire in che senso queste logiche sono coincidenti. 8 In un contesto simile anche la semplice disponibilità a non aggredire per primo può essere controproducente. Come recita il testo della canzone di De Andrè La Guerra di Piero: "quello si volta, ti vede ha paura e imbracciata l'artiglieria non ti ricambia la cortesia". 45 RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE 9 Vedi Hobbes (1651, cap. XV: 117). Un metodo simile è discusso da Hobbes alla fine del capitolo XVI (pp. 134-35). 11 Non è affatto chiaro se la critica di Locke abbia come riferimento Hobbes. Sul punto vedi l'introduzione di Peter Laslett al testo di Locke (1970, sez. IV). 12 Al momento bisogna non considerare la linea tratteggiata. Nel gioco non ci sono nodi informativi e il sovrano può chiaramente distinguere il suddito che viola da quello che obbedisce. 13 La ragione di questo comportamento discriminatorio può essere dovuto al fatto che il sovrano si coalizza con un sottoinsieme della popolazione al fine di sfruttare il resto, oppure perché impegnato nella pratica del dividi et impera. 14 È da notare che nel contesto hobbesiano le relazioni fra i sudditi sono caratterizzate dall'assenza di fiducia reciproca. È l'azione del sovrano a garantire il livello di fiducia necessario allo sviluppo di transazioni socio-economiche. Per il concetto di "salienza" si rinvia al prossimo capitolo. 15 Diversamente da Rousseau (1755), Hobbes non considera la possibilità di una grande trasformazione come portato del processo di civilizzazione. La struttura motivazionale e l'identità personale degli agenti hobbesiani rimane immutata nel passaggio dal contesto prepolitico a quello politico. Diversamente l'analisi costi-benefici che giustifica la sottoscrizione del contratto sociale sarebbe del tutto impossibile. 16 Sull'emergenza della cooperazione nei giochi ripetuti vedi il capitolo successivo. 10 46 III Empirismo humeano e genealogia della morale La rilevanza di David Hume per la filosofia contemporanea è difficile da sopravvalutare. Hume ha ispirato lo sviluppo dell'utilitarismo, del darwinismo sociale, del naturalismo etico, dell'empirismo logico, dell'emotivismo, della filosofia del linguaggio. Nella seconda parte del XX secolo Hume è stato, inoltre, il punto di riferimento teorico delle teorie dell'ordine spontaneo e di una miriade di teorie analitiche dello stato di derivazione economica. Per F.A. Hayek (1967) l'influenza di Hume (e dell'illuminismo scozzese) si deve al fatto di avere posto le basi per lo sviluppo di una teoria sociale in grado di supplire una giustificazione epistemologica dell'ordine liberale: diritti di proprietà esclusivi e stato minimo. Secondo l'autore austriaco, il tentativo humeano di arrivare ad una spiegazione individualista di fenomeni sociali complessi quali l'origine del linguaggio, dei diritti di proprietà e dei sentimenti morali opera una rottura radicale con tradizioni di pensiero che basano i propri assunti su presupposti metafisici irrefutabili o su metafore antropologiche pseudoscientifiche. In aggiunta, Hayek ritiene che l'approccio evolutivo e spontaneista che caratterizza la teoria humeana ha preservato la stessa dalle deleterie influenze dei razionalisti e rappresenta perciò un modello di riferimento ideale per lo sviluppo di un liberalismo scientifico1. Malgrado i dubbi che tale lettura solleva, l'interpretazione di Hume proposta da Hayek ha catturato l'attenzione di una crescente schiera di pensatori interessati a giustificare i principi liberali su base genealogica piuttosto che contrattualista. Come per le teorie neo-hobbesiane discusse prima, siffatto approccio ha l'ambizione di combinare analisi epistemologica e analisi prescrittiva, e di dimostrare come l'agire autointeressato può essere compatibile con la morale. A differenza dei neo-hobbesiani, coloro che si richiamano a Hume ritengono necessario abbandonare l'idea stessa di contratto sociale e concentrare l'attenzione sulla nozione di convenzione sociale. Le convenzioni sono viste come gli elementi non morali della fabbrica morale: regolarità comportamentali ritenuti alla base delle nostre concezioni di valore e dei sentimenti di giustizia. Lo studio delle convenzioni rappresenta quindi il campo di indagine per studiare l'evoluzione della norme sociali e dei sentimenti morali che ne assicurano l'osservanza in modo scientifico ed oggettivo. Da un punto di vista normativo lo studio delle convenzioni sociali ha due implicazioni. In primo luogo consente di elaborare una epistemologia negativa in grado di valutare principi morali ideali alternativi attraverso l'analisi della stabilità evolutiva che questi possono avere. In secondo luogo la preminenza attribuita alle convenzioni rappresenta un modo per affermare la natura derivativa delle categorie del politico e identificare i limiti costituzionali esterni a cui deve sottostare l'azione di governo2. Come per i neo-hobbesiani, anche i humeani ritengono necessario risolvere le inconsistenze che affliggono il pensiero del filosofo scozzese attraverso l'uso delle tecniche messe a disposizione dalla teoria dei giochi. John Mackie per esempio chiarisce come: "quello che Hume ci offre è un'analisi speculativa brillante. Al suo interno esistono però diversi problemi e difficoltà latenti. E' Hume in grado di dimostrare che autointeresse e comprensione sono sufficienti per garantire l'accettazione di regole di giustizia senza l'aiuto del sovrano hobbesiano? Ha Hume una spiegazione plausibile del modo in cui una convenzione emerge e finisce poi per affermarsi? O è tale spiegazione valida solo per problemi di coordinazione ma non adatta per i problemi posti dal dilemma del prigioniero che più di frequente affliggono le interazioni umane? E ancora: è il resoconto proposto Hume riguardo agli effetti benefici prodotti da criteri di giustizia generali coerente? Ed è questo in grado di dirci perché dobbiamo EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE comportarci onestamente anche quando ciò ci danneggia personalmente? Inoltre: sono le regole di proprietà così ovvie e uniformi per come lui le descrive? E devono essere applicate in maniera inflessibile per come l'autore suppone? Infine: ha Hume ragione nel ritenere la competizione per il possesso di beni materiali come la causa prima di ogni conflitto e il problema principale da risolvere per potere vivere in pace?" (1981: 86). Sono queste le domande su cui si sono concentrati i teorici humeani ed è alle risposte avanzate da questi che rivolgiamo l'attenzione in questo capitolo. Per prima cosa vedremo come le teorie humeane spiegano l'emergere delle convenzioni sociali. Sulla scia di David Lewis (1969) si è assistito all'identificazione del processo che porta all'emergenza di convenzioni sociali con le soluzioni di equilibrio dei giochi di coordinazione. Rispetto ai modelli neohobbesiani, il tipo di interazione che ha luogo in un contesto humeano non consente però nessuna forma di comunicazione e richiede quindi una risoluzione tacita dei giochi identificati. Sono gli agenti humeani in grado convergere sullo stesso equilibrio di coordinazione? Successivamente consideriamo i meccanismi che spiegano l'osservanza di convenzioni sociali emerse come soluzioni di equilibrio di giochi di coordinazione in contesti diversi da quelle che le hanno generate. La risoluzione di questo problema rappresenta il punto di partenza per l'elaborazione di una teoria naturalistica della morale non cognitivistica e soggettiva del tipo voluto dai humeani. Si tratta comunque di un problema estremamente complesso da risolvere e che mette in evidenza le tensioni esistenti fra analisi genealogica e analisi normativa. Tali tensioni sono l'oggetto della sezione conclusiva dove viene discusso se le teorie humeane possono supplire la giustificazione epistemologica dell'ordine liberale indicata da Hayek. SPIEGAZIONI A MANO INVISIBILE E CONVENZIONI SOCIALI I dilemmi cooperativi evidenziati dal dilemma del prigioniero hanno messo in crisi non solo le teorie contrattualiste ma tutte quelle spiegazioni che sottoscrivono l'individualismo radicale discusso nel capitolo precedente3. Se si assume che tutti i fenomeni sociali sono il risultato delle azioni strategiche di individui autointeressati e debbono quindi essere spiegate a partire da queste ultime, risulta chiaro che si finisce per incorrere in numerosi paradossi logici. Un mondo popolato da agenti siffatti non sarebbe infatti in grado di riprodurre gran parte dei fenomeni sociali che caratterizzano il mondo reale. Come Hobbes nota, in un mondo siffatto, "non vi è posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società" (1651, cap. 13: 62). Il significato epistemologico di tale dilemma cooperativo è chiaro: l'individualismo metodologico non può avere un valore fondativo e necessita di un approccio complementare che possa spiegare l'origine di molti dei fenomeni esistenti4. I teorici della scelta razionale hanno cercato di evitare i problemi posti dal dilemma del prigioniero attraverso l'introduzione della nozione di norma. Soggetti razionali interagenti in un contesto del tipo dilemma del prigioniero possono evitare di finire nell'equilibrio noncooperativo solo se le loro scelte sono consistenti con l'applicazione di una norma che detta loro di cooperare. Ovviamente questa spiegazione risulta plausibile solo se si chiarisce come sia possibile generare una norma simile. Se infatti il processo che genera la norma è strutturato come un dilemma del prigioniero (come nello stato di natura hobbesiano), allora l'intera spiegazione risulta o circolare o viziata da un regresso infinito. Questo rappresenta infatti il punto debole delle teorie contrattualiste classiche e contemporanee contro cui si appuntano i humeani e che l'approccio genealogico-evolutivo intende evitare. I teorici humeani suggeriscono una alternativa ai dilemmi cooperativi con cui si confrontano i teorici della scelta razionale che spiega la generazione di norme attraverso un processo a due fasi. Nella prima si ha lo sviluppo di convenzioni sociali che risolvono i problemi di coordinazione con cui si confrontano gli agenti nello stato di natura. Nella seconda 48 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE fase si assiste invece allo sviluppo di titoli di proprietà esclusiva e di sentimenti morali che rendono le convenzioni stabili ed effettive anche in contesti diversi da quelli di coordinazione. La cooperazione emerge dal fatto che, posti in situazioni tipo dilemma del prigioniero, gli agenti humeani sono portati ad applicare convenzioni stabilite precedentemente ed evitano di ricorrere ad azioni dirette alla massimizzazione dell'utilità attesa. Il primo autore a sviluppare una lettura della teoria delle convenzioni humeane di questo tipo è stato David Lewis (1969). L'oggetto di indagine di Lewis sono le convenzioni linguistiche; quelle convenzioni che una lunga tradizione nominalistica che va da Hobbes a Quine spiega come il prodotto di un contratto sociale. Come Lewis chiarisce, il riferimento ad un contatto sociale quale base ultima del linguaggio è del tutto implausibile: in che lingua comunicavano coloro che per primi si sono accordati sul significato da attribuire alle parole? L'analisi delle convenzioni sviluppata da Hume è per Lewis immune da simili implausibilità e può servire come il punto di partenza adeguato per lo sviluppo di una teoria generale delle convenzioni linguistiche e sociali. L'elemento di novità che Lewis introduce consiste nell'equiparare le convenzioni humeane con gli equilibri strategici dei giochi di coordinazione; una classe di giochi ai quali i teorici dei giochi avevano dedicato scarsa attenzione perché considerati del tutto banali. Lewis dimostra invece che quando gli agenti non hanno la possibilità di comunicare direttamente tale classe di giochi è tutt'altro che banale e cattura la logica sottostante i problemi relativi alla formazione delle convenzioni linguistiche. La definizione di convenzione da cui l'autore parte è la seguente: "una regolarità R stabilita dal comportamento dei membri di una popolazione P quando gli agenti si trovano in situazioni ricorrenti S si definisce come una convenzione se, e solo se, ogni volta i membri di P si trovano in S, 1) ciascuno agisce conformemente con R 2) si aspetta che tutti gli altri agiscano conformemente con R 3) preferisce agire in conformità con R a condizione che gli altri facciano lo stesso, dato che S rappresenta un problema di coordinazione e il conformarsi di tutti con R rappresenta un equilibrio di coordinazione in S" (1969: 42). La convenzione descritta da Lewis è una soluzione di equilibrio per giochi che hanno una molteplicità di equilibri di Nash equivalenti. Il riferimento a giochi con una molteplicità di equilibri equivalenti è necessaria secondo Lewis perché ritiene il senso di arbitrarietà implicito nel termine stesso e che è bene mantenere. Per arbitrario l'autore intende l'esistenza di almeno una scelta alternativa la cui adozione avrebbe portato ad un equilibrio che dal punto di vista degli agenti è del tutto equivalente a quello scelto. Questo significa escludere tutti quei giochi dove esiste un solo equilibrio di Nash, o dove esiste un equilibrio di Nash che è Paretodominante rispetto a tutti gli altri. In questi casi infatti si presume che agenti razionali non avrebbero difficoltà alcuna nello scegliere l'equilibrio sul quale convergere. Da notare infine che la definizione di Lewis non si applica solo ai giochi di coordinazione pura, ma anche per quelli misti. Sarebbe a dire, quei giochi (come la battaglia dei sessi e il gioco della caccia al cervo discussi nel capitolo precedente) in cui esiste un certo grado di conflitto, ma dove le esigenze di coordinazione hanno la meglio sul conflitto potenziale dovuto a preferenze diverse. In questa parte del capitolo presentiamo gli elementi principali del modello teorico utilizzato da Lewis. Per prima cosa chiariremo le assunzioni comportamentali che secondo l'autore distinguono gli agenti humeani da quelli hobbesiani e che spiegano l'abilità dei primi nel risolvere i problemi di azione collettiva in cui si dibattono i secondi. In seguito discutiamo la logica sottostante i giochi di coordinazione e i problemi che questi sollevano. Infine analizziamo la soluzione proposta da Lewis e il successo di quest'ultima nell'esplicare il processo che porta all'emergenza di convenzioni sociali. Convenzioni e razionalità limitata L'approccio humeano non si limita ad una ridefinizione del contesto strategico che definisce il 49 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE tipo di interazione che ha luogo nello stato di natura, ma suggerisce ulteriori revisioni riguardanti il modello di agenzia da utilizzare. Come anticipato, i humeani spiegano l'emergere della cooperazione come il risultato di un comportamento orientato da regole. A differenza di quelli hobbesiani, gli agenti humeani non applicano strategie di massimizzazione diretta dell'utilità attesa ma tendono ad applicare regole di comportamento. Questa tendenza è espressa in tre modi tra loro interrelati: • • • come dovuta al fatto che gli agenti hanno capacità razionali limitate come dovuta al fatto che gli agenti sono abitudinari e non amano rischiare come dovuta al fatto che gli agenti hanno la propensione ad attribuire valore prescrittivo a corsi d'azione passate che si sono rivelate di successo La prima ipotesi segue l'idea di Herbert Simon (1978) secondo cui bisogna attribuire agli agenti capacità computazionali limitate. Per i humeani ciò equivale a rappresentare gli individui come agenti 'miopi' che reagiscono a situazioni strategiche complesse tramite l'adozione di regole comportamentali valide per una pluralità di situazioni simili. Queste regole comportamentali possono essere riviste periodicamente, ma tendono a rimanere immutate nel corso di uno stesso gioco5. La seconda ipotesi considera invece i costi, in termini di risorse ed energie, necessari per portare avanti ragionamenti complessi. Secondo questa prospettiva solo di rado le persone si impegnano per prevedere tutte le eventualità connesse con ogni corso d'azione possibile. Spesso e volentieri gli individui agiscono in modo abitudinario e si riservano di impegnarsi in ragionamenti complessi solo nei casi in cui ci si trova di fronte a situazioni non coperte da esperienze passate o quando si procede alla revisione delle regole di comportamento che si sono rivelate fallimentari. La terza ed ultima ipotesi si basa sull'idea che col passare del tempo le abitudini, o le regole di comportamento, che si sono rivelati proficue acquistano valenza normativa. L'attribuzione di un valore prescrittivo a regole di comportamento contingenti ma proficue produce un doppio risultato. Per un verso finisce per rafforzare le credenze individuali riguardo alla correttezza della regola di comportamento e rende la reazione individuale semiautomatica. Per altro verso, l'attribuire valore prescrittivo ad una regola di comportamento genera aspettative che promuovono reazioni negative verso i comportamenti devianti. Tale reazione riguarda non solo coloro che sono direttamente danneggiati ma è alla base delle forme di biasimo espresse da soggetti terzi. Per i teorici humeani è l'operare congiunto di sentimenti morali del genere che spiega perché nella pratica le persone reali solo di rado danno luogo ai comportamenti autodistruttivi descritti da Hobbes. Secondo i humeani, quindi, gli agenti che si trovano ad interagire nello stato di natura sono predisposti a selezionare regole e procedure che li aiutano a superare i problemi di azione collettiva associati a tale contesto strategico. Le regole e le procedure che risultano più effettive vengono ad essere osservate, in media, con più frequenza rispetto ad altre ed eventualmente danno vita a delle vere regolarità comportamentali. A loro volta queste regolarità rafforzano le aspettative degli individui riguardo a come gli altri si comporteranno in situazioni simili. Il risultato è un sistema di aspettative interindividuali coincidenti e autorafforzantesi. L'osservazione di comportamenti passati conformi con tali regolarità rappresenta infatti evidenza induttiva che garantisce un grado sempre più elevato di coincidenza tra credenze, aspettative e comportamenti. In aggiunta, la tendenza ad ascrivere a queste regolarità valore prescrittivo genera sanzioni informali che rendono queste ultime stabili senza il ricorso ad una autorità esterna. I risultato è uno stato di natura di tipo lockeano dove gli individui cooperano spontaneamente e dove l'ordine sociale è turbato solo di rado e in modo temporaneo. Diversamente da Locke, comunque, questo risultato è ottenuto senza richiedere l'intervento di un dio razionale e benevolente, o il ricorso a contratti sociali implausibili. Nel linguaggio di Hume la cooperazione emerge come risultato di autointeresse, abitudine e generosità limitata. 50 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE Coordinazione, interdipendenza e indeterminatezza Una convenzione nasce e persiste perché rappresenta la soluzione di equilibrio di un gioco di coordinazione. E` quindi necessario chiarire la logica sottostante un gioco di coordinazione e i problemi che questo pone. Come Lewis chiarisce, "i problemi di coordinazione riguardano situazioni dove le decisioni di due o più agenti risultano interdipendenti, dove esiste una coincidenza di interessi e dove sono possibili due o più equilibri di coordinazione" (1969: 24). Nel capitolo precedente abbiamo incontrato due di questi giochi: la battaglia dei sessi e la caccia al cervo. Tali giochi sono chiamati ad interessi misti perché esiste un certo grado di conflitto circa le preferenze che gli individui hanno per gli equilibri da selezionare. Si tratta comunque di un conflitto potenziale la cui rilevanza è inferiore alle esigenze di coordinazione degli agenti. La preferenza principale dei giocatori è infatti quella di evitare i costi di un mancato coordinamento. La logica che sottende questi giochi è quindi equivalente a quella di un gioco di coordinazione puro del tipo descritto in figura 3.1. Guidatore A Guidatore B Destra Sinistra 1,1 2,2 2,2 1,1 Destra Sinistra Figure 3.1. Gioco dei guidatori Nel gioco due guidatori hanno il problema di scegliere su che lato della strada guidare. Per semplicità supponiamo che i guidatori hanno la tendenza a guidare nel mezzo della strada e la scelta consiste nel decidere su che lato della strada spostarsi quando si incontra un'altra macchina6. Le preferenze individuali seguono il seguente ordine. Ciascuno dei guidatori ha un interesse a scegliere la soluzione scelta dal suo opponente; non importa se questa sia la soluzione Destra (D) oppure Sinistra (S), data l'equivalenza delle due quello che importa è che entrambi scelgono lo stesso lato della strada. Il gioco possiede infatti due equilibri di Nash (D-D e S-S) equivalenti. Il ragionamento sottostante un gioco di coordinazione è di questo tipo: • • • A preferisce D (S) a condizione che B faccia lo stesso al fine di vedere che cosa fare, A cerca di prevedere il comportamento di B e tenta di replicarne il ragionamento siccome il gioco è simmetrico, una volta che è nei panni di B, A si accorge che B preferisce D (S) a condizione che A faccia lo stesso Ovviamente se i due hanno la possibilità di comunicare si possono mettere d'accordo e risolvere il gioco nel 99.9% dei casi. Questa è la ragione per cui la teoria delle decisioni ha per lungo tempo ritenuto questi giochi banali. Se ai giocatori viene però impedito di comunicare il gioco non solo non è più banale, ma definisce un problema di interdipendenza decisionale che mette letteralmente in ginocchio il potere deduttivo della teoria della scelta razionale. Dato che le azioni del giocare A dipendono da quelle del giocatore B, le quali a loro volta dipendono da quelle del giocatore A, un ragionamento deduttivo porta ad una replica infinita di deduzioni. Agenti razionali finiscono così per rimanere imprigionati in circoli ermeneutici che rendono impossibile valutare i risultati a cui possono portano le scelte fra corsi d'azione alternativa. Malgrado ciò, Lewis ritiene di essere in grado di riuscire a risolvere problemi di interdipendenza simili senza particolari difficoltà. L'autore confida inoltre nel fatto che una volta risolto il problema della coordinazione iniziale l'interdipendenza opererà un rafforzamento continuo tra azioni, credenze e aspettative che assicura l'osservanza volontaria delle convenzioni nel tempo. Lewis discute tre modi in cui si può raggiungere la coordinazione di azioni, credenze 51 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE e aspettative: tramite accordo, sulla base di un precedente e per mezzo della salienza. Il primo tipo non è evidentemente consistente con la soluzione ricercata dai humeani. Risulta inoltre inadeguato per l'obiettivo che si prefigge lo stesso Lewis, l'origine delle convenzioni linguistiche: in che lingua comunicano coloro che stabiliscono il significato da attribuire alle parole? Il secondo tipo non evita le critiche di circolarità che i humeani e lo stesso Lewis hanno mosso contro i contrattualisti. Una teoria fondativa delle convenzioni linguistiche e sociali deve essere in grado di spiegare sia come si raggiunge un equilibrio di coordinazione sia il processo attraverso il quale un singolo atto di coordinazione arriva a stabilire un precedente valido. È possibile infatti che la coordinazione sia raggiunta per caso. Ciò non è però sufficiente per stabilire un precedente a livello di gruppo per almeno due ragioni: primo perché si possono avere diverse istanze di coordinazione accidentale non coincidenti; secondo perché non esiste ragione alcuna per supporre che un fatto accidentale del genere possa cambiare la struttura delle interazioni successive. Solo il terzo tipo sembra consistente con le premesse accettate da Lewis e dai humeani ed è questo che prendiamo perciò in considerazione. La salienza: elemento endogeno o esogeno? La nozione di salienza è stata originariamente proposta da Thomas Schelling in un saggio del 1960 in cui vengono messi in luce i difetti dell'allora nascente teoria dei giochi. Schelling contrappone i modelli assiomatici utilizzati dai teorici dei giochi con i comportamenti delle persone reali in situazioni analoghe. Nel capitolo terzo in particolare, Schelling discute i giochi di coordinazione attraverso una serie di esperimenti condotti dall'autore stesso su campioni di persone. La conclusione a cui arriva Schelling è che nel mondo reale le persone sono in grado di evitare i problemi di coordinazione che affliggono gli agenti ideali. Schelling nota come la percentuale elevata di successi che si riscontra negli esperimenti da lui condotti è dovuta al fatto che le persone concentrano l'attenzione su caratteristiche contestuali uniche che li portano a convergere su un singolo equilibrio. Come l'autore stesso spiega: "la caratteristica principale delle 'soluzioni' ai problemi [di coordinazione], sarebbe a dire le intuizioni, o elementi coordinatori, o punti focali, è data da un genere di prominenza o alterità (conspicuousness). Ma si tratta di una prominenza che dipende da tempo, luogo e tipo di persona" (1960: 57). Per Schelling le persone reali riescono a risolvere i problemi di coordinazione perché attribuiscono significato ad elementi del contesto che per gli agenti ideali sono irrilevanti. Si tratta inoltre di un significato che risulta condiviso dai membri del gruppo. Nel riportare i risultati degli esperimenti discussi da Schelling, Lewis afferma quanto segue: "in ambiti sperimentali individui sofisticati possono raggiungere buoni risultati superiori a quelli dovuti al caso - nel risolvere problemi di coordinazione nuovi senza comunicare. Quello che li spinge è la ricerca di un equilibrio che risulta per qualche ragione saliente: la cui unicità lo mette in evidenza rispetto al resto. Non deve essere unico in senso positivo, infatti può essere unico in modo affatto negativo. Quello che importa è che sia unico in modi che i soggetti possono notare, si aspettano che gli altri li notino, e così via. Se equilibri di coordinazione sono differenti in modi diversi, gli individui debbono essere in grado di definire criteri di valutazione e comparazione simili; e di solito questi sono abbastanza simili per risolvere il problema" (1969: 35). Secondo Lewis agenti razionali che si trovano di fronte ad una pluralità di equilibri equivalenti sono, al pari di quelli reali, in grado di: (i) (ii) (iii) identificare piccole differenze che distinguono gli equilibri stabilire la rilevanza relativa fra queste differenze scegliere l'equilibrio che risulta più prominente Siccome il processo di identificazione e classificazione è identico per tutti i giocatori, questi finiranno per convergere sullo stesso equilibrio. In termini procedurali, agenti con una razionalità limitata adotteranno quindi la seguente regola decisionale: cerca fra i possibili equilibri quello più prominente e una volta identificato scegli il corso d'azione connesso con 52 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE questo. Malgrado l'interesse suscitato dal lavoro di Lewis, la soluzione proposta solleva notevoli dubbi. Innanzitutto la nozione di salienza non risulta facilmente compatibile con le premesse epistemologiche sulle quali si basa la teoria dei giochi. Negli esperimenti di Schelling, la salienza è un elemento del contesto in cui gli individui interagiscono; dipende quindi dalle caratteristiche delle persone e dei gruppi scelti dall'autore. I punti focali descritti da Schelling hanno perciò significato solo per coloro che condividono lo stesso contesto e le stesse caratteristiche: lingua, modi di vedere, cultura, valori, etc. La loro esistenza è connessa cioè con l'esistenza di identità collettive discrete e durature. Nella teoria dei giochi tutti questi dettagli contestuali sono rimossi per concentrare l'attenzione dell'analista sulla struttura formale delle decisioni individuali. Qui le azioni degli agenti dipendono dall'utilità attesa per ogni corso d'azione (assunzione di razionalità strumentale) e dal fatto che tale relazione causale è un qualcosa di cui tutti sono coscienti (assunzione di conoscenza comune). Questo significa che le sole informazioni disponibili agli agenti sono quelle relative ai pay-offs e all'abilità nel replicare il ragionamento della controparte. Per potere utilizzare il concetto di salienza in maniera consistente con le assunzioni della teoria dei giochi, Lewis deve dimostrare due cose: che gli agenti sono in grado di distinguere fra equilibri che sono salienti ed equilibri che non lo sono in modo univoco e che l'identificazione dell'equilibrio saliente porta i giocatori ad adottare il corso d'azione connesso con lo stesso. L'intero processo non deve inoltre portare ad una riscrittura del gioco attraverso la modifica dei pay-offs o un aumento della complessità descrittiva del gioco stesso. In merito a questi problemi le risposte avanzate sia da Lewis sia da altri pensatori humeani impegnati in tale progetto di ricerca si sono dimostrate del tutto insoddisfacenti. Prima di tutto, Lewis non riesce ad esplicare il processo secondo cui gli agenti arrivano a distinguere tra equilibri salienti ed equilibri non salienti. Delle volte l'autore da l'impressione che la salienza sia dovuta a delle caratteristiche ambientali, mentre altre volte sembra propendere per un tipo di spiegazione che concepisce la salienza come connessa con la struttura psicologica degli agenti. In entrambi i casi la salienza finisce per dipendere da elementi esterni non derivabili né dalla struttura dei pay-offs né dall'assunzione di conoscenza comune. Lewis assume inoltre che la tendenza a scegliere il corso d'azione connesso con gli equilibri salienti è meccanica: la salienza supplisce ragioni per agire quando non esistono ragioni per agire altrimenti. Anche in questo caso la derivazione non é connessa in maniera alcuna con i pay-offs o con la nozione di razionalità, ma sembra un elemento esogeno, una specie di deus ex machina che permette ai giocatori di uscire dal labirinto epistemico in cui li ha condotti il ragionamento strategico. Come Marina Bianchi acutamente nota: "per una convenzione potere emergere dobbiamo assumere l'esistenza di una meta-regola, quale l'abilità dei giocatori nell'apprendere o nell'introdurre nuove mosse (modelli, routine, simboli). Entro le regole del gioco nessuna soluzione univoca potrà mai emergere spontaneamente o endogenamente" (1994: 247)7. Il progetto humeano finisce così per mettere ancora una volta in evidenza le difficoltà epistemiche in cui incorrono le teorie dell'azione individualistiche. Istruttivo in questo caso è il fatto che a differenza del dilemma del prigioniero qui il problema non è dovuto all'esistenza di un conflitto di interessi ma all'inabilità degli agenti a superare i limiti posti dal loro ragionare isolatamente. Risulta infine chiaro che i difetti delle teorie individualiste non sono dovute alla struttura deduttiva propria dei modelli razionalistici, come sostenuto dai humeani. Un approccio di tipo induttivo riproduce infatti problemi identici a quelli imputati alle teorie razionalistiche. Il risultato sembra quindi deporre contro l'idea stessa che i fenomeni sociali siano il risultato delle azioni strategiche di individui autointessati, abitudinari e limitatamente generosi. CONVENZIONI, MOTIVAZIONI E NORME I humeani concepiscono la morale come un sistema di regole che gli individui appartenenti ad una data comunità osservano e riconoscono come valide perché ritenute giuste. Il senso di 53 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE giustizia che porta all'osservanza di tali regole rappresenta, a sua volta, il risultato di dinamiche storiche che possono essere ricostruite genealogicamente. Per Allan Gibbard (1992), l'approccio genealogico humeano si basa sull'idea che concetti normativi complessi (thick) quali fiducia, onesta, lealtà e obbligo politico possono essere spiegati per mezzo di concetti avalutativi semplici: dinamiche adattative di tipo darwinista. In maniera simile, Francis Snare (1991) afferma che Hume persegue una doppia epistemologia riduzionista la quale prima riduce il senso di giustizia all'osservanza di convenzioni e poi le convenzioni a semplici regole comportamentali. Dato l'isomorfismo tra teoria delle convenzioni e teoria dei sentimenti morali, esiste quindi il sospetto che l'intera impresa humeana sia destinata al fallimento. Se risulta impossibile spiegare come individui isolati possano dare vita ad una convenzione sociale, non sorge un problema logico analogo quando cerchiamo di ridurre le regole morali all'accordo tacito tra portatori di valori etici soggettivi diversi? Diversi pensatori hanno cercato di evitare l'obiezione attraverso la separazione tra questioni relative alle origini di regole e convenzioni e questioni relative all'osservanza delle stesse. Nel caso dei titoli di proprietà individuale discussi da Hume, si può benissimo, suggeriscono i humeani, assume che questi emergono come appropriazioni di fatto. La questione da indagare riguarda allora i meccanismi che portano tali appropriazioni a trasformarsi in titoli de jure: titoli rispettati volontariamente perché ritenuti giusti. Nel linguaggio della teoria dei giochi ciò equivale e separare l'analisi degli equilibri che porta alla generazione di convenzioni sociali dall'analisi della stabilità evolutiva degli equilibri stessi. Secondo questa prospettiva il problema delle origini è di natura storica ed ha quindi scarsa rilevanza analitica. La teoria può benissimo assumere che i vari equilibri di coordinazione sono raggiunti per puro caso e concentrare l'attenzione sulla dinamica che porta alcune convenzioni piuttosto che altre a diffondersi e acquisire validità universale. Anche in questo caso l'egoismo psicologico sottoscritto dai modelli neo-hobbesiani viene integrato con l'introduzione di ulteriori elementi motivazionali mirati ad aumentare il realismo della teoria: l'idea di abitudine discussa prima e la nozione di simpatia8. L'approccio genealogico humeano si basa su un tipo di struttura argomentativa che nel linguaggio filosofico corrente viene identificata come 'utilitarismo della regola'. L'utilitarismo della regola stabilisce che l'oggetto dell'analisi costi-benefici operata dagli agenti non deve avere come riferimento le singole azioni, ma l'abilità di una regola nel ridurre i costi dovuti al ragionamento strategico degli agenti e incrementare i benefici della cooperazione sociale. Tale interpretazione è consistente con l'affermazione di Hume secondo cui non sono i benefici che possiamo ricavare da un singolo atto di giustizia che rendono questo atto virtuoso, ma l'esistenza di regole generali che richiedono un'applicazione inflessibile. Ciò, afferma infatti il filosofo scozzese, "non solo ci familiarizza con tutto ciò che abbiamo goduto a lungo, ma ci comunica anche un affetto per questo qualcosa, e ce lo fa preferire ad altri oggetti che possono anche avere un valore maggiore" (1740, parte III, sez. I). In altre parole, l'utilitarismo della regola serve per spiegare come sia possibile l'evoluzione dei sentimenti morali senza cadere nell'errore di assumere l'esistenza di una tendenza ad agire giustamente prima dell'instaurazione di regole di giustizia. In questa sezione consideriamo tre diversi resoconti del processo che porta all'osservanza di convenzioni sociali. Ogni resoconto è relativo ai diverse tipi di interazione strategica che hanno luogo nello stato di natura. Il primo concerne le convenzioni prodotte da giochi di coordinazione pura; il secondo quelle che emergono nei giochi misti quali il chicken game; il terzo tratta infine la funzione delle sanzioni informali e degli effetti reputazionali nel promuovere l'osservanza in contesti dove l'azione collettiva ha una forma conflittuale. Stare sulla stessa barca e logica canottieri Hume inizia la discussione sulle convenzioni chiarendo come queste non derivano da promesse alcune ma dalla consapevolezza generale di un interesse comune. Sarebbe a dire, un interesse sul quale esiste un accordo intersoggettivo di fondo, sebbene questo sia di natura tacita e 54 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE irriflessiva. L'esempio che il filosofo scozzese utilizza per chiarire il concetto è il seguente: "due uomini che sospingono una barca a forza di remi lo fanno in virtù di un accordo o di una convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca. La regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla" (1740, parte II, sez. II). Nell'esempio le regole che definiscono i diritti di proprietà individuale sorgono in modo naturale e meccanico, come l'abilità degli individui nel remare in modo sincronico. Come anticipato, David Lewis equipara l'esempio di Hume ad un gioco di coordinazione pura del tipo descritto in figura 3.1. Una volta che uno dei due equilibri di coordinazione viene raggiunto ognuno ha interesse a rispettare i titoli di proprietà e a non violare i diritti altrui. L'equilibrio, infatti, da luogo a dinamiche autorafforzantesi che assicurano la stabilità evolutiva dell'intero sistema. L'identificazione del processo che porta all'instaurazione di titoli di proprietà individuale con l'esempio suggerito da Hume e l'equiparazione di tale esempio con i giochi di coordinazione pura operato da Lewis non sembrano però del tutto convincenti. Iniziamo con il considerare l'equivalenza fra l'esempio suggerito da Hume e i giochi di coordinazione pura. Come visto, un gioco di coordinazione pura è caratterizzato dal fatto di avere due equilibri di Nash equivalenti: D-D e S-S. Questo significa che entrambi rappresentano convenzioni potenzialmente valide, quale lo guidare sul lato destro della strada o su quello sinistro. Nell'esempio suggerito da Hume non è però chiaro se esistano alternative equivalenti e quali siano. Supponiamo che i due hanno la possibilità di utilizzare un remo ciascuno. Le alternative disponibili ai rematori sono allora tre: (i) (ii) (iii) entrambi remano (assumiamo, per semplicità, nella stessa direzione) uno rema mentre l'altro riposa (o pretende di remare) entrambi riposano (o pretendono di remare) Nel primo caso il gioco porta ad una coordinazione degli sforzi benefica per entrambi. Nella seconda eventualità il risultato più probabile è quello di sfiancare colui che rema solo per fare muovere la barca in circolo. La terza alternativa lascia la barca in balia delle correnti. Una rappresentazione delle alternative in forma di matrice ci darebbe il seguente gioco dei canottieri. Agente A Agente B Rema Riposa 1;1 4;2 2;4 3;3 Rema Riposa Figura 3.2. Gioco dei canottieri La matrice è identica al gioco della caccia al cervo discussa nel capitolo precedente. In quanto tale il gioco ha un equilibrio (Rema-Rema) che non ha equivalenti. Se questo è il caso, i giocatori non hanno alternative tra le quali scegliere. Esiste solo un corso d'azione razionale: quello di remare. In una situazione del genere l'autointeresse rappresenta una forza motivazionale sufficiente per fare convergere i rematori sull'equilibrio paretiano. L'esempio di Hume non ci dice se un solo rematore può manovrare la barca, o se i due giocatori hanno la stessa destinazione in mente. Informazioni del genere sono però cruciali per definire i pay-offs del gioco e quindi le strategie disponibili. Se infatti un solo giocatore può manovrare la barca e non è possibile osservare il comportamento dell'altro adeguatamente, esiste la probabilità di comportamenti opportunistici dove uno pretende di remare e sfrutta gli sforzi dell'altro. Alternativamente, se i due rematori hanno in mente due destinazioni diverse la 55 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE regata nemmeno inizierà. In altre parole, l'esempio implicitamente assume la coincidenza di fini e mezzi: non solo esiste un solo obiettivo comune ma anche un solo corso d'azione per potere realizzare tale obiettivo. Nel caso in cui la coincidenza non esiste il coordinamento meccanico descritto da Hume risulta del tutto improbabile. Consideriamo per esempio la situazione dove non esiste la possibilità di controllare l'azione della controparte e non esiste fiducia reciproca. Come nel caso della caccia al cervo descritto prima, siccome non esiste la possibilità di portare a termine l'impresa da soli, l'alternativa razionale ci consiglia di minimizzare i costi: nell'esempio di Rousseau ciò comporta abbandonare la caccia al cervo per cacciare la lepre e assicurasi almeno la cena; nel gioco dei canottieri l'alternativa sembra invece essere quella pretendere di remare e riposarsi. Due conclusioni emergono da questa discussione. Primo: giochi di coordinazione pura non presentano problemi di osservanza solo quando non esiste incertezza epistemica, altrimenti l'osservanza di una regola diventa molto più complicata di quando suggerito dai humeani. E' bene notare comunque che nel caso in cui non esiste incertezza epistemica e l'osservanza è meccanica, la nozione di obbligo diventa del tutto superflua. Secondo: giochi di coordinazione pura e giochi misti come la caccia al cervo e il gioco dei canottieri non sempre hanno la stessa struttura logica dato che in un caso esistono equilibri alternativi equivalenti mentre nell'altro si hanno equilibri che dominano paretaniamente tutti gli altri. Le due logiche non debbono essere confuse, ne sembra appropriato utilizzare la logica connessa con uno per arrivare alla soluzione dell'altro. Diritti di proprietà e ineguaglianze distributive Esiste un tipo di giochi misti che secondo alcuni teorici cattura la logica dei diritti di proprietà discussi da Hume in modo più adeguato rispetto sia ai giochi di coordinazione pura sia al gioco della caccia al cervo o dei canottieri. Il gioco in questione è il chicken game. Le origini del gioco risalgono alle sfide fra bande giovanili rivali nella California degli anni '50; sfide immortalate nel film Gioventù Bruciata il cui protagonista è James Dean. Nel gioco due giovani appartenenti a gruppi rivali si sfidano guidando ad alta velocità l'uno contro l'altro. Il gioco può concludersi in tre modi: nel primo caso il più coraggioso mantiene la traiettoria mentre colui che ha paura all'ultimo momento sterza per evitare l'impatto frontale e fa la figura del pollo; nel secondo caso entrambi sterzano all'ultimo minuto e fanno entrambi la figura dei polli; nell'ultimo nessuno dei due sterza e si ha un impatto frontale violento. La similitudine con i diritti di proprietà è dovuta all'idea che nello stato di natura i titoli di proprietà dipendono dalla forza fisica e dalla disponibilità a combattere per acquisire o difendere le proprietà acquisite. In questo contesto si parla anche di 'falchi' e 'colombe' e il gioco è spesso identificato con questo nome. Da un punto di vista formale il gioco ha la struttura riportata in figura 3.3. Giocatore A Fugge Attacca Giocatore B Fugge Attacca R;R S;T T;S P;P Figura 3.3. Chicken game Le caratteristiche del gioco sono le seguenti: (i) T > R > S > P (ii) 2R = T + R > 2P (iii) R − P = S La prima condizione riguarda i pay-offs e ci dice che le preferenze individuali sono del 56 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE seguente tipo: • • • • la situazione preferita al di sopra di tutte è quella relativa alla combinazione strategica AF, attaccare quando si è certi che la controparte fuggirà al secondo posto c'è la combinazione strategica FF, fuggire entrambi (o evitare di attaccare) al terzo posto si ha la combinazione strategica FA, fuggire quando si è certi che l'altro attaccherà la situazione che entrambi vorrebbero evitare è AA, l'attacco reciproco La logica sottostante il gioco è che nel caso ci si confronta con un avversario disposto ad attaccare ad ogni costo, l'azione razionale consiste nel fuggire ed evitare i costi dello scontro. Il gioco si differenzia così dal dilemma del prigioniero dove attaccare per primo è l'unica strategia ottimale. Nel contesto del chicken game è la fuga a rappresentare la soluzione di maximin. Nota però che nel caso ci si trovi al cospetto di una colomba (o di un pollo), conviene pretendere di essere un falco disposto ad attaccare. In questo senso il gioco è simile al Poker dove il bluffing consente di vincere somme notevoli. Una seconda caratteristica che contraddistingue il gioco riguarda la relazione tra ottimalità paretiana e razionalità individuale. A differenza del dilemma del prigioniero le due non risultano irrimediabilmente opposte. Mentre, infatti, nel dilemma del prigioniero 2R > T + S, nel chicken game 2R = T + S con S > P. Tale condizione è inoltre importante perché serve a distinguere il chicken game dal gioco della battaglia dei sessi dove 2R < T + S. La struttura dei pay-offs ci dice inoltre che il chicken game ha tre equilibri di Nash: due corrispondono alle combinazioni strategiche AF e FA mentre il terzo è un equilibrio di strategie miste dove i giocatori adottano la strategia A (F) con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P). In uno stato di natura strutturato come un chicken game, l'utilità attesa relativa alla strategia A è superiore a quella di F solo quando esiste una probabilità p < (S − P)/(T + S − R − P); quando la probabilità è p > (S − P)/(T + S − R − P) risulta più conveniente adottare la strategia F; quando p = (S − P)/(T + S − R − P) l'adozione di A o F è del tutto indifferente. Se il gioco è simmetrico e anonimo la relazione di indifferenza rende la strategia mista l'unico corso d'azione razionale. Bisogna notare comunque che le conseguenze a cui porta l'adozione della strategia 'gioca A (F) con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P)' sono tutt'altro che confortanti. Un equilibrio misto del genere riproduce infatti lo stato di natura conflittuale descritto da Hobbes. Consideriamo ora il significato della terza condizione elencata sopra. Questa ci dice che sebbene la strategia mista rappresenta il corso d'azione razionale, non è però un corso d'azione dominante. Esistono infatti i due equilibri AF e FA che assicurano ai giocatori benefici potenziali equivalenti. E' questa opportunità che rende il chicken game meno ostico da risolvere rispetto al dilemma del prigioniero e ha richiamato l'attenzione di diversi pensatori. Politologi come Michael Taylor (1987) hanno infatti utilizzato il gioco per dimostrare come sia possibile produrre beni pubblici malgrado l'esistenza di opportunisti che beneficiano di tali beni senza pagarne i costi. Zoologi come John Maynard Smith (1982) hanno invece visto il gioco come adatto a formalizzare la competizione tra animali della stessa specie e quella tra specie diverse. Mentre economisti come Robert Sugden (1986) hanno cercato di chiarire come le pratiche adattive che operano nel mondo animale possono essere utilizzate per spiegare perché gli individui finiscono per osservare appropriazioni di fatto. Come si arriva ad una soluzione del chicken game che eviti il conflitto hobbesiano? Sugden (1986) rappresenta il tentativo più significativo di formalizzare il processo che porta alla creazione di diritti di proprietà secondo una logica humeana. Il punto di partenza dell'economista inglese è un chicken game ripetuto continuamente. La ripetizione del gioco porta, secondo l'autore, ad un equilibrio dove i giocatori fanno la parte dei falchi e delle colombe a turno. Questo non solo finisce per produrre un equilibrio superiore a quello delle strategie miste, ma sviluppa dinamiche autorafforzantesi che rendono l'equilibrio evolutivamente stabile. Il ragionamento di Sugden è il seguente: "se un giocatore ha fiducia nel fatto che la 57 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE strategia adottata dal suo opponente è del tipo 'se giochi come giocatore A scegli "falco", se giochi come B scegli "colomba"', la cosa più sensata che può fare è quella di adottare la stessa strategia. Questo equilibrio è equivalente ad un sistema rudimentale di diritti di proprietà de facto dove i diritti sulle risorse contese sono attribuiti ai giocatori A. Dire che un equilibrio del genere è stabile significa che questi diritti di proprietà saranno osservati volontariamente. [...] La ripetizione del gioco falco-colomba porta all'evoluzione di alcune convenzioni di proprietà. [...] Così se prendiamo il gioco falco-colomba come il modello di riferimento per lo stato di natura hobbesiano, la conclusione di Hobbes risulta impropriamente pessimistica: se una società si trova inizialmente in uno stato di guerra di 'tutti contro tutti' e gli individui perseguono il loro interesse personale un sistema di diritti di proprietà stabili può evolvere spontaneamente" (1986: 70-1). Come nel caso di Hume, Sugden non rende del tutto esplicite le assunzioni sulle quale si basa tale argomentazione. Innanzitutto la convenienza ad adottare la strategia 'se giochi come giocatore A scegli "falco", se giochi come B scegli "colomba"' dipende dalla possibilità che gli individui hanno di poter assumere i due ruoli con una probabilità di almeno il 50%. In caso alcuni giocatori hanno una probabilità inferiore al 50% di poter giocare come titolare di diritti, la strategia mista 'attacca con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P)' risulta più conveniente. Questo equivale a dire che uno stato di natura caotico alla Hobbes è da preferire ad uno stato civile in cui alcuni usufruiscono dei benefici garantiti da diritti di proprietà esclusivi, mentre altri ne sono permanentemente esclusi. L'isomorfismo tra comportamenti umani e animali invocato da Sugden per giustificare l'osservanza di regole di proprietà di fatto solleva più problemi di quelli che risolve. Se è lecito assumere che nei conflitti animali l'alternanza dei ruoli è all'incirca del 50%, e il vincitore di oggi è il perdente di domani, lo stesso non si può dire per quando riguarda quelli umani. Nelle società umane le acquisizioni sono di gran lunga superiori a quanto un individuo può consumare e difendere personalmente. La trasmissione ereditaria dei diritti fa inoltre si che alcune categorie di persone si trovano in una situazione dove la probabilità di acquisire diritti di proprietà è di molto inferiore al 50%. Più che refutare Hobbes, l'analisi di Sugden sembra formalizzare una critica tradizionalmente rivolta allo stesso Hume: quella secondo cui le argomentazioni humeane hanno forza motivazionale solo per coloro che possiedono quote significative di proprietà. Per avere forza motivazionale universale il modello humeano deve infatti presupporre l'esistenza di criteri equivalenti alle clausole di Locke: clausole che assicurano che l'appropriazione da parte di alcuni lascia abbastanza risorse dello stesso valore a tutti gli altri (1690, II, § 27). Clausole siffatte non sono però derivabili dalle premesse scelte, e ciò rende il modello humeano inadatto a giustificare un sistema di diritti di proprietà esclusivi ed inflessibili. Reciprocità, costi reputazionali e sanzioni informali Assumiamo per ragioni teoriche che gli agenti humeani riescano nell'impresa di stabilire una convenzione del tipo 'se giochi come giocatore A scegli "falco", se giochi come B scegli "colomba"': è una convenzione di questo tipo stabile da un punto di vista evolutivo? La risposta è tutt'altro che positiva. Come anticipato, in un chicken game dove è conoscenza comune che un numero elevato di giocatori è disposto ad adottare una strategia del genere esiste la convenienza a pretendere di essere un falco e quindi a violare la percentuale relativa necessaria per avere l'alternanza dei ruoli ottimale (50%). Come è possibile controllare tale comportamento deviante ed evitare gli effetti distruttivi che ciò comporta nel lungo periodo? La risposta di Hume è la seguente: "ogni singolo atto di giustizia considerato di per se stesso [non] conduce all'interesse privato più di quanto conduca all'interesse pubblico; ed è facile capire come un uomo possa impoverirsi con un solo atto di esemplare integrità, e avere ragione di desiderare che, per quanto riguarda questo singolo atto, le leggi della giustizia vengano per un momento sospese in tutto l'universo. Ma sebbene singoli atti di giustizia possano essere contrari all'interesse pubblico o a quello privato, è certo che il piano e lo schema 58 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE nel suo complesso è estremamente utile, anzi assolutamente necessario, tanto come sostegno per la società quanto per il benessere di ogni individuo [...] ogni singola persona deve trovarvi un guadagno, alla resa dei conti; infatti, senza giustizia la società dovrà immediatamente dissolversi" (1740, parte II, sez. II). In breve, Hume ritiene che gli individui sono in grado di calcolare i costi e i benefici di lungo periodo relativi alla violazione e concludere che è bene applicare la convenzione in modo inflessibile. Il ragionamento di Hume ha dato adito a diverse letture. L'argomento è stato spesso presentato come un'osservazione empirica che spiega perché le persone solo di rado danno vita ai paradossi in cui incorrono agenti razionali ideali. Gli individui reali percepiscono chiaramente i disastri personali e sociali a cui possono portare le strategie opportunistiche ed è per questo che si astengono dal metterle in atto. La spiegazione si basa però su un utilizzo altamente selettivo dell'evidenza empirica disponibile. Come infatti lo stesso Hume ci ricorda, esiste evidenza che suggerisce come "non sia affatto contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero al graffio del mio dito. [...] o scegliere la mia completa rovina per prevenire il minimo disagio ad un Indiano, o ad una persona completamente sconosciuta" (1739, II, parte III, sez. III). Analiticamente, l'argomento di Hume fa appello all'abilità individuale nel valutare l'utilità attesa di lungo periodo per corsi d'azione alternative e nello scegliere l'alternativa che massimizza gli interessi dell'agente. A parte i problematici calcoli interpersonali delle utilità che ciò richiede, la validità di un argomento simile dipende dall'esistenza di una chiara relazione causale tra il violare la convenzione e la disintegrazione della convenzione stessa all'interno della comunità di riferimento. Una assunzione del genere è però talmente impegnativa che nelle Inchieste lo stesso Hume è portato a riconoscere come l'argomento non ha alcuna forza deterrente nei confronti "di un imbroglione scaltro [il quale] capisce che un atto iniquo o sleale può portare ad un aumento considerevole delle sue fortune senza causare nessuna rottura dell'unione sociale di rilievo" (1751, sez. IX, part. II). Più recentemente alcuni pensatori humeani hanno fatto ricorso ad un diverso tipo di soluzione al problema dell'osservanza: una soluzione che si basa sui costi reputazionali connessi all'azione fraudolenta. La logica sottostante questa soluzione è espressa in modo esemplare da Anthony de Jasay: "Se una parte preponderante della società ritiene che mantenere le promesse sia un dovere morale, il venire meno alla promessa o la violazione dei contratti provocherà la reazione negativa di un circolo di persone più ampio rispetto a quello della vittima e dei suoi alleati naturali. Le sanzioni sociali rappresentano forme primitive di applicazione (enforcement) imparziale di sanzioni da parte di terzi. Si tratta forse di un'applicazione di sanzioni imperfetta, ma rappresenta non di meno un tipo di applicazione che ha luogo anche nella completa mancanza di un sistema di giustizia formale creato dal potere sovrano. Colui che riceve una promessa ed è vittima di violazioni può contare sulla disposizione favorevole di osservatori neutrali e sul loro aiuto. Colui che viola ha motivo di temere la reazione ostile di questi osservatori e la loro riluttanza ad avere rapporti con lui in futuro ed eventualmente le loro pressioni sono sufficienti a garantire forme di compensazione per le vittime" (1991: 65-6). L'argomento di de Jasay solleva obiezioni simili a quelle espresse prima. Se l'affermazione è di carattere empirico, non risulta affatto difficile provare come le sole sanzioni informali risultano spesso del tutto ineffettive ed espongono le comunità che si basano esclusivamente su di esse alle strategie predatorie di gruppi ed individui. Da una prospettiva analitica, i meccanismi reputazionali identificati da de Jasay sollevano almeno tre tipi di obiezioni riguardanti rispettivamente: • • • la relazione tra simpatia e benevolenza il legame tra simpatia e imparzialità le connessioni tra simpatia e ragione pratica La psicologia morale di Hume concepisce la simpatia come inestricabilmente connessa con la conoscenza diretta delle persone con le quali si simpatizza o con il tipo di situazione nella 59 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE quale queste sono coinvolte. Tale posizione è coerente con l'affermazione del filosofo scozzese secondo cui non esiste una passione che porti alla benevolenza universale e con l'idea che gli individui possono provare simpatia solo con quanto hanno esperito personalmente. Questo comporta notevoli restrizioni riguardo al pubblico sul quale colui che è stato danneggiato può contare. Se con l'espressione "un circolo di persone più ampio rispetto a quello della vittima e dei suoi alleati naturali" de Jasay intende includere persone estranee sia alla vittima sia al tipo di esperienza vissuta dalla vittima, la spiegazione va oltre i limiti del modello humeano. Il riferimento ad una 'conoscenza diretta' o 'esperienza in prima persona' solleva inoltre dubbi sull'imparzialità del giudizio di approvazione o disapprovazione espresso da soggetti terzi. Se per esprimere simpatia gli agenti humeani debbono avere una certa familiarità con persone e situazioni in che senso possono questi esprimere un giudizio imparziale? Non saranno le colombe portate a solidarizzare con le vittime e i falchi con gli assalitori? L'espressione di simpatia da parte di osservatori neutrali richiede inoltre l'abilità di distinguere in modo certo tra violatore e vittima, altrimenti ci si può trovare di fronte a conflitti dovuti a: (i) punti di vista divergenti riguardo a chi a fatto cosa (ii) quale convenzione si applica al caso in questione, o anche (iii) l'esistenza di convenzioni alternative fra le quali scegliere L'applicazione di una sanzione informale dipende infine non solo dall'abilità di identificare il responsabile della violazione con certezza, ma anche quella di riconoscere il soggetto in futuro. In altre parole, le strategie reputazionali funzionano solo quando non esiste incertezza epistemica e l'interazione non è anonima9. Supponiamo comunque che la situazione permetta di evitare ambiguità di ogni sorta e porti osservatori neutrali ad esprimere giudizi imparziali di disapprovazione verso i violatori. E' questo sufficiente per motivare soggetti terzi ad intervenire a favore della vittima? Quando prendiamo in considerazione la struttura psicologica degli agenti humeani il problema diventa tutt'altro che banale. Innanzitutto, Hume afferma in modo esplicito come la ragione e l'analisi ponderata non sono in grado di motivare ad agire. Se questo è così, l'espressione di un giudizio imparziale di condanna non determina un impulso ad intervenire in difesa della vittima. In secondo luogo, agire implica dei costi. Per gli osservatori neutrali ciò significa valutare i costi impliciti nell''immischiarsi negli affari degli altri' e i benefici indiretti che tale comportamento può avere nel mantenere in piedi il sistema dei diritti di proprietà. Occorre inoltre considerare che nel caso la violazione implica soggetti criminali e l'uso della forza fisica i costi di un intervento possono risultare estremamente elevati; anche perché spesso la reazione verso terzi che si sono immischiati negli affari altrui assume la forma di vere e proprie convenzioni retributive. Non è un caso che lo stesso Hume arriva a riconoscere come "la simpatia che provo per un altro mi può portare a provare un sentimento di dolore e di disapprovazione ogni volta si è in presenza di un qualcosa che ha la forza di turbare tale persona, ma al tempo stesso posso non essere disposto a sacrificare nessun mio interesse, o alterare nessuna mia passione per la sua soddisfazione" (1740, parte III, sez. I). GENEALOGIA DELLA MORALE E GIUSTIFICAZIONE DELL'ORDINE LIBERALE Diversi pensatori hanno visto la genealogia della morale di Hume come un potente strumento per la giustificazione di valori, principi normativi e istituzioni sociali. John Mackie ritiene che l'analisi della stabilità relativa di convenzioni alternative possa servire per elaborare una epistemologia negativa in grado di chiarire i "limiti intrinseci di ogni sistema normativo praticabile, limiti che debbono essere tenuti in considerazione ogni qualvolta si invocano principi morali o si propongono riforme delle attitudini morali esistenti" (1982: 153). Per Hayek l'analisi genealogica è la precondizione per arrivare ad un 'criticismo immanente' delle nostre 60 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE istituzioni sociali: "la sola base per un esame critico delle regole morali e legali" (1982, ii: 24). L'autore austriaco ritiene infatti che "Hume vide con chiarezza la connessione fra queste analisi [genealogiche] e la libertà e come la maggiore libertà di tutti richiede limiti alla libertà di ciascuno attraverso l'imposizione di ciò che lui chiama le tre 'fondamentali leggi di natura': 'la stabilità del possesso, la sua trasmissibilità per consenso e il rispetto delle promesse'" (1988: 34). L'analisi genealogica assolve quindi sia una funzione scientifico-esplicativa sia una eticoprescrittiva. Il suo scopo non è solo quello di chiarire come emergono i sentimenti morali ma anche come questi limitano la possibilità di riformare le regole morali e legali ereditate. Sulla forza giustificativa dell'analisi genealogica di Hume si è espresso anche Hans Lottenbach in un istruttivo saggio del 1996. L'autore confronta gli approcci di Hume e Nietzsche e nota come in entrambi i casi l'analisi genealogica ha un chiaro obiettivo prescrittivo. Nel caso di Hume questo consiste nel dimostrare come sebbene le regole morali abbiano una natura convenzionale esse non sono affatto arbitrarie ma sono indispensabili per il benessere collettivo. Nietzsche, dal canto suo, vede l'analisi genealogica come un strumento per dimostrare come le regole morali non siano altro che la reificazione di relazioni di potere e sentimenti di risentimento. Queste affermazioni sollevano due problemi. Il primo riguarda la reale portata delle giustificazioni supplite dall'analisi genealogica humeana: sono queste relative all'obbligo politico in società avanzate o riguarda i sentimenti di lealtà che emergono in gruppi sociali ristretti? Il secondo problema è invece relativo al contenuto della giustificazione: è la genealogia della morale humeana in grado di giustificare l'ordine liberale? Entrambe le domande hanno un aspetto pratico ed uno teorico. L'aspetto pratico è dato dalla possibilità di potere utilizzare l'analisi genealogica come una alternativa plausibile alle teorie della giustizia di derivazione kantiana e neo-hobbesiana. L'aspetto teorico riguarda invece la consistenza interna del progetto di ricerca humeano. Partiamo dal primo problema. Hume sostiene che non è possibile ridurre le questioni riguardanti l'obbligo politico a quelle relative la lealtà individuale. Proprio su questa fallacia l'autore scozzese basa la sua critica del contratto sociale e di Locke in particolare. Un punto di vista simile viene espresso da Hayek. Nel criticare le teorie egalitarie (socialiste o liberali che siano), Hayek afferma che queste si rifanno a concezioni solidaristiche valide per gruppi tribali primitivi. La cornice normativa adeguata allo sviluppo e mantenimento di una società aperta (Great Society) richiede invece il riconoscimento di libertà negative. In entrambi i casi l'idea sottostante è che i sentimenti di lealtà e solidarietà validi in gruppi ristretti non sono appropriati per società complesse con una sofisticata divisione del lavoro e dei ruoli. L'analisi dei modelli humeani portata avanti nella sezione precedente arriva a conclusioni che sono però in contraddizione con queste affermazioni. Nei vari casi da noi analizzati sia l'osservanza delle convenzioni sia l'enforcement operato da terzi avviene solo in contesti dove non esiste complessità epistemica e dove l'interazione non assume forme anonime. Contesti in cui l'interazione è anonima e dove la violazione di una convenzione non porta al crollo della stessa sollevano problemi di free-riding che riproducono lo stato di natura hobbesiano. Le formalizzazioni operate dai humeani sembrano quindi mettere in evidenza che le genealogie della morale proposte hanno un ristretto campo di applicazione. Il secondo problema riguarda l'interpretazione di Hume suggerita da Hayek. L'autore attribuisce a Hume una teoria evolutiva che risulta più corretto attribuire a Darwin. In Hume l'idea di selezione naturale è del tutto assente e solo con Darwin questa prende forma e acquista la rilevanza teorica che ha ora. L'assenza di un meccanismo simile ha importanti implicazioni per la struttura analitica dell'approccio humeano. Senza la nozione di selezione naturale, la teoria di Hume finisce per affermare la razionalità del seguire una regola senza avanzare argomento alcuno circa la razionalità della regola stessa. Come era già stato notata a suo tempo da Sheldon Wolin (1954), l'approccio humeano si basa su una psicologia morale conservatrice in grado di avanzare solo una giustificazione contingente dell'ordine liberale. Secondo questa psicologia morale qualsiasi ordine che riesce ad imporre regole stabili relative al possesso, e trasmissione di beni e al mantenimento delle promesse finirà per sviluppare sentimenti che ne assicurano l'osservanza. Significativa al proposito è la discussione dello stesso Hume riguardo 61 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE alla Gloriosa Rivoluzione. In un saggio del 1742 Hume afferma che la rivoluzione del 1688 era illegittima ma che siccome è stata in grado di assicurare un nuovo ordine sociale stabile non poteva essere più condannata. La conclusione è dunque che l'approccio genealogico humeano ha non solo un campo di applicazione ristretto, ma risulta possedere un dubbio valore sostantivo. Perry Anderson cattura i limiti delle analisi genealogiche humeane in modo esemplare quando afferma che: "i confini del politico racchiudono solo una massa di convenzioni sociali arbitrarie. Per ognuna di queste il linguaggio morale è tanto contingente quanto il passato di coloro che lo parlano e il mondo non è altro che un insieme di dialetti non connessi fra di loro. Non solo, siccome non esiste una comunità moderna con una sola 'sensibilità educata' emerge il pericolo della disintegrazione sociale. La ragione della politica risiede nel conflitto fra codici morali interni allo stesso Stato. E' un fatto questo che il sogno di una società civile non riesce ad offuscare" (1992: 10). Note 1 Non è nostra intenzione discutere la correttezza di tale interpretazione. Occorre comunque notare che a partire da G.E. Moore (1903) i positivisti logici hanno attribuito a Hume la paternità dell'idea secondo cui ogni tentativo di derivare giudizi di valore da preposizioni di fatto incorre in una fallacia naturalistica. Come discusso nell'introduzione, ciò ha portato all'abbandono dell'etica normativa a favore della metaetica. La lettura di Hume proposta dai positivisti logici risulta però altrettanto controversa. Moore, per esempio, non cita il filosofo scozzese nemmeno una volta. L'evidenza testuale è inoltre estremamente ambigua. Hume discute qualcosa vagamente simile alla fallacia naturalistica mooriana solo in un breve passaggio (1740, parte I, sez. I). Qui l'autore afferma che sono i razionalisti a commettere suddetta fallacia ma non che ogni derivazione di un dovere essere da un essere implica una fallacia. Sembra anzi che l'obiettivo di Hume sia appunto quello di dimostrare come tale derivazione sia possibile senza incorrere negli errori dei razionalisti. Se le conclusioni normativi a cui conduce l'approccio humeano coincidono con quelle dichiarate da Hayek è una questione separata che discutiamo alla fine del capitolo. 2 Sulle differenze tra l'approccio contrattualista hobbesiano e quello convenzionale humeano si rimanda ai lavori di Eugenio Lecaldano (1991) e Tito Magri (1995). 3 Cfr. Cristina Bicchieri (1993) la quale chiarisce le difficoltà che ciò comporta per tutti gli approcci microeconomici e la teoria dei giochi in particolare e Victor Vanberg (1986) il quale usa il dilemma del prigioniero per evidenziare le debolezza della teoria della selezione culturale di Hayek. 4 Qui bisogna sottolineare come il problema non risiede nell'utilizzo di una metodologica individualista, ma nel tentativo di attribuire a tale metodologia valore fondativo. Sul punto vedi Galeotti (1988). 5 Lewis suggerisce un esempio che chiarisce la differenza fra seguire una regola e agire strategicamente. Nell'esempio due persone sono al telefono quando la linea improvvisamente si interrompe. Agenti miopi si autodescrivono il problema del come ristabilire la comunicazione come la scelta tra due regole di comportamento da utilizzare in questi casi: (i) è sempre colui che ha chiamato per primo a dover richiamare; (ii) è sempre colui che ha chiamato per primo a dover aspettare di essere richiamato. Ogni altra considerazione o corso d'azione non entra a fare parte del ragionamento degli agenti. Le varie versioni della nozione di razionalità limitata e le implicazioni che queste hanno per la teoria delle decisioni sono discusse da John Conlisk (1996). 6 La supposizione ha un certa plausibilità, dato che spesso in strade secondarie o in cattivo stato si assiste a comportamenti del genere. Sappiamo comunque che storicamente è la convenzione 'a sinistra' quella che si è affermata per prima. Le ragioni che spiegano questa soluzione sono connesse al fatto che i soldati usavano cavalcare sulla sinistra per essere pronti a sguainare la spada in caso di attacco. La convenzione 'a destra' è un fatto relativamente recente e si deve ad un decreto legistativo del governo rivoluzionario francese, il quale fu approvato per segnare il cambio di direzione storica apportato dalla rivoluzione. La diffusione di tale convenzione si deve poi all'opera di Napoleone e all'influenza demografica e culturale della Francia. 7 In Palumbo (2000) discutiamo diversi tentativi di razionalizzare la nozione di salienza. La conclusione a cui arriviamo è che nessuno dei tentativi ha finora portato ad una soluzione plausibile. Una conferma indiretta di tale conclusione è inoltre data dallo sviluppo della teoria dei giochi evolutiva la quale nega la 62 EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE rilevanza stessa dell'approccio perseguito da Lewis. Sui problemi posti da questa svolta cfr. Palumbo (2001). 8 Le varie discussioni hanno come riferimento l'analisi portata avanti da Hume nel terzo libro del Trattato. E' necessario però notare due cose. Primo: nel secondo volume delle Inchieste (1751) Hume propone una revisione radicale dell'analisi contenuta nel Trattato. Secondo: i vari autori humeani discussi qui malgrado prestano un'attenzione pressoché esclusiva al Trattato, si basano in realtà su un'interpretazione del concetto di simpatia come passione naturale che si trova solo nelle Inchieste. 9 de Jasay considera l'assunzione di anonimato del tutto irrealistica. Secondo l'autore nei moderni stati nazionali l'interazione prende forma solo entro e tramite "reti comunicative dove risulta sia semplice sia conveniente accedere a informazioni riguardanti i giocatori con cui si interagirà" (1997: 204). Un argomento del genere confonde l'interazione che ha luogo nello stato di natura con quella che ha luogo nello stato civile. Assume inoltre l'assenza di incertezza epistemica, esternalità, investimenti specifici e di tutte quelle fonti di rischio che gli economisti identificano come costi di transazione. 63 Parte Seconda Etica applicata e governance IV Etica degli affari e teoria dell'impresa Come disciplina autonoma e originale, l'etica degli affari (EDA) nasce negli USA e rappresenta una delle tappe più significative dello sviluppo dell'etica applicata. L'EDA è in questo senso il frutto del dibattito culturale portato avanti dalla filosofia pubblica di lingua inglese nel corso degli anni '70. Dibattito che come anticipato prende le mosse dalla pubblicazione dell'opera di John Rawls (1971), alla quale sono poi seguiti i contributi degli studiosi discussi nei capitoli precedenti. L'EDA cerca di comprendere e di valutare le attività e le azioni degli individui e delle istituzioni operanti nel settore economico alla luce di alcune categorie etiche fondamentali. Oggetto di indagine sono quindi: il mercato e le istituzioni che operano nel mercato con funzioni di produzione, transazione e distribuzione di beni e servizi. Per convenzione si usa distinguere tre livelli attorno a cui si è articolato il dibattito accademico. Un livello generale, definito come metaetica degli affari, tratta la giustificazione delle principali istituzioni economiche come il mercato attraverso la discussione delle principali teorie filosofiche normative contemporanee: teoria dei diritti, utilitarismo, contrattualismo, convenzionalismo e comunitarismo. Le questioni discusse a questo livello riguardano la giustificazione del mercato e dell'organizzazione capitalistica della produzione rispetto a soluzioni alternative come quella pianificata o mista. A differenza dei dibattiti economici sul tema, l'analisi etica non ha come obiettivo l'efficienza relativa di forme produttive diverse, ma la relazione tra efficienza e giustizia, libertà ed equità, diritti e benessere, etc. L'ampiezza delle questioni etiche sollevate a questo livello rende la discussione indistinguibile da quelle affrontate nella prima parte e non verranno perciò riprese nel presente capitolo. Un secondo livello, meso-etica degli affari, si occupa delle imprese e delle altre istituzioni intermedie che operano nel mercato. A questo livello l'oggetto privilegiato di analisi è il sistema di relazioni, esterne ed interne, che l'impresa pone in essere. Naturalmente una discussione etica generale non considera i comportamenti delle diverse tipologie di impresa che popolano il mercato, ma si confronta con le teorie economiche dell'impresa. Ad essere discussi sono temi paralleli a quelli relativi alla giustificazione delle istituzioni politiche esterne al mercato: il problema della responsabilità sociale dell'impresa; la giustificazione dei diritti di proprietà; la legittimità della autorità, sia come derivazione dai diritti di proprietà sia come autorità delegata al management nei casi di separazione fra proprietà e controllo. Un terzo livello, micro-etica degli affari, considera infine la validità etica delle scelte quotidiane poste in essere dagli individui quando operano nel ruolo di capitalista, imprenditore, lavoratore, consumatore, etc. I problemi trattati a questo livello riguardano il modo di valutare e risolvere conflitti e dilemmi che sorgono tra le indicazioni normative della morale comune e le responsabilità connesse con i ruoli ricoperti. Di particolare importanza sono anche i problemi relativi all'effettività dei codici e dei comitati etici nell'integrare la formazione manageriale e motivare istituzioni e individui ad agire in modi moralmente adeguati. Dal punto di vista storico la nascita dell'EDA risale al novembre del 1974, data nella quale si tiene la prima conferenza di Business Ethics presso la Kansas University (cfr. DeGeorge, 1987). Da allora lo sviluppo della riflessione teorica e della disciplina ad essa legata è andato aumentando sempre più sino ad arrivare, nel corso degli anni '80, alla sua istituzionalizzazione come materia di insegnamento nelle business schools e nelle università americane. In Europa lo sviluppo è stato più lento e la nascita dell'Associazione Europea di Business Ethics (EBEN), avviene solo nel 1988. Negli ultimi anni l'interesse è notevolmente ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA cresciuto fino al punto da fuoriuscire dai ristretti circoli accademici e porsi all'attenzione del mondo imprenditoriale quale strumento essenziale del management aziendale. In questo capitolo discutiamo l'EDA sia come disciplina filosofica autonoma sia come strumento manageriale. La trattazione si divide perciò in due parti. Nella prima parte sono discusse le ragioni teoriche che giustificano lo sviluppo dell'etica degli affari come disciplina autonoma rispetto all'economia e alla filosofia morale. Qui l'attenzione si concentra sulle implicazioni che l'analisi filosofica portata avanti precedentemente ha per la teoria economica, e in particolare per quella neo-istituzionale, la quale nega valore alcuno all'approccio etico-filosofico. I temi trattati sono due: il rapporto fra efficienza del business e comportamento morale e i problemi relativi all'attribuzione di responsabilità morale all'impresa. La sezione si chiude con alcune riflessioni riguardanti le potenzialità dell'EDA come strumento di autogoverno. Nella seconda parte trattiamo l'impatto che l'EDA ha avuto in campo manageriale e nel settore aziendale. Anche qui due i temi di maggiore interesse. Il primo riguarda lo sviluppo dell'EDA come disciplina d'insegnamento autonoma, mentre la seconda ha come oggetto la diffusione dell'EDA nella pratica manageriale. In entrambi i casi sono analizzati i rischi connessi con l'istituzionalizzazione dell'EDA e la sua trasformazione in strumento di relazione pubbliche acritico e funzionale al mantenimento di forme di potere consolidate. L'ETICA DEGLI AFFARI: DISCIPLINA AUTONOMA O OSSIMORO? Etica ed affari sono comunemente visti come due estremi non conciliabili. Nella letteratura economica corrente il mondo degli affari viene spesso rappresentato come un'arena in cui individui ed imprese si confrontano senza esclusione di colpi. Il resoconto dei rapporti fra etica e affari proposto dai pensatori economici neoclassici attribuisce alla morale il compito di definire i fini socialmente utili da perseguire e all'economia la scelta dei mezzi appropriati per il loro raggiungimento. L'etica, in questa visione, si pone o a monte o a valle dell'economia, ma non entra nella definizione dei meccanismi interni dove opera una mera razionalità strumentale. Nell'economia neo-classica la soddisfazione dei requisiti morali dell'azione economica si realizza attraverso l'operato del mercato concorrenziale perfetto, ritenuto una 'zona moralmente neutra' (Gauthier, 1986: 84). Tale idea trova la sua prima e più genuina espressione nella metafora della mano invisibile elaborata da Mandeville (1714). Il mercato, secondo il medico anglo-olandese, rappresenta lo strumento che trasforma i vizi privati in virtù pubbliche, intese queste come una maggiore ricchezza aggregata. Sulla scia di Adam Smith (1776), gli economisti neoclassici si sono poi sforzati di dimostrare come le dinamiche di mercato soddisfano inoltre criteri di giustizia sociale oggettive1. La fede nella mano invisibile non è stata inclinata né dall'esplicitazione delle condizioni logiche necessarie affinché si abbia un mercato concorrenziale perfetto né dall'esistenza dell'impresa moderna quale organizzazione gerarchica con ben definite relazioni di potere. L'economia neo-istituzionale sviluppata da Oliver Williamson (1975) pur riconoscendo le difficoltà in cui incorre l'analisi economica neo-classica, finisce per riproporre una divisione delle sfere di intervento fra etica ed economia sorprendentemente simile a quella neo-classica. Per questa le istituzioni economiche sono risposte razionali alle imperfezioni del mercato concorrenziale, tale per cui ogni particolare assetto proprietario e divisione interna dei poteri rappresenta una soluzione ottimale ai problemi di market failures. La conclusione è, anche in questo caso, la superfluità di qualsiasi discorso etico, dato che è sempre possibile arrivare ad una risoluzione dei problemi posti dalla concorrenza imperfetta attraverso una corretta ingegneria manageriale e/o revisione degli assetti proprietari. La tesi della superfluità del ragionamento etico in economia non è, comunque, soddisfacente. Come chiariscono Daniel Hausman e Michael McPherson: "i principi morali non hanno solo rilevanza per le questioni riguardanti valutazioni e politiche, ma influenzano le questioni che gli economisti empirici si pongono come anche le risposte che questi ritengono plausibili" (1993: 671). 66 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA L'analisi delle debolezze metodologiche dell'economia neo-classica e neo-istituzionale rappresenta perciò il punto di partenza per la giustificazione dell'EDA come disciplina autonoma. Da un punto di vista descrittivo, l'EDA permette di chiarire sia fenomeni cooperativi che secondo la teoria economica sono 'irrazionali' sia la razionalità di forme di dissenso diffuse che la stessa non è in grado di anticipare. Il crescente interesse per le analisi di laboratorio che replicano le situazioni strategiche studiate dalla teoria dei giochi ha reso evidente che gli individui tendono a comportarsi in modi del tutto inconsistenti con quelli prescritti dalla teoria. Nei contesti strutturati a dilemma del prigioniero, per esempio, la percentuale di defezioni è sistematicamente di molto inferiore a quella che si riscontra nei tornei tra computers (cfr. Hargreaves-Heap e Varufakis, 1995). Per altro verso, nei giochi di contrattazione le persone reali si ostinano a perseguire strategie distributive inconsistenti con i principi di massimizzazione dell'utilità attesa (cfr. Roth, 1995). E' chiaro che inconsistenze comportamentali di questo genere sono generati dall'appello che i valori morali esercitano sulle persone reali. Una teoria economica empiricamente orientata deve tenere conto del ruolo dei valori morali, altrimenti rischia di produrre spiegazioni vacue e previsioni inattendibili. Da un punto di vista normativo, il riferimento a valori condivisi o condivisibili è cruciale per arrivare all'elaborazione di riforme strutturali e manageriali effettive. Tradizionalmente l'economia politica e aziendale è stata in grado di suggerire solo riforme basate su schemi di incentivo monetari. Prescrizioni derivate dalla rozza psicologia comportamentista che ispira la disciplina eloquentemente espressa da George Stigler: "una persona razionale deve essere guidata dal sistema di incentivi entro cui opera. Deve essere scoraggiato dall'intraprendere alcune attività alle quale sono connesse sanzioni e diretto verso altre alle quali sono connesse notevoli benefici senza riguardo alcuno per quelli che sono i suoi desideri personali. La carota e il bastone stimolano lo scienziato e il politico allo stesso modo di come stimolano gli asini" (1975: 171). Nella pratica l'applicazione di politiche monetarie simili ha finito però col deprimere l'efficienza produttiva delle imprese e dei mercati. A livello macroeconomico le masse lavoratrici che sono riuscite ad organizzarsi sindacalmente hanno cercato di imporre termini contrattuali a loro favorevoli e reagito alle politiche classiste dello stato liberale promuovendo azioni legislative che hanno portato alla regolamentazione del mercato del lavoro. All'interno dell'impresa invece, le innovazioni tecnologiche introdotte al fine di ridurre il ruolo e la forza delle organizzazioni sindacali hanno favorito la separazione tra proprietà, controllo e produzione e promosso la giuridificazione delle relazioni industriali. Le diverse attitudini relative ai rapporti fra etica ed economia sono riassunti nella tabella riportata sotto. COOPERATIVO COMPETITIVO ESTERNO Legislazione Mano invisibile INTERNO Contrattualismo kantiano Contrattualismo hobbesiano Figura 4.1. Relazioni tra etica ed economia La matrice individua due dimensioni: la prima è quella relativa alla natura delle restrizioni morali mentre la seconda riguarda i modi in cui le restrizioni sono definite. I vincoli morali possono essere interni o esterni. Sono interni quando a definirli sono gli agenti stessi a cui è demandato l'obbligo di osservarli. Sono invece esterni quando si impongono agli agenti senza che questi abbiano avuto modo di contribuire alla loro definizione. Kantiani ed hobbesiani sottoscrivono approcci internalisti che derivano le norme da osservare dall'accordo ipotetico di agenti razionali idealmente situati. L'economia neo-classica e quella neo-istituzionale difendono una posizione esternalista che concepisce le regole morali come un sottoprodotto del mercato. A sua volta, il processo che porta alla definizione dei vincoli può essere cooperativo, quando rappresenta la conclusione di un processo deliberativo intenzionale, o competitivo, se dipende 67 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA dall'azione decentrata degli agenti. Coloro che fanno appello alla legge (neo-istituzionalismo) o al consenso universale degli agenti (kantiani) avocano una procedura cooperativa. All'opposto, neo-classici e hobbesiani invocano gli effetti benefici della competizione. L'EDA persegue un l'approccio internalista del tipo sottoscritto da kantiani e hobbesiani. Secondo questo approccio i problemi etici connessi con l'operare del mercato e dell'impresa devono essere risolti su base consensuale. Gli strumenti normativi individuati non fanno riferimento né all'operare di mani invisibili benefiche né all'intervento di autorità statali benevolenti ma vedono l'autolegislazione come il corso d'azione privilegiato. Il compito dell'EDA consiste quindi nel definire e implementare contratti sociali parziali che integrano il contratto sociale generale sottostante una società bene ordinata (cfr. Maffettone, 2001a). L'EDA propone due strumenti normativi principali: i codici e i comitati etici d'impresa. Il codice etico è un documento dove sono esposti i principi nei quali l'impresa si riconosce e le norme comportamentali che i vari soggetti interni sono chiamati ad osservare. L'adozione di un codice etico ha diversi scopi: • • • • rendere evidenti le implicazioni morali relative a scelte individuali complesse indicare la prospettiva che il management deve adottare per valutare corsi d'azione alternativi stabilire i limiti della responsabilità sociale dell'impresa fungere da strumento di garanzia cui richiamarsi per resistere a comandi ingiusti I comitati etici rappresentano invece la corte d'appello ultima a cui rivolgersi per le violazioni, vere o presunte, del codice stesso. La funzione dei comitati consiste nell'accertare le violazioni del codice e nel rendere queste di dominio pubblico. Kantiani e hobbesiani vedono l'azione giudicante e quella esecutiva come separate. Il compito di applicare le sanzioni ricade sull'apparato gerarchico interno piuttosto che sui comitati. A questi non spetta il compito di sostituirsi alle attuali linee di comando interne all'impresa, ma di esprimere giudizi imparziali e garantire un uso pubblico delle informazioni. L'effettività dei codici dipende infatti non dalla capacità di sanzione dei comitati, ma dall'azione di due elementi: i costi reputazionali che le violazioni producono e la forza motivazionale dei codici stessi. EDA e teoria dell'impresa I: la responsabilità sociale dell'impresa Un problema con cui l'EDA si è confrontata sin dall'inizio riguarda la possibilità di attribuire responsabilità morale alle imprese2. La risposta al quesito è di notevole importanza perché le attività delle imprese hanno una ricaduta sull'ambiente nel quale operano; intendendo quest'ultimo sia come l'insieme delle persone che hanno relazione con l'azienda, sia le altre aziende, sia i terzi (persone e ambiente naturale) sottoposti alle esternalità dell'impresa. L'attribuzione di responsabilità morale è diversa da quella di responsabilità giuridica. Quello che ci interessa determinare non è solo come la responsabilità per un danno arrecato si trasferisce su determinati individui, ma se è possibile attribuire una responsabilità morale precisa all'impresa per sé. La discussione in materia ha preso due direzioni. La prima si pone la questione se sia possibile attribuire personalità morale all'impresa e quindi responsabilità morali dirette. La seconda considera invece la possibilità di attribuire responsabilità morale indipendentemente dal fatto che l'impresa abbia o meno personalità morale. Iniziamo con il discutere le teorie che hanno negato che possa esistere qualcosa come una responsabilità morale dell'impresa. In un saggio pubblicato agli inizi degli anni '70 il filosofo John Ladd sostiene che non è possibile attribuire alle imprese alcun tipo di responsabilità morale. La tesi di Ladd è che le imprese sono delle organizzazioni burocratiche le quali operano sulla base di una mera razionalità strumentale. Per l'autore ciò significa che è del tutto improprio attribuire diritti e doveri ad una impresa, o cercare di identificare supposti obblighi morali che i dipendenti hanno verso l'impresa e, tanto meno, limiti e divieti alla possibilità di interferenza dello stato negli affari aziendali. In aggiunta a questa tesi che possiamo chiamare ontologica, Ladd fa anche notare come l'accettazione unilaterale di vincoli 68 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA morali all'agire economico da parte di un'impresa sarebbe autodistruttivo. In un'economia di mercato l'accettazione di una logica diversa da quella della massimizzazione dei profitti porterebbe, per Ladd, all'inevitabile riduzione delle quote di mercato dell'azienda con gravi conseguenze per la capacità di sopravvivenza della stessa (cfr. Ladd, 1970; 1984). Secondo questo punto di vista, all'interno di un mercato competitivo non opera la mano invisibile benefica invocata dagli economisti classici, ma una versione darwinista della Gresham's Law, la quale fa sì che l'impresa cattiva scacci quella buona3. In questo contesto l'intervento legislativo pubblico rappresenta il solo mezzo per imporre alle imprese l'osservanza di comportamenti moralmente accettabili. Fra coloro che contrariamente a Ladd sostengono la possibilità di attribuire responsabilità morale alle imprese abbiamo il filosofo Peter French (1979). Anche per French la moderna società per azioni è una organizzazione burocratica che opera per mezzo di una razionalità strumentale. Diversamente da Ladd, French vede però l'agire burocratico-razionale come la condizione necessaria per perseguire fini che sono indipendenti dalle volontà dei singoli. L'impresa ha quindi una personalità autonoma rispetto a quella dei membri e responsabilità morali chiaramente identificabili. Per Ken Goodpaster (1983), l'attribuzione di responsabilità morale non deriva dall'essere l'impresa una persona morale, ma dall'identità fra processo deliberativo dell'individuo e processo deliberativo dell'organizzazione. Secondo Goodpaster gli elementi che caratterizzano un processo deliberativo responsabile sono quattro: 1) percezione; 2) ragionamento; 3) coordinazione; 4) attuazione. Questi elementi sono necessari per la realizzazione di qualsiasi azione moralmente responsabile. Ciò consente a Goodpaster di definire un 'principio di proiezione' il quale afferma che: "non solo è appropriato descrivere l'organizzazione in analogia con l'individuo, ma è anche appropriato normativamente rafforzare le attitudini morali nell'organizzazione in analogia con l'individuo" (citato in Sacconi, 1991: 126). Le tesi di French e di Goodpaster hanno sollevato non pochi dubbi. Una prima serie di obiezioni ha avuto come obiettivo le assunzioni oliste che caratterizzano le teorie dei due autori. Nel modello di French, per esempio, risulta estremamente problematico attribuire 'intenzionalità' alle azioni e ai comportamenti dell'impresa. Contro Goodpaster viene spesso fatto notare come il riferimento alla sola struttura formale delle decisioni non tiene nel dovuto conto le relazioni informali esistenti all'interno dell'organizzazione e l'influenza che queste hanno nel determinare i corsi d'azione dell'impresa. La conclusione è che in assenza di una chiara 'intenzionalità' del processo decisionale l'attribuzione di responsabilità risulta problematica. Una replica plausibile a queste obiezioni consiste nel connettere l'eventuale responsabilità morale delle imprese con una presunta libertà di scelta. Se le imprese hanno la libertà di determinare gli obiettivi da perseguire, ne consegue che le stesse possono essere ritenute responsabili per il modo in cui tale libertà viene esercitata. Una libertà di scelta simile rappresenta però solo una condizione necessaria ma non sufficiente per potere attribuire personalità morale. Come osserva Rita Manning (1984), la condizione di sufficienza richiederebbe l'abilità di provare piacere e pene; un'abilità che nel caso delle imprese è del tutto metaforica. Il tenore delle obiezioni ha spinto diversi autori ad abbandonare l'idea che per attribuire responsabilità morale alle imprese necessita una previa attribuzione di personalità morale. Per Lorenzo Sacconi (1991) un approccio che meglio riesce ad evitare le critiche rivolte alle teorie precedenti è quello contrattualista. La prospettiva contrattualista sottoscritta da Sacconi è derivata da quella neo-hobbesiana di David Gauthier. Secondo questa prospettiva l'impresa economica rappresenta un'istituzione cooperativa tramite cui gli individui perseguono piani di vita personali. La giustificazione morale dell'impresa dipende quindi dall'essere mutuamente vantaggiosa. In questo schema concettuale, il problema della responsabilità risulta equivalente a quello della giustificazione dell'autorità e si riconnette alle discussioni relative al problema della giustizia sociale analizzate nella prima parte. L'obiettivo del contrattualismo neo-hobbesiano di Sacconi è duplice: il primo consiste nell'indicare il punto di vista archimedeo dal quale valutare il comportamento dell'impresa, mentre il secondo si impegna a dimostrare 69 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA come l'analisi morale sia conciliabile con l'efficienza economica. Per Sacconi il punto di vista archimedeo non può coincidere con quello degli azionisti ma deve riflettere criteri di giustizia alla cui definizione concorrono in modo equo tutti gli stakeholders; cioè a dire, i gruppi e gli individui che influenzano o sono influenzati dall'agire dell'impresa4. L'adozione da parte delle imprese di un punto di vista simile equivale per Sacconi all'adozione di una strategia di massimizzazione vincolata che premia la reputazione dell'impresa e assicura benefici di lungo periodo superiori a quelli garantiti da una massimizzazione diretta dell'utilità attesa. Una prospettiva contrattualista ispira anche l'approccio di Christopher McMahon (1995). Per McMahon il problema morale dell'impresa consiste nella giustificazione dell'autorità manageriale come potere delegato. "La giustificazione dell'autorità manageriale", afferma l'autore britannico, "deve derivare dallo stesso elemento normativo che giustifica l'autorità degli stati a governare: il principio di razionalità collettiva" (1995: 297). Il principio avocato stabilisce che è contrario alla ragione non partecipare ad imprese cooperative che sono mutuamente benefiche e attribuisce alle aziende l'obbligo di perseguire valori sociali che hanno un'importante rilevanza morale. Per McMahon il conflitto tra profitto e valori sociali moralmente rilevanti rappresenta un falso problema. Qualora un conflitto simile emerge ad avere priorità devono essere sempre i secondi. Esiste invece un reale conflitto etico quando il management deve scegliere tra corsi d'azione che perseguono valori sociali alternativi. In questi casi il management è chiamato ad operare una valutazione morale ponderata dei vari corsi d'azione da un particolare punto di vista. A differenza di Sacconi, questo punto di vista non coincide con la prospettiva degli stakeholders presi nella loro totalità. Per l'autore britannico il punto di vista morale imparziale è connesso al rapporto fiduciario che il management ha con un sottoinsieme di stakeholders. Siccome per McMahon il management è l'agente fiduciario dei lavoratori, questo è il punto di vista da adottare. Tutti gli altri stakeholders la cui prospettiva non è tenuta in considerazione hanno in questo contesto solo un diritto ad essere trattati equamente5. L'approccio contrattualista risulta superiore a quello proposto da coloro che vogliono attribuire in precisa personalità morale all'impresa per almeno due ragioni. La prima si riconnette alle critiche sviluppate nella prima parte contro comunitari e humeani. Le varie discussioni epistemologiche su io e identità personale non solo risultano refrattarie a soluzioni univoche, ma sollevano notevoli dispute riguardo alle implicazioni normative che da queste si possono derivare. Il tentativo di dare fondazione sicura a principi normativi di carattere intuitivo attraverso l'appello a teorie epistemiche avalutative risulta particolarmente controverso nel caso dell'impresa dove non è nemmeno chiaro la natura dell'identità attribuibile a questa. La seconda ragione ha valenza pratica e riguarda l'obiettivo di sviluppare una principled governance effettiva. L'approccio contrattualista è, secondo il nostro punto di vista, in grado di connettere i vari problemi sollevati dall'esercizio dell'autorità entro uno schema interpretativo unitario. Ciò consente l'elaborazione di un quadro normativo coerente all'interno del quale sistematizzare le diverse forme in cui l'autorità viene esercitata a livello sociale e la definizione dei doveri a questa connesse. L'approccio contrattualista può essere quindi esteso a tutte le istituzioni intermedie (quali l'impresa, le associazioni professionali e quelle di categoria) le quali esercitano notevoli poteri di fatto, ma mancano di una adeguata esplicitazione dei principi su cui tale esercizio si basa. La definizione del contratto sociale parziale che lega le varie istituzioni intermedie all'autorità statale avrebbe quindi il compito di colmare la lacuna e chiarire i vincoli entro cui l'esercizio di tale autorità è legittimo. EDA e teoria dell'impresa II: l'autorità manageriale Connesso al problema della responsabilità sociale è la questione relativa all'esercizio dell'autorità manageriale all'interno dell'impresa stessa. Rispetto al caso precedente, qui al problema morale si affianca quello dell'efficienza produttiva. La discussione si articola quindi su due livelli: quello riguardante la legittimità del potere delegato del manager e quello riguardante gli effetti motivazionali che diverse forme di delega hanno sugli agenti che 70 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA occupano i vari ruoli interni all'impresa. L'obiettivo dell'EDA è quello di dimostrare come sia possibile colmare i limiti teorici in cui si dibattono le teorie economiche dell'impresa e sviluppare migliori relazioni fiduciarie tra i vari agenti economici operanti nell'impresa. Anche in questo caso l'approccio contrattualista ha l'ambizione di combinare questioni riguardanti legittimità ed efficienza in uno schema normativo unitario e proporre soluzioni innovative. Per la teoria economica la nascita della moderna impresa capitalista rappresenta una soluzione razionale ai fallimenti del mercato6. L'impresa integra al suo interno una pluralità di unità produttive che in un mercato competitivo perfetto avrebbero vita indipendente attraverso linee di comando che convergono nel 'boss'. La figura del boss rappresenta l'autorità sovrana che detiene il potere di decidere i modi e le forme in cui l'attività produttiva deve essere portata avanti. Le relazioni fra il boss e gli agenti che occupano i vari ruoli interni all'impresa sono definiti attraverso contratti incompleti che attribuiscono potere decisionale solo al primo. A sua volta il potere del boss deriva dalla relazione più o meno diretta che questi ha con la proprietà; tale per cui la figura del boss o coincide con quella del padrone, o con l'agente fiduciario del padrone: il management. L'analisi del processo che porta all'emergenza dei diritti di proprietà e dei rapporti di autorità gerarchica è quindi di notevole interesse per comprendere potenzialità e limiti delle giustificazioni avanzate dalla teoria neo-classica e di quella neo-istituzionale. La teoria economica neo-classica spiega l'emergere dell'autorità e del diritto di proprietà come dovuta all'esigenza di salvaguardare i soggetti economici esposti allo sfruttamento della controparte. La teoria dell'agenzia descrive le relazioni di mercato per mezzo delle interazioni strategiche che hanno luogo tra un principale ed un agente. La caratteristica più importante della relazione principale-agente è data dall'asimmetria informativa a favore dell'agente. Quest'ultimo possiede infatti informazioni precise sia sul tipo di abilità professionale sul quale può contare sia sul processo produttivo e può utilizzare tale conoscenza per sfruttare la controparte. L'attribuzione del titolo di proprietà (e del potere a questo connesso) al principale viene quindi spiegato come avente la funzione di proteggere quest'ultimo dall'opportunismo dell'agente. In questo modo ogni assetto proprietario deriva la propria giustificazione dal fatto che risulta una risposta efficiente ai limiti del mercato competitivo. L'analisi neo-istituzionale ha ulteriormente sviluppato questo modello interpretativo per esplicare il processo che ha portato all'evoluzione dell'impresa capitalistica. Come per le teorie humeane, l'analisi neo-istituzionale parte dall'assunto che gli agenti economici hanno una limitata capacità di acquisire e gestire informazioni rilevanti. L'assunzione di razionalità limitata fa sì che i contratti di lungo periodo siano incompleti. A determinare l'incompletezza concorrono diverse cause: (a) l'impossibilità di prevedere tutti gli eventi futuri e di stabilire una clausola per ogni evento (b) l'impossibilità di osservare ogni prestazione stabilita (c) l'impossibilità di verificare tutte le prestazioni e di procedere alla sanzione penale nel caso di violazione delle nome contrattuali La contrattazione riguarda presso investimenti specifici che legano uno dei contraenti all'altro in modo che una risoluzione non prevista del contratto risulta estremamente costosa per chi ha effettuato l'investimento. Gli agenti economici sono ovviamente soggetti autointeressati e ciò conduce ad una interazione strategica del tipo dilemma del prigioniero con relativi problemi di subottimalità. In questo contesto l'attribuzione di titoli di proprietà al principale ha effetti trascurabili. L'esistenza di contratti incompleti, investimenti specifici e asimmetrie informative rende il monitoraggio e l'implementazione dei diritti di proprietà da parte di una autorità esterna estremamente difficile. Ogni tentativo di rendere un contratto quanto più completo possibile comporta, per altro verso, costi addizionali. Questi sono di due tipi: 1) costi di contrattazione ex ante, che riguardano la possibilità di prevedere tutti gli eventi futuri (punto (a) sopra) e quelli relativi alla scrittura del contratto 2) costi di contrattazione ex post riguardanti l'osservazione del servizio ricevuto, la valutazione 71 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA dello stesso, la possibilità di stabilire e applicare le sanzioni previste (punti (b) e (c)) Il risultato complessivo è quindi quello di rendere la strategia non-cooperativa la strategia dominante. In contesti siffatti l'unico corso d'azione razionale consiste infatti nel rifiutarsi di sottoscrivere un contratto che espone colui che lo sottoscrive all'opportunismo della controparte7. La soluzione economica per questi fallimenti del mercato consiste nell'integrazione verticale delle singole unità produttive. Siffatta integrazione implica due cose. La prima consiste nel sostituire la rete di relazioni contrattuali tra produttori indipendenti in una struttura gerarchica dove il titolare dei diritti di proprietà ha l'autorità legale di stabilire termini e modi in cui gli agenti devono operare. La seconda novità introdotta dall'integrazione verticale consiste appunto nel trasformare il contratto di lavoro in una relazione di autorità tra principale e agente dove al primo è dato potere di comando. Nei casi dove esiste una separazione tra proprietà e gestione il governo dell'impresa passa al supervisore, il quale rappresenta l'agente fiduciario del principale. In questo resoconto situazioni di monopolio o di oligopolio rappresentano risposte alle particolari asimmetrie informative presenti nel mercato e al conseguente rischio di opportunismo. Il modello neo-istituzionale richiamato ha inoltre implicazioni normative di estrema importanza. Se l'integrazione verticale è in grado di risolvere i problemi creati dalle varie forme di opportunismo, è chiaro che le soluzioni avocate dall'EDA risultano superflue. Per altro verso, se le soluzioni istituzionali sono insufficienti o hanno costi elevati, l'EDA finisce per assumere un ruolo di primaria importanza per un effettivo governo dell'impresa. Consideriamo per prima cosa l'analisi dei diritti di proprietà proposta dalla teoria dell'agenzia. Da un punto di vista esplicativo tale analisi è affetta da vizi metodologici simili a quelli notati a proposito delle spiegazioni funzionali. L'idea che i diritti di proprietà emergono perché sono in grado di promuovere una maggiore efficienza sociale confonde le ragioni relative alle origini di una istituzione con la funzione svolta dall'istituzione stessa. Il dilemma del prigioniero discusso nella prima parte rappresenta un esempio paradigmatico di come le due logiche possono divergere. Nel gioco la soluzione cooperativa massimizza l'utilità collettiva a cui i giocatori possono aspirare. Sfortunatamente però il ragionamento strategico degli agenti porta gli stessi verso la strategia non-cooperativa: la sola strategia dominante del gioco. Da un punto normativo l'analisi dei diritti portata avanti dalla teoria dell'agenzia incorre nei difetti notati da Rawls a proposito dell'utilitarismo classico e quelli discussi in merito all'utilitarismo della regola di Hume. Schemi di giustificazione del genere hanno il difetto di non prendere sul serio né la separatezza delle persone né la legittimità delle questioni di giustizia che una distribuzione iniqua dei diritti di proprietà solleva. Nel contesto dell'impresa ciò ha inoltre notevoli implicazioni per quanto riguarda l'effettività dell'azione manageriale. Un management che agisce solo per conto e nell'interesse della proprietà risulterebbe del tutto ineffettivo a motivare i lavoratori all'osservanza volontaria degli accordi contrattuali. Sarebbe infatti percepito come parziale e avrebbe una ridotta legittimità morale. Per l'EDA l'esercizio legittimo dell'autorità manageriale richiede di individuare il punto di vista morale dal quale valutare la scelta fra corsi d'azione alternativi. L'approccio contrattualista nega che tale punto di vista morale possa semplicemente coincidere con quello della proprietà e suggerisce di assumere una prospettiva che tenga nel dovuto rispetto gli interessi (e i diritti) di tutti gli agenti coinvolti nelle decisioni manageriali. Occorre comunque notare che a differenza del contrattualismo filosofico discusso prima, quello avocato dall'EDA è un contrattualismo parziale integrativo (cfr. Donaldson e Dunfee, 1995). L'ambito normativo nel quale opera l'impresa è parte integrante dello spazio morale definito dal contratto sociale generale. Nel procedere alla definizione del punto di vista morale adeguato, il management deve quindi tenere conto dei principi normativi sottoscritti dalla comunità morale dalla quale deriva l'autorità ultima. Questo riferimento al contratto sociale generale ha un duplice significato. Da una parte serve per dare consistenza alle richieste normative connesse con i diversi ruoli che gli individui occupano in società. Dall'altra si rende necessario per evitare due opposte obiezioni in cui può incorrere l'EDA: quella di imperialismo culturale e quella di relativismo morale8. 72 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA La teoria neo-istituzionale ha inoltre stimolato l'analisi comparata dell'efficienza relativa tra soluzioni istituzionali e soluzioni etiche. Da un punto di vista prettamente economico soluzioni efficienti sono quelle che riescono a ridurre i costi di transazione con cui si confronta l'impresa9. La questione riguarda quindi quale fra queste due soluzioni è quella che implica minori costi di transazione. Per Lorenzo Sacconi (1991) l'integrazione verticale e il governo manageriale dell'impresa rappresentano una soluzione istituzionale inferiore rispetto a quella etica. Per prima cosa Sacconi nota come l'istituzione di un manager che supervisiona il processo produttivo ha un costo economico non irrilevante e rappresenta perciò una soluzione essenzialmente second best. In aggiunta l'autore mette in evidenza come in un contesto dove esiste una separazione tra proprietà e controllo sia possibile assistere l'emergere di coalizioni collusive tra supervisore e sottoinsiemi degli agenti. Ciò comporta una distorsione del sistema degli incentivi e quindi perdite di efficienza allocativa e produttiva. Secondo Sacconi un sistema di vincoli morali razionali è immune da questi problemi e può favorire l'efficienza dell'impresa. L'operare sulla base di principi etici imparziali che proteggono sia i titolari di diritti di proprietà sia coloro che ne subiscono l'autorità rappresenta per Sacconi una strategia condizionale in grado di promuovere una effettiva cooperazione intra e interaziendale. La razionalità di un comportamento simile è data dal fatto che il decisore accetta di cooperare con quanti scelgono una strategia simile, ma defeziona in presenza di massimizzatori diretti. La novità rispetto al modello di Gauthier da cui l'idea è derivata risiede nel fatto che in questo ambito l'adozione di una strategia condizionale simile equivale a sottoscrivere un codici etico: è cioè il frutto di un atto deliberativo pubblico che rende l'impresa trasparente. Il risultato è quindi quello di favorire l'interazione fra imprese e agenti che adottano strategie condizionali e l'emergere di ciò che i teorici dei giochi chiamano equilibri correlati. Exit, voice ed autoregolazione Concludiamo l'analisi teorica discutendo il significato e la rilevanza dell'autoregolazione rispetto all'azione sindacale e politica tradizionali. E' l'EDA uno strumento alternativo o complementare rispetto all'azione sindacale? E' l'EDA meno esposta ai problemi di azione collettiva che affliggono i movimenti politici tradizionali? Fatto ciò analizziamo le potenzialità dell'autoregolazione aziendale come strumento di principled governance rispetto all'intervento legislativo dello stato. Quando l'autoregolazione risulta più effettiva della legge? Come combinare azione legislativa e autoregolazione in un quadro normativo coerente? L'approccio etico è distinto da quello sindacale per almeno due ragioni. Mentre l'azione sindacale ha come obiettivo il rafforzamento e lo sfruttamento del potere contrattuale dei lavoratori, l'EDA ricerca criteri morali universali sui quali basare le scelte individuali. Un'impresa le cui politiche riflettono il potere contrattuale di uno degli agenti è, per l'EDA, incapace di sviluppare il sostegno volontario di coloro che ne sono sistematicamente penalizzati. Politiche siffatte sarebbero non solo parziali, ma anche instabili. Come visto nel discutere McMahon, anche nel caso in cui l'approccio normativo sottoscritto prescrive al management di assumere il punto di vista dei lavoratori, le ragioni che giustificano ciò hanno una natura morale e non derivano dal potere contrattuale posseduto da questi ultimi. La seconda ragione ha a che fare con la definizione del punto di vista morale appropriato. Le istituzioni sindacali rappresentano uno dei soggetti coinvolti nell'impresa e hanno responsabilità dirette solo nei confronti dei loro rappresentati. In società con un'estesa divisione del lavoro e dove esiste un genuino pluralismo di opinioni, è implausibile assumere che il punto di vista morale possa coincidere con quello di una classe sociale o di una categoria professionale. Approccio sindacale e approccio morale fanno appello a principi d'azione distinti e sono quindi alternativi. Esiste però un punto di convergenza significativo. In entrambi i casi si ritiene che mercato e aziende necessitino di regole e che l'elaborazione di regole giuste richieda la partecipazione attiva anche dei lavoratori. Per l'EDA questo equivale ad attribuire ai lavoratori un diritto di voice nella gestione dell'impresa. Come sottolineato da Albert Hirshmann (1970), appropriate forme di voice possono contribuire al governo dell'impresa in modi più effettivi rispetto a quelle di exit10. 73 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA L'utilizzo di strumenti di voice può inoltre contribuire a ridurre i costi d'azione collettiva che affliggono i movimenti politico-sindacali tradizionali. Come evidenziato da Emile Durkheim (1950) un maggiore bilanciamento tra forme di partecipazione diretta e indiretta nei corpi intermediari (tra i quali rientrano anche le organizzazioni sindacali e partitiche) avrebbe un effetto positivo duplice: ridurrebbe le strozzature burocratiche che si oppongono alla comunicazione tra centro e periferia e rafforzerebbe i legami solidaristici fra i vari attori sociali. Gli strumenti di voice rappresenterebbero quindi una alternativa alla giuridificazione delle relazioni industriali promossa dai meccanismi consociativi e un antidoto contro la burocratizzazione delle organizzazioni politico-sindacali11. L'autoregolazione rappresenta inoltre uno strumento che garantisce una maggiore libertà dell'impresa dall'intervento normativo dello stato. L'azione dello stato non solo manca delle informazioni e della tempestività necessaria per regolamentare settori in continua trasformazione, ma produce la giuridificazione dei rapporti economici. Gli effetti perversi dell'azione statale risultano ancora più gravi nei regimi democratici dove, come affermano i liberali, il potere dei numeri si sostituisce a quello della ragione. Come vedremo nel prossimo capitolo, le teorie politiche liberali insistono nell'affermare che le istituzioni democratiche non rappresentino un soggetto neutrale impegnato a dirimere le controversie fra privati in modo imparziale. Al contrario, le politiche pubbliche sono viste comeil risultato di equilibri strategici fra coalizioni di individui e gruppi sociali autointeressati. Da ciò la conclusione che le politiche pubbliche rappresentano l'imposizione della volontà della coalizione vincente su quella minoritaria. L'EDA sottoscrive la sostanza delle critiche liberali all'intervento pubblico, ritiene comunque illusorio affidarsi al libero mercato e preme per l'elaborazione di forme di regolamentazione flessibile. I codici etici hanno così il compito di predisporre una cornice normativa che permetta lo sviluppo di un governo dell'impresa effettivo entro un quadro legislativo nazionale e trasnazionale unitario. Quali contratti sociali parziali i codici assicurano aLl'autorità manageriale la legittimità necessaria per ridurre i costi di monitoraggio e il ricorso a sanzioni esterne. Quale parte integrante del contratto sociale generale i codici sollevano lo stato da un intervento diretto nella regolamentazione delle relazioni economiche e riducono i costi di governo a questi associati. L'autoregolazione pone però due ulteriori problemi. Il primo riguarda l'identificazione dei soggetti a cui è demandata l'elaborazione dei codici. Come per il contrattualismo filosofico discusso nella prima parte, l'EDA ritiene che un contratto ipotetico sia superiore ad un contratto reale. La scelta di un codice etico d'impresa non richiede dunque un atto deliberativo pubblico a cui partecipano tutti gli stakeholders, ma l'adozione di procedure che tengono nella dovuta considerazione gli interessi di tutti gli stakeholders. Da questo prospettiva la definizione e promulgazione dei codici etici può essere demandata al solo management senza per questo inficiarne la legittimità. Due altre ragioni sono spesso addotte per giustificare il codice quale atto unilaterale del management. La prima considera i costi connessi col processo deliberativo: la consultazione di tutti gli stakeholders richiederebbe tempi e costi eccessivi per piccole e medie imprese. La delega assegnata al management avrebbe quindi lo scopo di ridurre i costi connessi con l'istituzione di assemblee costituzionali e pratiche referendarie. La seconda ragione fa riferimento alla storia costituzionale. Come per le costituzioni novecentesche, un codice 'concesso' non sarebbe affatto inutile ma avrebbe il potere di definire i limiti entro cui la discrezionalità del management può essere esercitata. Un codice octoyée, per esempio, può risultare un ottimo strumento di garanzia per resistere comandi ingiusti e smascherare abusi di potere. Un secondo tipo di problema riguarda la forza motivazionale che può avere uno strumento normativo autoimposto. La questione ha notevole rilevanza sia dal punto di vista teorico sia empirico. Sulla scia di Hume, la domanda a cui l'EDA deve rispondere è: quali sono le ragioni che garantiscono l'osservanza del codice quando una violazione procura notevoli benefici? Le risposte avanzate sono di due tipi. La prima segue il modello contrattualista hobbesiano proposto da Gauthier e considera le ricadute che le violazioni del codice hanno sulla reputazione dell'impresa. Il codice rappresenta un vincolo morale razionale, uno strumento che 74 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA rende pubblico l'impegno dell'impresa a perseguire una strategia di 'massimizzazione vincolata' e da ai massimizzatori vincolati la possibilità di riconoscersi ed evitare problemi di coordinazione. Un'azienda che viola sistematicamente le regole che lei stessa si è data proietta un'immagine di inaffidabilità che può risultare estremamente deleteria. In un contesto economico dove l'autorità pubblica stabilisce incentivi che premiano la correttezza e dove imprese e associazioni professionali e di categoria accettano l'autoregolazione, gli effetti reputazionali garantiti dall'osservanza/violazione del codice porterebbero quindi ad un sistema di self-enforcement. Il secondo tipo di risposta è più in linea con la psicologia morale humeana adottata da Rawls. Principi giusti ed equi hanno per Rawls la forza di sviluppare il senso di giustizia di coloro a cui si applicano. I codici etici, se adeguatamente strutturati, potrebbero perciò favorire lo sviluppo di forme di lealtà che gli incentivi monetari e l'appello all'autointeresse non riescono ad attivare o a sostenere. La lettura liberale dell'EDA appena esposta è stata oggetto di diverse obiezioni. La maggiore parte di queste ripetono le critiche avanzate contro le teorie liberali dal movimento repubblicano discusse nel capitolo conclusivo. Alla base di queste obiezioni c'è ciò che i repubblicani percepiscono come il pregiudizio liberale contro la politica. Il pensiero liberale vede l'ambito politico come geneticamente incapace a generare un ordine sociale che non sia un mero modus vivendi. Le prescrizioni prodotte attraverso procedure politico-deliberative sono quindi sentite come moralmente arbitrarie e/o oppressive. Nel campo dell'etica pubblica ciò ha prodotto un risultato potenzialmente paradossale: l'esaltazione della nozione di autonomia individuale e del principio di autodeterminazione contemporaneamente al rifiuto a concedere valore normativo alcuno dalla partecipazione democratica e all'azione politica. Nelle etiche applicate un atteggiamento simile ha portato all'esaltazione dei comitati di esperti rispetto al diretto coinvolgimento dei soggetti interessati dall'autoregolamentazione. Il sospetto che questo sia dovuto ad un pregiudizio nasce dal fatto che il coinvolgimento diretto degli agenti viene negato anche quando questo è fattibile e può risultare benefico. Come argomentato nella conclusione, la partecipazione dei 'clienti' al processo deliberativo ha non solo effetti educativi notevoli, ma è un elemento motivazionale di primaria importanza. Canali di voice sono inoltre indispensabili per accedere a informazioni che altrimenti resterebbero private e, quindi, del tutto inutilizzabili. Come vedremo sotto, il coinvolgimento diretto dei 'clienti' rappresenta infine un mezzo per resistere il tentativo di trasformare l'autoregolazione etica in uno strumento acritico funzionale al mantenimento di forme di potere consolidato. L'EDA COME DISCIPLINA ACCADEMICA E PRATICA AZIENDALE All'inizio degli anni '90 Richard DeGeorge introduce la discussione sullo sviluppo dell'EDA come disciplina d'insegnamento con la seguente metafora: "Come nel matrimonio tra Giulietta e Romeo, nessuna delle discipline madri [filosofia morale ed economia] era favorevole all'unione. Diversamente da quanto accaduto a Giulietta e Romeo la relazione ha prosperato e dato i suoi frutti, e i bambini sono ora tollerati -- se non adorati -- da entrambi i nonni" (1991: 42). Nel corso degli anni '80 l'EDA non solo ha finito per essere istituzionalizzata nelle business school dell'America del Nord, ma ha rappresentato il fiore all'occhiello della rivoluzione manageriale occorsa in quegli stessi anni. Un indice del successo è dato dal fatto che la disciplina è fuoriuscita dall'ambito strettamente accademico e viene ora promossa nei vari corsi di formazione aziendale e professionale operati dalle imprese stesse. Allo stesso tempo corporations e fondazioni hanno messo a disposizioni ingenti somme destinate alla ricerca e istituito centri di eccellenza all'interno delle università più prestigiose (cfr. D'Orazio, 2001). Siffatto sviluppo ha determinato, tra le altre cose, la trasformazione del corpo docente, il quale tende ora a essere composto da persone la cui formazione è in EDA, piuttosto che in economia o in filosofia. DeGeorge rimane comunque guardingo riguardo alla meteorica ascesa della disciplina e mette in guardia verso possibili trappole in cui la stessa può cadere. Per l'autore americano il passaggio generazionale che si osserva nel corpo docente non 75 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA ha portato ad un innalzamento della qualità della ricerca, ma ha anzi favorito un certo dilettantismo. Coloro i quali hanno lanciato l'EDA negli anni '70 condividevano due caratteristiche principali. In primis, si trattava di persone con un profilo accademico tradizionale ma che avevano interessi decisamente interdisciplinari che li portavano ad un confronto serrato con le ricerche sviluppate nelle discipline affini. In secondo luogo, si trattava di persone che sottoscrivevano un approccio critico e che erano interessate ad esplorare le implicazioni pratiche delle teorie normative emerse a seguito del lavoro di Rawls (1971). La nuova generazione di docenti, secondo DeGeorge, tende invece a concentrarsi su tematiche ristrette e non è interessata a portare avanti ricerche aventi un genuino approccio interdisciplinare. Coloro che provengono da strutture formative aziendali (o non accademiche) sono inoltre interessati solo all'elaborazione di programmi di ricerca e pedagogici spendibili nel mercato della formazione. Hanno quindi un orientamento e una predisposizione per la consulenza piuttosto che per l'analisi critica. Si tratta in definitiva di una generazione che predilige l'approccio manageriale a quello accademico e non è culturalmente in grado di resistere ai tentativi di cooptazione posti in essere dalle imprese. Un secondo nodo critico individuato da DeGeorge riguarda l'influenza del mondo dell'impresa sul modo d'intendere la disciplina stessa. A differenza di quanto occorso nel recente passato, l'EDA degli anni '90 dimostra una spiccata tendenza per la ricerca empirica piuttosto che per l'analisi normativa (cfr. Rossouw, 2001). A premere per una revisione in senso empirico della disciplina hanno contribuito due fattori. Il primo riguarda il pregiudizio positivistico dominante le business schools e l'ambiente manageriale americano. Le difficoltà con le quali si confronta l'EDA sono state spesso imputate al fatto che la disciplina viene percepita come scarsamente scientifica. Un'accentuazione della componente empirica rispetto a quella speculativa sarebbe così necessaria per rendere l'EDA più scientifica e appetibile. Il secondo fattore che preme per una revisione in senso empirico della disciplina è l'influenza esercitata dalle corporations e dalle fondazioni private. I fondi messi a disposizioni dal settore privato sono stati indirizzati esclusivamente verso approcci micro riguardanti le responsabilità che i singoli hanno verso l'impresa. Esclusi dai fondi sono invece gli approcci meso e macro che si confrontano con questioni quali: E' il capitalismo moralmente giustificabile? Sono le corporations moralmente giustificabili? E' chiaro che le imprese non hanno un diretto interesse verso queste tematiche e tendono ad escluderle per dare spazio ad altre che hanno una ricaduta manageriale diretta. Le distorsioni provocate dalle corporations sono state messe in luce dall'intervento della Arthur Andersen a favore del metodo dei casi avvenuto nel 1988. Nel mettere a disposizione di coloro interessati a produrre materiale didattico basato sullo studio dei casi ben $5 milioni di dollari, la Arthur Andersen ha in effetti posto fine ad un ricco dibattito interno sulla validità del metodo dei casi rispetto ai metodi accademici tradizionali. Come DeGeorge acutamente nota: "l'enfasi esclusiva sul metodo dei casi pone un pericolo per l'EDA come disciplina. Tipicamente i casi implicano la discussione di azioni a livello individuale. Ciò solleva la seguente domanda: se il solo metodo di studio si basa sui casi, e se le questioni etiche sollevate nei corsi dipendono dal tipo di materiale utilizzato, in che contesto verranno ad essere discussi gli altri due livelli [meso e macro] dell'EDA? Dove saranno trattati i problemi che non sono risolti e non possono essere risolti attraverso il semplice uso dei casi?" Ciò porta l'autore a concludere che "il pericolo reale per l'EDA non è la mancanza di rispetto per le sue qualità umanistiche ma dal fatto che sta per essere conquistata, che alcuni degli operatori stanno per essere cooptati e che la disciplina stessa sta per essere cambiata (alcuni direbbero corrotta) dall'interno" (1991: 55). Trends simili a quelli descritti da DeGeorge si possono notare anche all'interno del panorama europeo. In Europa l'EDA rappresenta ancora un fenomeno ristretto all'ambito accademico; ha inoltre un carattere prevalentemente teorico e persegue un approccio culturale più in linea con le tradizionali scienze sociali che con la filosofia normativa (cfr. Spence, 2000). E' significativo però il fatto che anche qui esiste la tendenza a spiegare la relativa debolezza della disciplina in termini del tutto simili a quelli utilizzati una decade prima oltre oceano e a premere per una revisione in senso empirico della stessa. Risulta inoltre evidente che il metodo 76 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA dei casi ha anche qui acquisito una egemonia pressoché totale. Il modello americano rappresenta inoltre il punto di riferimento nel settore della consulenza, anche se questa è ancora nella sua infanzia e non esistono al momento dati che possano supportare previsione alcuna circa i possibili sviluppi futuri. Etica e imprese Lo stato di salute dell'EDA come strumento manageriale è fonte di preoccupazioni simili a quelle elencate sopra. A ciò che negli anni '80 sembrava uno sviluppo inarrestabile è subentrato un progressivo scetticismo circa le potenzialità dell'investimento etico. Lo scetticismo pervade in misura equivalente sia il mondo delle imprese, il quale aveva inizialmente adottato gli strumenti etici in modo entusiastico, sia il pubblico in generale. Le ragioni di ciò vanno ricercate nella superficialità (se non disonestà) con cui diverse imprese hanno utilizzato la bandiera etica per pubblicizzare operazioni e marchi la cui natura morale era a dir poco controversa. Responsabilità non meno gravi hanno anche gli operatori del settore i quali hanno utilizzato gli strumenti etici per sostenere pratiche manageriali inaccettabili e per essersi resi complici nell'opera di distorsione promossa dalle imprese. A partire dalla metà degli anni '90 la stampa ha iniziato a porre sotto un crescente scrutinio l'operato di numerose imprese che avevano adottato l'EDA come simbolo per un nuovo modo di fare affari. Le conclusioni sono state più che sconfortanti e hanno finito per danneggiare la reputazione delle aziende in questione in modo grave. Le prime vittime sono state multinazionali quali Ben & Gerry (alimentari) e Body Shop (cosmetici) accusate entrambi di utilizzare l'EDA come un sofisticato strumento di pubbliche relazioni per promuovere il proprio marchio. Come è stato infatti appurato, nessuna delle due aveva dato luogo al tipo di investimenti etici annunciati e commercializzava prodotti il cui valore etico non corrispondeva a quello pubblicizzato. Successivamente è stato inoltre messo in luce come imprese che hanno sposato cause sociali e caritatevoli (Esprit, Levi Strass, The Gap, Co-Op Bank, Starbucks, Stride Rite Shoes e Reebok per fare alcuni nomi) operavano in paesi e secondo modalità che violavano in modo sistematico diritti umani basilari (cfr. Entine, 1996). Risulta anche chiaro che un elevato numero di imprese che hanno adottato codici etici intendeva questi come strumenti per manipolare le relazioni industriali e opporsi alle forze sindacali. Solo di rado i codici sono stati accompagnati da forme di consultazione o anche dal supporto di comitati etici indipendenti che possono implementarli in modo imparziale (cfr. Entine e Nichols, 1996). Il caso più eclatante di tutti è forse quello della Enron la cui bancarotta fraudolenta ha non solo distrutto i fondi pensionistici dei dipendenti, ma ha portato al fallimento della Arthur Andersen, l'audit incaricata di verificarne la contabilità e la compagnia che tanto aveva fatto per influenzare lo sviluppo dell'EDA negli USA12. Un secondo elemento che ha contribuito ad inclinare la fiducia del mondo delle imprese nei confronti dell'EDA è la mutata atmosfera culturale prevalente negli anni '90. L'egemonia del pensiero neoliberale ha riportato alla ribalta la fede panglossiana nel mercato e rilegittimato la metafora della mano invisibile. In un clima culturale del genere le strategie di exit, quelle cioè basate sulla fuoriuscita dalle relazioni contrattuali insoddisfacenti, tendono ad essere privilegiate rispetto a quelle basate sulla consultazione e sulla partecipazione. Le politiche di privatizzazione e di deregulation del mercato del lavoro hanno inoltre favorito il prevalere di un capitalismo predatorio meno interessato ai guadagni di lungo periodo ottenibili attraverso la creazione di lealtà diffuse. L'effetto congiunto dei due fenomeni (egemonia neoliberale e rischio insito nell'investimento etico) hanno di fatto alterato l'analisi costi-benefici che aveva favorito l'EDA nel decennio scorso. Come riportato nella relazione di apertura della Business Ethics 2000 Conference il risultato è al momento disarmante: "il movimento di etica degli affari manca in questa nazione [USA] della vitalità necessaria e sembra che abbia tristemente perso l'opportunità giusta [...] il mondo imprenditoriale americano nel suo complesso serve i suoi utenti meno effettivamente di come dovrebbe perché l'EDA non riceve l'attenzione che gli spetta in troppe organizzazioni" (Yuspeh, 2000)13. 77 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA Per quanto riguarda i cittadini, la disillusione con le tematiche etiche è andata crescendo di pari passo con le inchieste che rivelano le strategie opportunistiche sottostanti molti degli sbandierati impegni etici assunti dalle imprese. Particolarmente sospetti sono stati inoltre viste le adozioni di codici etici i cui principi ispiratori non riflettono le esigenze dei vari stakeholders ma solo gli interessi di coloro che li pongono in essere. Infine, l'assenza di strumenti imparziali di monitoraggio e sanzione (i comitati etici d'impresa) ha rafforzato la percezione che l'EDA non sia altro che una forma sofisticata di autopromozione. Sarebbe a dire, uno strumento retorico diretto a migliorare le relazioni pubbliche delle imprese che lo adottano ma che non ha influenza reale alcuna sulla performance dell'impresa stessa (cfr. Doig e Wilson, 1998). L'analisi teorica portata avanti nella prima parte del capitolo intende dimostrare che l'EDA e i meccanismi di autoregolazione non possano essere etichettati come semplici strumenti acritici. L'EDA rappresenta uno strumento di principled governance le cui potenzialità sono lontane dall'essere state esplorate. Un approccio contrattualista del tipo descritto nelle pagine precedenti porta alla definizione di vincoli morali all'agire delle imprese e del management incompatibili con le strategie opportunistiche perseguite dalle corporations elencate sopra. Anche nei casi in cui si cerca di dimostrate che esiste una certa coincidenza tra comportamento morale e autointeresse, questa non porta alla giustificazione della 'get rich quickly' filosofia promossa dal pensiero neoliberale. La distinzione fra massimizzazione vincolata e massimizzazione diretta sostenuta da pensatori neo-hobbesiani come Gauthier e Sacconi non ha solo valore linguistico ma è di cruciale importanza. L'idea di codice etico come contratto sociale parziale integrativo se presa sul serio sarebbe quindi in grado di proteggere i soggetti deboli dal potere di contrattazione delle corporations. E' chiaro però che una delega assoluta e priva di qualsiasi controllo da parte delle istituzioni pubbliche rende l'idea di autoregolazione completamente vuota. I contratti sociali parziali descritti dai codici debbono essere parte integrante del contratto sociale generale. Debbono quindi incorporare i valori di base necessari per lo sviluppo di una società bene ordinata e definire gli obblighi a questa connessi. Note 1 Per Smith la divisione sociale del lavoro assicura infatti non solo una remunerazione dei fattori della produzione giusta, ma garantisce inoltre che "il benessere di un principe europeo non è sempre troppo al di sopra di quello di un contadino industrioso e frugale, il cui benessere risulta più elevato di quello di molti re africani, signori assoluti delle vite e delle libertà di migliaia di selvaggi nudi" (1776, libro I, cap. I). Per la teoria neo-classica questo duplice obiettivo viene raggiunto per l'operare congiunto di forze di mercato che connettono le retribuzioni al contributo marginale che ogni individuo apporta al processo produttivo e di legge psicologiche che assicurano una soddisfazione marginale decrescente dell'utilità. Cfr. Buchanan (1985). 2 Con questo termine si intende la moderna impresa economica con una divisione interna del lavoro e separazione tra proprietà, controllo e produzione più o meno estesa. L'impresa individuale, quella cioè in cui tutte le funzioni interne sono portate avanti dal proprietario stesso, non pone problemi etici diversi da quelli riguardanti la morale personale. Le imprese a responsabilità limitata rientrano nella prima categoria. 3 Due teorie che anticipano quella di Ladd nell'identificare il mercato come un ambiente darwinista che seleziona solo le aziende che massimizzano i profitti sono quelle di Alchian (1950) e Friedman (1953). A differenza di Ladd i due autori non ritengono necessario alcun intervento legislativo mirato alla regolamentazione del mercato dato che i meccanismi selettivi identificati operano come se guidati da una mano invisibile benefica. 4 Il termine stakeholder deriva da un gioco di parole col termine stockholder, azionista. Gli stakeholders sono tutti coloro i quali hanno degli interessi coinvolti (stakes) nell'azione dell'impresa. Il riferimento agli stakeholders è utilizzato in opposizione a quanti come Milton Friedman (1971) ritengono che l'impresa abbia solo responsabilità morale verso gli azionisti. 5 Va notata la similarità tra le conclusioni di McMahon e il principio di differenza di Rawls. In entrambi i 78 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA casi il punto di vista morale coincide con quello del soggetto più svantaggiato. Ciò porta però McMahon a confrontarsi con la revisione operata da Rawls in (1993). In Political Liberalism il punto di vista morale deve riflettere i principi stabiliti a livello costituzionale e quindi imporrebbe al management di assumere la prospettiva del legislatore. McMahon non risolve la divergenza con Rawls ma individua tre alternative compatibili col modello contrattualista proposto. La prima è quella che lega il giudizio manageriale al punto di vista dei lavoratori (bottom up), la seconda è quella che sostituisce i lavoratori con il legislatore (top bottom) mentre la terza è il risultato di un equilibrio riflessivo tra i due punti di vista. 6 La tesi trova la sua prima sistematizzazione teorica nel saggio di Ronald Coase del 1937. Il saggio è poi stato da stimolo per lo sviluppo di due percorsi di ricerca: uno di carattere teorico portato avanti da Oliver Williamson (1985) e l'altro di carattere storico perseguito da Stephen Marglin (1974). Per uno studio del saggio di Coase e della sua rilevanza per la teoria economica vedi il volume curato da Williamson e Winter (1993). Il lettore italiano è inoltre rinviato ai volumi di Brosio (1989) e Landes (1987) dove sono proposte le traduzioni dei contributi più significativi. 7 Nella letteratura economica le forme di opportunismo identificate sono due: la 'soluzione avversa' (adverse selection) e 'l'azzardo morale' (moral hazard). Queste dipendono dal tipo di asimmetria informativa che caratterizza l'interazione. Nel caso di soluzione avversa l'asimmetria precede la relazione contrattuale, mentre nell'azzardo morale è successiva, dovuta al fatto che l'agente ha maggiori fonti di informazione sul processo produttivo rispetto al principale. Per una più estesa analisi dei modelli microeconomici e della teoria dell'agenzia vedi Grillo e Silva (1989), Kreps (1991) e Tirole (1988). 8 Questi problemi ricorrono spesso in connessione con l'operato delle imprese multinazionali. L'accusa di imperialismo culturale riguarda la leggerezza (se non disprezzo) con cui sono trattati le tradizioni e i valori delle comunità indigene nei paesi in via di sviluppo. L'accusa di relativismo morale riguarda invece il tentativo delle imprese multinazionali di giustificare pratiche che violano il rispetto dei diritti umani facendo appello all'alterità dei valori culturali indigeni. Cfr. Donaldson (1991) e Mayer (2001). 9 Con il termine costi di transazione comunemente si intende "i costi degli scambi, inclusi i costi della formulazione di accordi e contratti, e i costi, in termini di ritardi e perdite di opportunità per scambi reciprocamente vantaggiosi, dovuti a comportamenti strategici (bluff, resistenza per spuntare prezzi più alti o più bassi, minaccia di interrompere la trattativa, e così via)" (Buchanan, 1985: 163-4). Per una panoramica del dibattito accademico sul ruolo e rilevanza della teoria dei costi di transazione vedi i saggi contenuti nel volume curato da Christos Pitelis (1993). 10 Le strategie di exit sono nel linguaggio di Hirshmann quelle dove il soggetto insoddisfatto termina la relazione contrattuale unilateralmente e senza spiegazione. Come Hirshmann acutamente osserva, l'exit funziona efficientemente in situazioni dove l'uscita non comporta nessun costo. Nel modo reale tali ambiti sono ristretti a transazioni riguardanti beni standard per cui esistono una miriade di fornitori alternativi e sostituti perfetti o ad ambiti dove non sono necessari investimenti specifici. Questo spiega l'emergere dell'opportunismo come espressione di dissenso, rivincita, etc. Hirshmann nota anche come le imprese che si basano solo sull'exit sono caratterizzate da una forte mobilità del personale che non permette lo sviluppo di forme di lealtà aziendale e hanno una vita media inferiore rispetto alle imprese che utilizzano forme di voice. Nei mercati con un azionariato diffuso le strategie di exit possono generare dinamiche incontrollabili e portare alla bancarotta aziende anche prestigiose la cui reputazione è stata danneggiata da pratiche manageriali discutibili ancor prima che le autorità investigative abbiano portato a termine le inchieste. 11 Una lettura alternativa (e conflittuale) delle relazioni tra EDA e azione sindacale è portata avanti da Salvatore (2001). Secondo Salvatore l'EDA nel porre al centro dell'attenzione la dimensione individuale sottovaluta quella politica e istituzionale del sindacato. Da un punto di vista pratico la critica coglie il segno. In effetti per come si è sviluppata prima negli USA e poi in Europa l'EDA ha prestato scarsa attenzione al ruolo del sindacato. Da un punto di vista teorico non esiste però una incompatibilità di principio. L'approccio di McMahon per esempio può servire per sviluppare un'analisi più sofisticata delle relazioni tra l'EDA e l'azione sindacale. Lo stesso si potrebbe dire a proposito di un approccio durkheimiano all'EDA dove i codici e i comitati etici d'impresa rappresentano pratiche di sussidiarità dirette allo sviluppo di una principled governance a più livelli. 12 Per un’accurata analisi critica del fallimento della Enron e della Arthur Andersen vedi Blackburn (2002). 13 A conclusioni simili arriva anche il Department of Trade and Industry della Gran Bretagna. Nella sezione riguardante la corporate social responsibility, il rapporto del 2002 afferma che: "Sebbene ci sia stato un buon progresso, rimane ancora molto da fare. Ci sono ancora molte organizzazioni che non si 79 ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA assumono responsabilità sociali e ambientali" (citato in Cowe, 2002). 80 V Etica della pubblica amministrazione e teorie della burocrazia Lo sviluppo dell'etica della pubblica amministrazione (EPA) segue un percorso parallelo a quello dell'EDA. La data di nascita della disciplina risale anche essa alla metà degli anni '70, avviene negli USA e fu stimolata proprio dalla pubblicazione del lavoro di Rawls (1971). L'evento che da vita alla disciplina è la pubblicazione, avvenuta nel 1974, di un numero monografico della Public Administration Review il cui obiettivo era quello di sviluppare le implicazioni della teoria della giustizia di Rawls per la pubblica amministrazione (cfr. Sacconi, 1998). L'interesse degli officiali pubblici per l'opera di Rawls era dovuto alla critica dell'approccio utilitarista portata avanti dal filosofo americano. Sin dal New Deal di Roosevelt i principi utilitaristi erano stati il punto di riferimento per l'azione amministrativa. Per l'utilitarismo il compito delle istituzioni pubbliche è quello di definire la funzione di utilità sociale aggregata e le politiche dirette alla massimizzazione di tale funzione sociale. Si tratta di un compito percepito come tecnico e neutrale rispetto ai conflitti ideologici che caratterizzano la politica: è tecnico in quanto utilizza le sofisticate modellizzazioni predisposte dai teorici della scelta collettiva, è neutrale perché adotta meccanismi aggregativi che tengono nella stessa considerazione le preferenze di ciascun individuo1. Come visto, il filosofo di Harvard mette in evidenza la tendenza dell'utilitarismo a sottovalutare i diritti individuali e la separatezza fra le persone. In secondo luogo, Rawls afferma la necessita di subordinare le questioni pertinenti l'efficienza economica a quelle relative la giustizia sociale. L'importanza della critica rawlsiana per gli ufficiali pubblici si può apprezzare maggiormente se si tiene conto di alcuni elementi aggiuntivi. L'adozione dei principi utilitaristi da parte delle burocrazie pubbliche aveva comportato il rifiuto della separazione tra amministrazione e politica e favorito lo sviluppo dell'idea secondo cui l'ufficiale pubblico è l'agente fiduciario (trustee) dei cittadini. In un sistema democratico e pluralista ciò significa attribuire all'amministrazione pubblica una triplice responsabilità: verso i cittadini, verso il legislativo e verso l'esecutivo. Conseguentemente prende piede la convinzione che la PA non può essere subordinata all'esecutivo ma deve svolgere una funzione di coordinazione e bilanciamento fra le richieste provenienti dal sociale e dal politico. Le politiche di welfare resero inoltre evidente come la complessità dell'azione di governo richiede all'ufficiale pubblico un continuo esercizio del proprio potere discrezionale. L'azione amministrativa non può quindi essere puramente strumentale ma richiede l'adozione di un punto di vista impersonale dal quale valutare le alternative rilevanti con le quali si confrontava l'amministrazione. L'approccio rawlsiano risulta rilevante per due ragioni: primo perché permette una valutazione deontologica delle politiche pubbliche; secondo perché indica il punto di vista etico da adottare quando si esercita potere discrezionale. Nel definire il punto di vista etico dal quale valutare la legittimità delle istituzioni sociali fondamentali Rawls individua limiti costituzionali all'esercizio del potere politico esogeni rispetto a quest'ultimo. Tale approccio verrà a caratterizzare il costituzionalismo di James Buchanan (1977), David Gauthier (1986) e del pensiero neoliberale in generale. I vincoli etico-costituzionali derivati attraverso tale approccio non sono puramente formali, ma hanno delle implicazioni sostanziali significative. Nel caso di Rawls i principi di giustizia individuati dall'autore subordinano le politiche welfariste al soddisfacimento di forti diritti di cittadinanza sociale. Nel caso dei neo-liberali queste politiche sono invece subordinate al rispetto dei diritti di proprietà individuale. Con Rawls assume inoltre preminenza la nozione di stabilità. Per Rawls tale nozione assume la forma di un criterio ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA psicologico per distinguere fra richieste etiche ragionevoli e supererogatorie e per valutare i costi morali che ogni principio, politica o istituzione impone agli individui. Le teorie neoliberali, dal canto loro, adoperano l'idea di stabilità per definire un criterio di demarcazione in grado di distinguere politiche ragionevoli e riforme utopiche e per riaffermare la priorità degli giudizi tecnico-avalutativi su quelli puramente etico-prescrittivi. Il capitolo si articola in due parti. La prima è dedicata all'analisi teorica. Qui sono discusse le varie prospettive dalle quali è stata tradizionalmente analizzata la PA: sociologia, politologia ed economia. Queste prospettive sono richiamate al fine di presentare uno schema riassuntivo che individua il ruolo che secondo ciascuna deve essere riservato all'autoregolazione etica. Successivamente l'attenzione viene concentrata sull'approccio economico e in particolare sul modello elaborato da William Niskanen (1971). L'enfasi posta sulle teorie economiche della burocrazia è dovuto alla rilevanza che queste hanno assunto sia da un punto di vista esplicativo sia prescrittivo. Anche in questo caso l'approccio economico sembra avanzare una 'tesi della superfluità dell'EPA'. Lo studio delle debolezze teoriche che viziano l'approccio economico rappresenta dunque il primo passo per chiarire le potenzialità dell'autoregolazione etica. Nella seconda parte sono proposti invece alcuni cenni sullo sviluppo dell'EPA come strumento di governo manageriale della PA. Lo studio riguarda tre contesti nazionali particolarmente significativi. Il primo è ovviamente quello americano dove è nata l'EPA. Gli altri due sono invece l'esempio inglese, che continua ad ispirare le riforme neo-liberali attualmente in corso in Europa, e quello italiano. L'obiettivo che ci proponiamo con lo studio di questi casi è quello di analizzare sia il tipo di strumenti etici utilizzati sia come questi possono incidere sulla performance della PA in due aree di primaria importanza: l'efficienza dell'azione amministrativa e la corruzione degli ufficiali pubblici. PROSPETTIVE TEORICHE NELL'ANALISI DELLA BUROCRAZIA La burocrazia e i fenomeni burocratici sono stata analizzati da tre prospettive teoriche principali: quella sociologica, quella politologica e quella economica. Queste prospettive si distinguono per il fatto di basarsi su letture alternative del fenomeno burocratico, dei meccanismi che ne spiegano l'emergere e lo sviluppo e, infine, dei criteri utilizzati per valutarne l'operato. La prima e più importante prospettiva è quella sociologica, la cui sintesi più esaustiva si trova nell'opera di Max Weber (1922). Per il sociologo tedesco il termine burocrazia individua una forma organizzativa tipicamente moderna, connessa cioè con l'emergere dello stato nazionale e dell'organizzazione capitalistica della produzione. Secondo la narrativa weberiana, lo sviluppo dello stato nazionale si rese possibile proprio grazie all'azione di potenti strutture burocratiche al servizio dei sovrani. Queste strutture hanno avuto la funzione di mobilitare le risorse necessarie all'azione di governo dei sovrani senza dovere passare attraverso l'intermediazione della nobiltà feudale. Le file di queste strutture di governo erano infatti occupate da personale amministrativo salariato dipendente direttamente dall'autorità centrale. In aggiunta, Weber descrive la burocrazia come il modello organizzativo tipico delle società capitalistiche dove la produzione e gli scambi sono dominate da imprese operanti secondo una rigida logica razional-strumentale. Un'organizzazione burocratica ha, per Weber, una struttura gerarchica che opera per mezzo di una divisione razionale del lavoro e routinizzazione di ruoli e funzioni. Più che l'assetto proprietario, o il settore di attività, la caratteristica fondamentale della burocrazia come tipo ideale è per Weber l'articolazione interna e la relazione funzionale fra uffici e ruoli. I presupposti metodologici che guidano l'analisi sociologica sottoscrivono un modello di agenzia che attribuisce agli individui l'abilità di identificarsi con gli obiettivi e i valori legati ai ruoli occupati. Di conseguenza l'analisi e la valutazione di forme di organizzazione burocratica diverse sono portate avanti attraverso l'analisi dei processi dialettici (o multicausali) che hanno accompagnato l'emergere di un particolare tipo ideale e l'analisi comparata tra tipi ideali e tipi storici. 82 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA La seconda prospettiva teorica è quella sviluppata dalla scienza politica a partire al contributo seminale di Gaetano Mosca (1895). La burocrazia in questa ottica viene studiata non come la manifestazione di un fenomeno sociale quale la modernità, ma, più prosaicamente, quale insieme di istituzioni incaricate di implementare le decisioni dell'autorità sovrana. Il termine burocrazia è quindi utilizzato come sinonimo di quelli di governo e pubblica amministrazione. Ciò che distingue l'amministrazione pubblica da quella privata sono i seguenti elementi: (i) l'avere una natura obbligatoria (ii) l'essere stabilite per legge (iii) avere come obiettivo il bene collettivo (iv) l'operare sotto un sistema di vincoli che combinano responsabilità giuridica e politica La scienza politica non ha elaborato una metodologia distinta rispetto alla sociologia e all'economia. La differenza significativa rispetto a queste due discipline riguarda l'idea che l'ambito politico non è una categoria residuale del sociale o dell'economico. Al contrario, quello politico è visto come un ambito autonomo dove hanno luogo tutte le attività aventi rilevanza per la comunità nel suo insieme: il forum (cfr. Elster, 1997). In contrapposizione con la prospettiva economica la scienza politica contesta inoltre sia la tesi secondo cui il bene collettivo rappresenta il sottoprodotto dell'azione massimizzatrice di soggetti autointeressati, sia l'ingiunzione che il ruolo della politica è quello di aggregare preferenze individuali prepolitiche. L'autonomia della politica dipende dal fatto che il bene comune è il prodotto di azioni collettive intenzionali a cui si arriva attraverso forme di deliberazione pubblica. Conseguentemente, l'analisi e la valutazione di varie forme organizzative burocratiche deve essere portata avanti attraverso lo studio delle relazioni che queste intrattengono con i principi costituzionali riconosciuti e la comparazione con forme istituzionali e costituzionali alternative. La prospettiva economica infine definisce la burocrazia come una forma di organizzazione produttiva che può essere o alternativa o complementare a quella di mercato. Nel primo caso la burocrazia rappresenta una forma istituzionale in competizione con il mercato; una forma di produzione basata su strutture gerarchie e relazioni di autorità. Nel secondo caso la burocrazia identifica una entità economica sui generis che si occupa di produrre beni che non possono essere prodotti dal mercato. In entrambi i casi l'ambito di studio è l'equilibrio tra la domanda e l'offerta di beni e servizi pubblici; uno studio portato avanti attraverso l'analisi del tipo di interazione istituzionale che ha luogo nel settore pubblico. L'approccio economico allo studio della burocrazia persegue una alternativa epistemologica radicale rispetto alle prospettive sociologica e politica. Sottostante questo approccio c'è un modello di agenzia, derivato dall'individualismo metodologico, che vede gli individui come 'creatori' di ruoli, piuttosto che 'assuntori' di ruoli. Gli individui sono descritti come portatori di desideri e preferenze fisse ed esogene, mentre i ruoli e le funzioni sociali sono visti come il risultato di equilibri di contrattazione fra soggetti autointeressati. Di conseguenza, l'analisi e la valutazione delle varie forme di produzione burocratica sono portate avanti attraverso lo studio degli schemi di incentivo esistenti entro le varie gerarchie e la comparazione di questi schemi con quelli operanti nel mercato. Le prospettive individuate sopra non si sono limitate ad analisi meramente esplicative ma sono state ricche di suggestioni normative. Primo: ognuna ha cercato di identificare le ragioni che giustificano o meno l'esistenza e l'operato delle istituzioni burocratiche rispetto a forme organizzative alternative. Dal punto di vista sociologico queste ragioni sono connesse con lo sviluppo e il rafforzamento di identità collettive nazionali. A queste la scienza politica ha aggiunto il problema della governance; sarebbe a dire, la risoluzione dei conflitti di interesse e dei problemi di coordinazione che affliggono le comunità politiche nazionali. In entrambi i casi l'azione pubblica è stata connessa con la cura di ciò che Emile Durkheim (1893) chiama gli elementi non contrattuali del contratto. Una giustificazione questa che ricompare anche nella teoria economica in connessione con la nozione di beni pubblici. Secondo: significativa è anche stata l'analisi delle patologie prodotte dalla burocrazia e 83 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA le soluzioni avanzate per attenuarle. Weber e Durkheim per esempio hanno enfatizzato la tendenza delle società moderne alla sclerosi burocratica e l'emergenza di forme diffuse di disincanto e di anomia (cfr. Palumbo e Scott, 2003). A partire dagli anni '70 la scienza politica ha invece concentrato l'attenzione sulle contraddizioni prodotte dalle politiche di welfare e inaugurato il tema della crisi di legittimità (cfr. Offe, 1984). Va notato comunque che a partire dalla meta del novecento sia la sociologia sia la scienza politica hanno progressivamente abbandonato le grandi narrative della modernità per limitarsi a studi empirici di fenomeni più ristretti e settoriali. Una dinamica opposta ha invece caratterizzato l'approccio economico. Al crescente interesse ad investigare l'interno della 'scatola nera' con cui i neo-classici identificavano il governo ha fatto da contraltare l'assenza pressoché completa di studi empirici. A tutt'oggi, infatti, l'intera letteratura economica sulla burocrazia rimane prettamente teoretica e ancorata al modello analitico elaborato dalla teoria della scelta razionale. Le indicazioni normative che si ricavano dalle prospettive teoriche esaminate sono riassunti in figura 5.1. Le dimensioni cooperativo/competitivo e interno/esterno sono utilizzate nell'accezione già vista nel capitolo precedente (vedi p. 115). COOPERATIVO COMPETITIVO ESTERNO Legislazione Mercato INTERNO Codici/Voice Managers Figura 5.1. Prospettive normative sulla burocrazia Tradizionalmente gli approcci sociologici e politologici hanno sottoscritto un approccio esternalista e visto nello strumento legislativo il solo mezzo per regolare la PA. La teoria economica dal canto suo ha consistentemente ritenuto che solo la disciplina del mercato potesse contenere l'influenza perversa del settore pubblico e richiesto estese privatizzazioni. Nelle occasioni in cui l’oggetto di interesse è stata l'organizzazione interna, si è assistito in generale alla convergenza delle tre prospettive teoriche verso soluzioni di tipo manageriale che intendono introdurre forme di mercato all'interno della PA. Unica eccezione di rilievo è quella di Emile Durkheim (1957), il quale ha proposto soluzioni di tipo partecipativo che anticipano quelle suggerite dai movimenti etici attuali. A seguito dello sviluppo dell'EPA si è infatti assistito al crescente interesse da parte dei sociologi verso l'autoregolazione etica, recuperando così suggestioni avanzate dalla tradizione durkheimiana. Come per l'EDA, anche l'EPA sottoscrive un approccio internalista imperniato nell'adozione di strumenti quali i codici etici, i comitati che sovrintendono la loro implementazione e forme di voice che danno all'utente potere di influenza sulle decisioni amministrative. Teoria economica della burocrazia e superfluità dell'epa Delle tre prospettive teoriche discusse sopra quella economica ha finito per acquisire una sorprendente preminenza sia a livello accademico sia a livello politico. L'approccio economico ha prodotto una vasta letteratura che ha finito per oscurare le ricerche e i contributi apportati dalle altre due discipline. Questa letteratura è stata inoltre determinante nell'influenzare le riforme amministrative portate avanti nei paesi occidentali a partire dagli anni '80. Le soluzioni avanzate dall'approccio economico si basano, come visto, o su politiche di privatizzazione o su strategie manageriali che intendono introdurre la disciplina del mercato nella PA. Il compito di questa sezione è dunque quello di riassumere le argomentazioni economiche, evidenziarne i difetti esplicativi e le inconsistenze normative e chiarire come l'EPA possa colmare tali lacune. Facendo nostra una suggestione avanzata da Keith Dowding (1995), distinguiamo due aspetti dell'approccio economico all'analisi della burocrazia: le assunzioni metodologiche che la indirizzano e la modellistica che questa ha prodotto. Coerentemente con la teoria neo-classica, 84 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA l'approccio economico identifica ogni istituzione che opera nella sfera pubblica come un giocatore con una chiara funzione di utilità ed un obiettivo semplice e preciso: la massimizzazione dell'utilità attesa. In aggiunta, lo schema di incentivi che caratterizza il contesto nel quale ha luogo l'interazione con altre istituzioni pubbliche è concepito come il risultato di un equilibrio strategico tra i vari giocatori. Se questi sono gli elementi concettuali e metodologici che accomunano le analisi economiche, le varie scuole di pensiero emerse a partire dagli anni '50 si distinguono per avere focalizzato l'attenzione sull'interazione strategica tra i diversi giocatori che operano nella sfera pubblica: gli elettori, i gruppi di interesse, i politici, il governo, la PA, etc. Si possono così individuare almeno quattro giochi di contrattazione: • • • • il gioco democratico fra cittadini e i loro rappresentanti per la produzione di beni pubblici e per la ridistribuzione del surplus cooperativo il gioco di governo tra il parlamento e l'esecutivo per la definizione delle politiche legittimate dal gioco precedente il gioco burocratico tra rappresentanti eletti e ufficiali di carriera per la produzione dei beni e dei servizi pubblici richiesti dal governo il gioco di implementazione tra ufficiali pubblici a cui e demandato il compito di applicare la legge e i cittadini e i gruppi sociali a cui la legge si applica2 La nostra discussione considera solo il gioco burocratico e tralascia tutti gli altri. La scelta è dettata dall'esigenza di concentrare l'attenzione sulla PA. L'identità tra le strutture analitiche dei vari giochi di contrattazione rende inoltre questa omissione innocua. L'analisi critica che sviluppiamo può essere infatti estesa a tutti gli altri giochi. Storicamente i contributi che hanno aperto la strada alla teoria economica della burocrazia sono stati i saggi di Gordon Tullock (1965), Anthony Downs (1967) e William Niskanen (1971). Di questi solo l'ultimo ha avuto un'influenza significativa e duratura. Niskanen avanza la seguente definizione di burocrazia: "le burocrazie sono delle organizzazioni nonprofit finanziate, anche se solo in parte, attraverso sovvenzioni periodiche o contributi" (1971: 15). Gli uffici pubblici (bureaus) sono inoltre descritti come unità produttive specializzate "nel fornire beni e servizi che alcune persone desiderano in quantità maggiori rispetto a quanto sarebbe possibile finanziare attraverso la vendita al minuto per unità singole" (ibid.: 18)3. A capo di ogni ufficio c'è un ufficiale di carriera il quale indirizza la produzione in modi consistenti con il suo autointeresse. Ciò equivale a dire che il burocrate ha "una funzione di utilità positiva e monotonica rispetto al budget totale dell'ufficio durante la sua permanenza in carica" (ibid.: 38). Il budget dell'ufficio è "finanziato da una organizzazione collettiva singola (o dominante) la quale si procura i soldi attraverso la raccolta di imposte o altri tipi di contribuzioni più o meno obbligatorie" (ibid.: 24). In un sistema bipartitico quale quello statunitense studiato da Niskanen, l'ammontare di beni e servizi finanziato in questo modo è definito dal 'teorema del voto-mediano' elaborato da Downs (1957). Niskanen descrive infine la relazione tra l'ufficio e lo sponsor come un gioco di contrattazione suscettibile di produrre due diversi equilibri. Nell'eventualità in cui la domanda di beni e servizi è bassa, l'ufficio tenderà a produrre il doppio della quantità domandata. Se la domanda è invece alta l'ufficio produrrà l'esatta quantità richiesta dallo sponsor ma a prezzo doppio. Nel primo caso l'ufficio determina un'allocazione inefficiente delle risorse sociali, mentre nel secondo caso è responsabile per un'elevata inefficienza produttiva. Il modello di Niskanen combina e formalizza due vecchie concezioni della burocrazia: l'idea di burocrazia come organizzazione inefficiente e l'idea della burocrazia come sistema di governo fine a se stesso4. Risulta perciò semplice comprendere l'interesse suscitato dal lavoro e il successo acquisito dallo stesso in un periodo caratterizzato dalla fine del consenso keynesiano. Da un punto analitico il modello di Niskanen risulta però semplicistico ed estremamente difettoso. Il risultato del gioco di contrattazione descritto da Niskanen dipende da un elevato numero di variabili ambientali che rendono impossibile la conclusione netta avanzata 85 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA dall'economista americano. In aggiunta, molte di queste variabili dipendono dai risultati degli altri giochi elencati sopra e dal possibile sviluppo di coalizioni fra sottoinsiemi degli agenti che prendono parte a giochi diversi. La contrapposizione netta tra un settore pubblico inefficiente e un settore privato efficiente ha infine portato all'individuazione di soluzioni normative tanto semplicistiche quanto radicali5. In primo luogo il gioco di contrattazione descritto da Niskanen si sviluppa come se avesse luogo nel vuoto istituzionale. Ufficio e sponsor rassomigliano ad agenti hobbesiani impegnati in un gioco non-cooperativo piuttosto che agenti istituzionali connessi da precise relazioni di autorità stabilite a livello legislativo e suscettibili di essere imposte autoritativamente. In questo senso, l'approccio economico cade nell'errore opposto a quello dei positivisti giuridici e finisce per svalutare il ruolo della legge in modo del tutto inaccettabile. In secondo luogo il modello di Niskanen descrive una relazione strategica tra due agenti istituzionali a cui viene attribuita una funzione di utilità singola. Una procedura simile risulta inconsistente con la metodologia individualista propria dell'approccio economico e non tiene conto delle relazioni strategiche interne a ufficio e sponsor, come anche le possibili coalizioni tra sottoinsiemi dell'uno e dell'altro agente. Il difetto risulta particolarmente evidente perché i risultati a cui arriva Niskanen sono il prodotto del modo arbitrario con cui l'autore evidenzia l'esistenza di un conflitto interno allo sponsor che deve operare il controllo, ma sottace quello interno all'ufficio. Vale la pena infine sottolineare che il modello di Niskanen non è mai stato corroborato empiricamente. Nei pochi casi in cui si è tentato una verifica empirica o le predizioni avanzate sono state refutate o si è arrivati a risultati inconcludenti. Nel rispondere alle critiche elencate sopra Niskanen ha proceduto ad una riqualificazione del modello. L’autore ora riconosce che "gli uffici producono servizi in modo inefficiente solo se misurati in relazione agli interessi generali della popolazione ma non se misurati in relazione agli interessi dei politici. In questo senso [...] molti dei difetti attribuiti agli uffici dipendono dalle regole decisionali prodotte dagli organi legislativi di cui gli uffici rappresentano semplici appendici (1993: 278). Ciò significa ammettere che il cattivo della storia non è il burocrate ma il politico, e che forse il gioco burocratico non ha l'importanza che gli si era attribuito. Critiche simili possono essere però rivolte anche al gioco democratico e a quello di governo studiati dalla teoria della scelta collettiva e delle decisioni pubbliche. La conclusione a cui si arriva è dunque che l'asserzione aprioristica dell'inefficienza del pubblico rispetto al privato è teoricamente ingiustificata. Limiti delle soluzioni economiche L'approccio economico individua due fonti di inefficienza burocratica fondamentali. La prima riguarda il processo di crescita delle strutture amministrative pubbliche e l'inefficienza allocativa che questo processo comporta. La seconda ha come punto di riferimento il potere monopolistico della PA nel fornire beni e servizi pubblici e i modi in cui questo monopolio conduce all'inefficienza produttiva. Sulla base di questa diagnosi sono stati individuali le seguenti contromisure: (i) la riduzione del potere d'influenza dello stato nell'economia attraverso precise regole costituzionali; (ii) una chiara distinzione tra pubblico e privato così da proteggere le libertà dei cittadini dalle tentazioni socialiste a cui conduce l'economia di welfare; (iii) la depoliticizzazione di numerose decisioni pubbliche (specialmente in campo economico); (iv) la prevenzione di future espansioni del settore pubblico attraverso il rafforzamento del settore privato; (v) il trasferimento di tecniche manageriali dal settore privato alla PA al fine di aumentarne l'efficienza produttiva. Tralasciando le considerazioni riguardanti l'equità e la giustezza dei principi costituzionali invocati dai neo-liberali (per le quali rimandiamo ai capitoli precedenti), le politiche di privatizzazione, deregolamentazione e riforma manageriale sollevano grossi dubbi anche e soprattutto di carattere economico. Nella seconda parte accenneremo ai risultati pratici conseguiti dalle riforme amministrative che si sono ispirate a tali soluzioni. Qui ci interessa evidenziare i limiti teorici delle prescrizioni avanzate. Le politiche di privatizzazione si basano su una resoconto ambiguo del ruolo della PA e 86 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA della natura del potere monopolistico a questa attribuito. Se il ruolo della PA è quello di produrre beni e servizi che, nelle parole di Niskanen, "alcune persone desiderano in quantità maggiori rispetto a quanto sarebbe possibile finanziare attraverso la vendita al minuto per unità singole" (1971: 18), non è affatto chiaro se un ritorno al mercato sia possibile. Niskanen sembra infatti asserire due tesi contrastanti: che la PA produca beni pubblici e che esiste una alternativa di mercato per gli stessi. Queste due asserzioni sono però inconsistenti, dato che l'esistenza di un bene pubblico è logicamente connessa con l'assenza di soluzioni di mercato. Alternativamente, se accettiamo l’idea che l'esistenza di una produzione pubblica di tipo monopolistico è dovuto alla presenza di beni pubblici, allora risulta chiaro che le politiche di privatizzazione avrebbero effetti deleteri. Infatti, ferma restando la necessità di avere quel dato bene o servizio pubblico, la privatizzazione della produzione comporterebbe la creazione di un monopolio privato libero dalla relazione di autorità che lo lega allo sponsor e ancora più difficile da controllare. Ipotizziamo comunque che esistano soluzioni di mercato alternative. Se questo è vero esiste un punto di riferimento disponibile allo sponsor per controbilanciare l'asimmetria informativa dell'ufficio. Lo sponsor sarebbe quindi in grado di verificare se i costi di produzione dichiarati dall'ufficio sono gonfiati e optare per forniture alternative. Un'ulteriore debolezza concettuale notata più volte a proposito di Niskanen riguarda l'identificazione tra ufficio e capo ufficio. Se è vero che la PA opera spesso come monopolista lo stesso non può dirsi del burocrate. Il capo ufficio non solo non è un monopolista ma non ha nemmeno il potere di appropriarsi il surplus monopolistico prodotto dall'ufficio. Fare ciò sarebbe del tutto illegale e provocherebbe l'intervento dell'azione giudiziaria. In un saggio del 1975 Niskanen ha proposto una revisione del modello dove riconosce che ad influire sulle decisioni pubbliche che distorcono il modo in cui le risorse sociali sono allocate non è la PA ma le istituzioni rappresentative. L'economista americano rimane però dell'opinione che le imprese operanti nel settore pubblico sono inefficienti in quanto producono a costi superiori a quelli delle imprese presenti sul mercato. Le ragioni che spiegano l'inefficienza produttiva sono quelle già viste: (a) la tendenza dei burocrati a massimizzare la loro funzione di utilità attraverso la massimizzazione del budget dell'ufficio (b) esistenza di una asimmetria informativa a favore dei burocrati riguardo i costi di produzione (c) l'emergenza di un problema di free-riding tra coloro che devono controllare la PA (legislativo ed esecutivo) Come risolvere l'inefficienza produttiva della PA? A parte le strategie di privatizzazione già discusse, l'indicazione di Niskanen è quella del decentramento amministrativo e di forme di concorrenza interna. Il decentramento amministrativo implica la frammentazione dei dipartimenti in una miriade di agenzie esecutive le quali producono i beni e servizi richiesti sulla base di contratti bilaterali con la direzione del dipartimento (o il ministero). Le agenzie, a loro volta, dovrebbero essere organizzate su base privatistica e competere fra di loro per i vari contratti. I dubbi che una soluzione manageriale del genere solleva sono ironicamente simili a quelli avanzati da Hayek e altri economisti liberali contro i modelli di mercato socialista proposti dall'economista polacco Oskar Lange (cfr. Buchanan, 1985, cap. 6). Primo: esiste un incentivo da parte delle agenzie a distorcere le informazioni di cui sono in possesso e rendere impossibile la determinazione di un sistema di prezzi effettivo. Il problema potrebbe essere ridimensionato se si crea un numero rilevante di agenzie chiamate a competere per lo stesso contratto. I difetti in cui incorre tale soluzione sono però notevoli. Se l'oggetto del rapporto contrattuale sono beni standard (cancelleria e pulizie per esempio), la soluzione più economica sarebbe quella di acquistare questi beni direttamente sul mercato. Nel caso in cui questi beni non sono disponibili sul mercato, la creazione di diverse agenzie dipartimentali che possano produrre lo stesso bene comporterebbe duplicazioni il cui costo sarebbe superiore ai benefici potenziali della competizione. Esiste quindi il rischio che politiche di decentramento simili si risolvano nella creazione agenzie monopolistiche le quali operano sulla base di contratti 87 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA bilaterali privati. Nel quale caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di relazione che riproduce il gioco burocratico discusso originariamente da Niskanen. Occorre comunque notare che data la natura privatistica del contratto e l'assenza di alcun vincolo legislativo che si oppone all'appropriazione del surplus, il manager che dirige l'agenzia ha ora un incentivo a sfruttare l'asimmetria informativa. L'esistenza di diverse agenzie indipendenti favorisce inoltre la frammentazione e l'emergere dei problemi di coordinazione. La teoria dei giochi ha messo in evidenza come questo tipo di problemi siano tutt'altro che irrilevanti e richiedano notevoli sforzi e risorse per la loro risoluzione. Nei casi in cui la direzione dipartimentale è connessa con le singole agenzie da contratti privati e non più da una relazione di autorità, la sua funzione di coordinazione risulta ridotta e può essere anche fonte di ulteriori ambiguità. Problemi molto più complessi ed ostici possono sorgere infine quando alla coordinazione pura si aggiungono conflitti sul tipo di equilibrio favorito dalle varie agenzie. Come visto nei giochi della caccia al cervo o in quello della battaglia dei sessi discussi nella prima parte, i costi sociali connessi al mancato coordinamento possono risultare tanto elevati da rappresentare la giustificazione economica principale per l'integrazione verticale e la creazione di relazioni d'autorità. Ancora una volta occorre notare che l'attenzione pressoché esclusiva attribuita ai meccanismi di incentivo monetario è destinata ad aggravare questi problemi in quanto finisce per premiare i comportamenti opportunistici. In determinati ambiti dove l'esistenza di asimmetrie informative è un fatto strutturale ineliminabile, il premere solo sulle motivazioni economiche degli agenti può portare alla selezione avversa di tratti caratteriali che rendono l'opportunismo una condizione generalizzata e pervasiva. I benefici conseguibili con l'azione opportunistica possono inoltre essere utilizzate per 'catturare' i watchdogs e dare così vita a relazioni collusive tra controllori e controllati (cfr, Sacconi, 1994a). Il risultato a cui porta la soluzione è dunque quello di accentuare i comportamenti strategici e le inefficienze produttive. Managerialismo e autoregolazione etica: confronto fra soluzioni interne Vediamo ora come l'EPA affronta il problema dell'inefficienza produttiva che affligge l'azione burocratica. La discussione riprende le prospettive contrattualiste analizzate a proposito dell'EDA e le adatta al contesto della PA. Iniziamo con la stakeholder analysis la quale utilizza un approccio più direttamente influenzato dalla logica economica. Secondo questa prospettiva teorica le varie forme di opportunismo che originano dall'uso strategico delle asimmetrie informative (selezione avversa e azzardo morale) possono essere attenuate attraverso l'osservanza di vincoli sul comportamento da tenere. L'indicazione è quindi quella di sottoscrivere codici di comportamento i quali stabiliscono i principi a cui conformarsi in situazioni ideal-tipiche. La sottoscrizione e corretta osservanza del codice equivale all'adozione di una strategia di cooperazione condizionale del tipo descritto da Gauthier (1986). La giustificazione economica per questo tipo di soluzione è duplice. Ex ante la razionalità del codice è data al fatto che un'applicazione generalizzata dello stesso consente incrementi paretiani dell'utilità sociale aggregata che altrimenti non sarebbero possibili. Ex post i singoli agenti sono invece motivati ad osservare il codice a causa degli effetti reputazionali che questo comporta. La natura pubblica dell'obbligo assunto nel sottoscrivere il codice e la pubblicità data alle violazioni esposte dai comitati etici rende infatti possibile premiare la buona reputazione e penalizzare i soggetti che hanno una cattiva reputazione (cfr. Sacconi, 1989). L'attribuzione di forme di voice all'utenza (da operarsi attraverso l'istituzione di carte di servizi varie) consente infine un migliore controllo del management e del personale esecutivo e rende l'opera dei comitati etici più effettiva. La stakeholder analysis vede quindi l'autoregolazione etica come uno strumento per ridurre i costi di governo in modi comparativamente più efficienti rispetto a quelli di mercato. Un approccio alternativo alla stakeholder analysis è derivabile dalla teoria politica delle organizzazioni di McMahon (1995). Come visto, per l'autore inglese il problema morale con cui si devono confrontare le organizzazioni è quello relativo alla giustificazione dei modi in cui 88 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA queste esercitano il potere loro delegato. Da questa prospettiva l'oggetto di analisi dell'EPA è la legittimità dei principi che guidano l'azione burocratica e la corretta osservanza di tali principi da parte degli ufficiali pubblici. Nel contesto pubblico non emergono le problematiche relative a quale soggetto fra cittadini, governo e burocrati ha maggiore rilevanza etica. Dato che la sorgente ultima del potere risiede nel popolo, il personale politico elettivo e gli ufficiali di carriera sono entrambi agenti fiduciari del cittadino. Per McMahon il risultato del processo deliberativo democratico definisce inoltre i termini di una cooperazione mutuamente vantaggiosa ed è quindi il punto di riferimento per valutare la razionalità di scelte collettive alternative. I codice etici devono perciò assumere che quello del cittadino rappresenta il punto di vista morale che gli ufficiali pubblici devono adottare nel valutare corsi d'azione alternative. Un codice siffatto ha potere motivazionale non in quanto compatibile con l'autointeresse dei soggetti a cui si rivolge, ma perché riflette il sistema di valori in cui gli ufficiali pubblici si riconoscono come cittadini. Ciò implica due cose. Primo: il codice deve riconoscere forme di dissenso morale genuino, che non possono cioè essere inquadrate come autointeresse economico, e predisporre strumenti adeguati per regolare l'obiezione di coscienza. Secondo: il codice deve stabilire un sistema di incentivi più ampio di quelli monetari suggeriti dalla teoria economica e tale che premi il talento e l'impegno sociale6. In entrambi i casi il codice funge da contratto parziale integrativo del contratto sociale generale espresso a livello costituzionale. In quanto tale il codice serve per specificare il tipo, l'ammontare e la qualità delle prestazioni che la PA deve fornire per soddisfare i diritti di cittadinanza riconosciuti a livello costituzionale e per predisporre un quadro normativo unitario all'interno del quale inquadrare le varie patologie dell'azione burocratica. Il codice serve inoltre per definire i parametri per mezzo dei quali il politico (e per estensione l'esecutivo o il suo management) valuta le prestazioni della PA. Tra questi parametri rientra anche la definizione di cosa rappresenta un abuso di potere: sia quello degli ufficiali pubblici nei confronti degli utenti sia quello del dicastero (il ministro o il direttore del dipartimento nominato dal ministro) nei confronti del personale amministrativo. L'istituzione di forme di voice rappresenta infine un mezzo per ridurre il deficit informazionale delle strutture di controllo attraverso il coinvolgimento dell'utenza e la creazione di canali informativi alternativi a quelli gerarchici interni. Il coinvolgimento degli agenti operanti nelle varie istituzioni politiche, amministrative e sociali all'elaborazione e implementazione dei codici etici ha una duplice funzione. Una tecnicostrumentale che consiste nel ridurre le asimmetrie informative tra gli agenti e, per questa via, le inefficienze dovute all'opportunismo. Una seconda più filosofica consiste invece nello stabilire meccanismi di governance che cercano di realizzare sia l'ideale kantiano di autonomia sia il principio democratico di autogoverno. Nella misura in cui questi ideali filosofici hanno effetti motivazionali significativi, l'EPA rappresenta una valida alternativa alle soluzioni manageriali difese dalle teorie economiche. IL MOVIMENTO ETICO E LE RIFORME AMMINISTRATIVE NEO-LIBERALI A partire dagli anni '80 il settore pubblico e la PA in particolare sono state l'oggetto di una offensiva neoliberale che ha pochi precedenti nella storia recente del mondo occidentale. Prese nel loro insieme le varie riforme amministrative hanno dato vita ad estesi esperimenti sociali il cui obiettivo è stato quello di, per dirla con le parole di Margaret Thatcher, riportare indietro le frontiere dello stato. Come anticipato, i principi che hanno guidato queste riforme si basano sulle analisi di Niskanen e di altri teorici delle decisioni pubbliche. Gli effetti perversi generati da molte di queste riforme hanno finito per riaccendere l'interesse verso l'autoregolazione etica vista come uno strumento alternativo alle politiche neo-liberali. In questa parte proponiamo l'analisi di tre contesti nazionali dove entrambi i fenomeni, riforme neo-liberali e ripresa del movimento etico, hanno assunto una rilevanza paradigmatica. I primi due riguardano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per l'ovvia influenza e guida che questi paesi hanno avuto (e continuano ad avere) sia nel campo delle riforme neo-liberali sia per lo sviluppo dell'EPA. 89 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA L'ultimo caso è quello italiano dove a partire dal 1992 il sistema politico e la PA sono state l'oggetto di attenzione della magistratura prima e di riforme strutturali profonde successivamente7. Il movimento etico negli Stati Uniti L'Ethics in Government Act approvato nel 1978 segna uno dei punti più alti del movimento etico statunitense. La legge origina dall'impegno assunto da Jimmy Carter durante le elezioni presidenziali del 1976 di porre fine alle pratiche di malcostume politico emerse durante lo scandalo del Watergate. La legge si rivolge quindi all'esecutivo piuttosto che alla PA e ha il compito di integrare il sistema dei checks and balances stabilito dalla costituzione regolando quelle aree grigie che la costituzione non riesce a coprire. L'avvento della presidenza Reagan e l'adozione di un programma di governo neoliberale spostano in seguito l'enfasi dall'esecutivo sulla PA. Gli emendamenti apportati dall'Ethics Reform Act nel 1989 e dagli Executive Orders (12674/12731) nel 1992 hanno come oggetto la regolamentazione del conflitto di interessi e della discrezionalità del funzionario pubblico e riflettono i sentimenti anti-burocratici della destra libertaria americana. Se negli anni '70 l'etica pubblica aveva rappresentato un punto di riferimento per la promozione di politiche sociali dirette alla riduzione delle discriminazioni e delle ingiustizie sociali, la fine del decennio coincide con un cambio nella direzione opposta. L'egemonia politica e culturale acquisita dalla destra libertaria negli anni '80 ha promosso una opposizione ideologica al big government diretta a restringere il campo d'azione del settore pubblico e dell'amministrazione federale. Al crescente disprezzo per le posizioni liberal e per gli intellettuali in generale si accompagna inoltre un ridimensionamento delle politiche di discriminazione positiva dirette verso le minoranze etniche e culturali e del ruolo del funzionario pubblico nell'elaborazione delle politiche sociali. Le politiche di discriminazione positiva sono state accusate di essere incostituzionali e progressivamente ridotte anche grazie all'azione di una corte suprema orientata sempre più a destra. Per altro verso, alla figura del funzionario pubblico impegnato nella realizzazione di una società più giusta si è sovrapposta quella del colletto bianco corrotto. In campo accademico, come visto, si assiste all'ascesa dell'approccio economico negli studi sulla burocrazia che proprio sull'agente opportunista e collusivo basano le proprie premesse comportamentali. Come nota Lorenzo Sacconi, ciò ha comportato un cambio di enfasi sul ruolo dell'EPA: "l'approccio di politica economica costituzionale disenfatizza l'attenzione per le regole morali interiorizzate nel comportamento individuale dei singoli, e consiglia di guardare alle regole istituzionali entro le quali essi scelgono e partecipano al gioco delle decisioni pubbliche: è all'etica delle regole che si deve guardare e alla loro influenza, attraverso il calcolo del migliore interesse personale, sul comportamento e sul risultato" (1998: 130). Si è affermato cioè un approccio normativo esternalista basato su un ristretto modello comportamentale e sistemi di incentivo puramente monetari. Da un punto di vista sostanziale, il codice etico della PA stabilisce che il funzionario è un fiduciario pubblico e definisce una serie di principi finalizzati a garantire l'imparzialità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il documento elenca inoltre quattordici principi generali che devono regolare la condotta dei funzionari. I principi identificano i criteri da utilizzare in situazioni in cui può emergere un conflitto tra azione pubblica e interesse privato. Gli elementi sui quali vale la pena soffermarsi sono due. Il primo riguarda l'obbligo di denunciare la corruzione di cui si viene a conoscenza. Il principio è stato introdotto per proteggere coloro che divulgano violazioni che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. Le 'soffiate' rappresentano uno degli strumenti più effettivi che il politico ha per controbilanciare l'asimmetria informativa a favore dei funzionari; rappresenta inoltre l'unica forme di voice disponibile agli ufficiali pubblici per esprimere il loro dissenso e resistere all'abuso di potere dei loro dirigenti. La protezione accordata alle soffiate attraverso il Whisteblower Protection Act ha quindi non solo una funzione teorica di primaria importanza ma rappresenta l'unico esempio disponibile fra i 90 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA casi qui analizzati. Il secondo elemento di novità riguarda l'ingiunzione a preservare l'apparenza di correttezza ed evitare azioni e comportamenti che possano sembrare in conflitto con i criteri etici stabiliti. Il principio è importante a causa della difficoltà implicita nell'osservare presunte violazioni da parte di un giudice imparziale. Il suo inserimento nel codice ha quindi l'obiettivo di avviare le procedure di inchiesta senza aspettare di avere a disposizione prove giudiziarie certe, così da prevenire ricadute negative sulla reputazione dell'amministrazione. Bisogna infine sottolineare che l'amministrazione americana è anche fra le poche che ha dato vita a istituzioni incaricate di implementare e visionare l'osservanza del codice. A questo proposito bisogna ricordare l'istituzione dell'Office of Government Ethics (OGE), che ha responsabilità per l'intera amministrazione federale, e dei Designated Agency Ethics Officials (DAEOs), incaricati di sovrintendere al funzionamento del codice a livello dipartimentale. L'impulso dato dall'Ethics in Government Act del 1978 ha portato allo sviluppo dell'EPA a livello statale, di contea e municipale dove sono ben presto sorti istituti che riflettono quelli federali. A questi si è inoltre aggiunta l'emissione di numerose carte dei servizi e la creazione di varie agenzie che a cui è stata demandata la promozione, la consulenza e il compito di rispondere alle proteste di cittadini ed utenti. Alla regolamentazione disciplinare minuziosa del funzionario ha fatto però da contraltare il restringimento dell'autonomia e dell'influenza politica della PA rispetto alle lobby private. Così al declino delle politiche di discriminazione positiva e del big government ha corrisposto un aumento del potere delle corporations nel determinare gli orientamenti dell'esecutivo e del legislativo. Il movimento etico in Gran Bretagna Con l'ascesa al potere del partito conservatore della signora Thatcher inizia una lunga serie di riforme mirate all'annullamento del potere di autogoverno della PA. Le varie politiche perseguite dai conservatori britannici a partire dal 1979 (e dal 1997 in poi anche dai governi laburisti) hanno avuto come obiettivo il passaggio da un modello organizzativo basato sulla correttezza (procedurale) dei processi amministrativi ad un modello attento ai risultati prodotti da questi processi. Il tenore delle riforme e la loro incidenza sul lungo periodo hanno però suscitato notevoli perplessità e critiche. La nuova macchina amministrativa sembra non essere molto più efficiente della vecchia; in più si ha l'impressione che abbia perso l'affidabilità che contraddistingueva la struttura amministrativa precedente. Due fasi caratterizzano il processo di riforma amministrativa portato avanti dai conservatori. Nella prima (che va all'incirca dal 1979 al 1987) l'obiettivo del governo è stato quello di restringere il settore pubblico attraverso politiche di privatizzazione. Si è inoltre cercato di ridurre i costi amministrativi attraverso l'imposizione di stretti limiti alle capacità finanziarie dei dipartimenti: sono state applicate restrizioni finanziarie, ridotte le libertà di spesa e resi effettivi strumenti di monitoraggio finanziario. Nella seconda fase (dal 1988 al 2000) i vari governi che si sono succeduti hanno rivolto la loro attenzione alla riforma della struttura organizzativa dipartimentale. Attraverso i progetti Next Steps prima e la Public Private Partnership (PPP) successivamente è iniziato un ampio processo di decentramento amministrativo e di gestione manageriale. Allo stesso tempo sono stati introdotti strumenti legislativi che ambiscono a sviluppare logiche di mercato all'interno della PA e forme di competizione tra settore pubblico e privato. Infine, è stato ricercato un maggiore coinvolgimento dell'utenza e si è cercato di migliorare la qualità dei servizi pubblici con l'introduzione di carte di servizi. Con l'avvio delle riforme Next Steps e PPP è riesploso il dibattito riguardante il ruolo e la funzione della PA nel contesto di uno stato democratico. Ancora più acutamente si è riproposto il problema degli standard etici che devono guidare l'azione pubblica, il personale amministrativo e il governo stesso. Come nelle precedenti occasioni anche questo dibattito ha preso le mosse dall'emergere di scandali e disfunzioni. Il processo di riforma in corso solleva tre tipi di critiche. Il primo riguarda l'incremento dei casi di cattiva amministrazione dovuti 91 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA all'operare delle nuove agenzie amministrative. Il secondo ha come oggetto la spregiudicatezza delle politiche governative e i modi in cui il governo cerca di sfuggire l'opposizione attraverso pratiche che sistematicamente eludono il controllo del parlamento8. Per ultimo solleva perplessità anche il modo in cui parlamentari, ministri e alti dirigenti amministrativi confondono interessi pubblici e privati nel portare avanti il processo di privatizzazione o nello stabilire le partnerships tra pubblico e privato. In parole povere le riforme sono accusate di reintrodurre il sistema clientelare precedente la riforma Northcote-Trevelyan del 1854 con la quale nasce la moderna PA britannica. I critici delle politiche neo-liberali mettono in evidenza come l'effetto congiunto delle politiche di privatizzazione e di decentramento amministrativo è stato quello di attirare persone poco sensibili all'ideale di un Civil Service come impegno al servizio del pubblico, ma estremamente interessate ai ritorni economici ricavabili dal processo di ristrutturazione in corso (selezione avversa). Questo ha poi determinato un incremento dei casi di cattiva amministrazione e delle ingerenze politiche improprie sul Civil Service (azzardo morale e concussione). Tali preoccupazioni hanno ricevuto una qualificata conferma dalle inchieste portate avanti dal Public Account Committee (cfr. PAC, 1994) il quale ha sollevato critiche non solo riguardo alle qualità morali, ma anche alle reali capacità manageriali dei responsabili delle nuove agenzie. Le risposte a queste critiche hanno dato vita ad un'impressionante produzione di rapporti investigativi e di proposte normative. Nel 1994 il primo ministro John Major diede vita ad una commissione d'inchiesta governativa, The Nolan Committee, il cui mandato era quello di definire gli standards etici che devono guidare la condotta degli ufficiali pubblici. La commissione, tuttora attiva sotto la direzione di Lord Wicks, ha pubblicato diversi rapporti, stabilito i principi generali a cui si deve ispirare la PA e favorito la nascita di codici etici dipartimentali e carte di servizi. La riformulazione dei principi etici che debbono ispirare tutte le attività di governo ha portato all'individuazione di Seven Principles of Public Life: Imparzialità; Integrità; Obiettività; Responsabilità; Pubblicità; Onestà; Direzione. Gli strumenti identificati per l'implementazione di questi principi e per la loro interiorizzazione nella coscienza degli ufficiali pubblici sono tre: l'elaborazione di codici di condotta; la definizione di procedure d'appello indipendenti; l'individuazione di meccanismi per l'educazione e l'assistenza del personale stesso. Rispetto al passato le novità introdotte dalla commissione sono due. Prima di tutto lo strumento dei codici viene allargato a tutto il settore pubblico e non solo all'amministrazione centrale dello stato9. In secondo luogo viene posta molta enfasi sui processi educativi e sui meccanismi di assistenza e coinvolgimento del personale. Quest'ultimo fatto, più che le specifiche proposte legislative, è il punto di maggiore interesse. Finita l'era in cui si riponeva fiducia nei meccanismi di selezione informale ed elitarie, il mantenimento di alti standard etici viene affidato a chiari codici di condotta e a processi educativi e a meccanismi di socializzazione aperti e trasparenti. I risultati concreti a cui la commissione potrà arrivare sono comunque difficili da prevedere. Gli impegni presi dal partito laburista prima delle elezioni politiche del 1997 sono state infatti successivamente o rinnegati o rinviati indefinitamente. Fra le marce indietro più significative è da ricordare quella relativa al piano di 'politica estera etica' lanciato nel 1997 dal Ministro degli esteri di allora Robin Cook. Il piano prevedeva di rifiutare la vendita di armi e materiale militare ai paesi che violavano i diritti umani e il diritto internazionale. Gli atteggiamenti del governo sono ben presto risultati in contraddizione con tale impegno e hanno portato sia alla sostituzione di Cook sia all'abbandono di ogni impegno etico in materia. I governi laburisti non hanno inoltre mostrato interesse alcuno per l'approvazione del Civil Sevice Act per il quale si erano impegnati alla vigilia delle elezioni del 1997 (a tutt'oggi non esiste una legge parlamentare che regola la PA). I principi che ispirano l'azione del governo Blair sono del resto indistinguibili da quelli che hanno ispirato i governi precedenti e continuano ad attribuire priorità alle logiche di mercato e alle politiche di privatizzazione. 92 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA Il movimento etico in Italia La PA italiana nasce come estensione dell'amministrazione sabauda al resto della penisola secondo un periodare che segue il processo di unità nazionale. Il modello amministrativo riflette dunque quello dell'assolutismo piemontese, il quale sarà poi accentuato dal regime fascista e riconfermato dal regime repubblicano instaurato nel 1948. Le caratteristiche di questo modello sono quelle di un sistema fortemente accentrato, operante attraverso un'organizzazione dipartimentale strutturata secondo linee gerarchiche che riflettono quelle militari e preoccupata più della correttezza formale del processo che del conseguimento di obiettivi specifici. tale modello di PA venne sancito con l'approvazione della legge di unificazione amministrativa approvata il 22 marzo 1865 (n. 2248), la quale segna la sconfitta dell'ipotesi regionalista propugnata dal Minghetti. Alla omogeneizzazione e accentramento del potere amministrativo centrale seguì inoltre un riordino del potere locale che impose la dipendenza degli enti locali dallo stato attraverso le prefetture. Le varie riforme apportate nel corso dei decenni, come anche nel periodo repubblicano, più che ribaltare tale modello organizzativo hanno accentuato la farraginosità e le inconsistenze dell'azione amministrativa. Il regime fascista oltre a rafforzare la centralizzazione dei poteri introdusse la figura degli enti pubblici quali istituzioni parallele all'amministrazione centrale dello stato. Al termine della guerra la costituente si impegnò per "ripristinare il modello statale e di organizzazione amministrativa tipico della tradizione giuridico liberale, scisso e quasi contrapposto alla società civile seppure concepito a sua garanzia" (Zoppi, 1992: 21). Come per il passato "al centro della riflessione campeggiano l'atto amministrativo e i connessi profili del procedimento e della giustizia come garanzia del cittadino nei confronti dell'atto amministrativo" (Ibid.: 23). L'unica differenza rispetto al modello liberale riguarda il massiccio sviluppo degli enti pubblici secondo la logica tipica del periodo fascista; un processo questo che segue le trasformazioni intervenute con il boom economico degli anni '60 e che continuerà sino agli anni '90. In questo stesso periodo le politiche del personale promossero il progressivo ingrossamento degli organici; processo questo che è continuato sino ai nostri giorni e che ha contribuito a svalutare la professionalità del ceto burocratico e a promuoverne la deresponsabilizzazione. "L'unico aspetto innovativo che si riscontra sul piano delle funzioni svolte dalla PA", osserva ancora Zoppi, "è conseguenza proprio dell'incremento notevole nel numero degli addetti. Si assiste in effetti all'assunzione, da parte della PA, di un ruolo di salvaguardia [...] dei livelli occupazionali complessivi. Funzione questa destinata a svilupparsi [...] tanto da trovarne una teorizzazione" (Ibid.: 35). Il risultato è stato un meccanismo di selezione avversa che ha innalzato i costi di governo in misura crescente e depresso lo sviluppo economico di intere regioni del paese. Il decentramento regionale e la contrattazione collettiva intervenuti a partire dagli anni settanta più che opporsi a questo trend lo hanno accentuato sino al punto da dargli un aspetto patologico sconosciuto nel resto degli altri paesi occidentali. L'effetto di selezione avversa che queste politiche hanno avuto sul personale amministrativo è stato fenomenale. La PA ha finito per intasarsi di personale dalle dubbie qualità, sia professionali sia etiche, mentre la contrattazione collettiva e gli istituti di diritto pubblico hanno reso tale ceto burocratico parassitario e irremovibile. L'inefficienza della PA ha inoltre favorito l'emergere di strutture amministrative parallele gestite direttamente dai politici e trasformato i diritti di cittadinanza garantiti a livello costituzionale nell'oggetto di uno scambio politico di natura collusiva. In questo panorama desolato l'unico atto amministrativo in controtendenza è stata la legge di riforma del procedimento amministrativo approvata nel 1990 (n. 241), la quale riafferma il ruolo di servizio pubblico della PA e istituisce limitate forme di voice per l'utenza. Il processo di implementazione della legge è stato comunque estremamente tortuoso ed è, a più di un decennio dalla sua approvazione, ancora lontano dall'essere concluso. A partire dai primi anni '90 sulla scia delle esperienze straniere sopra ricordate hanno fatto la loro comparsa gli strumenti di autoregolazione etica dirette alla riduzione delle forme più patologiche di cattiva amministrazione. Anche in questo caso, comunque, si è assistito al prevalere del formalismo giuridico e dell'imposizione gerarchica rispetto all'enunciazione di 93 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA principi normativi generali e al coinvolgimento dei vari stakeholders. A seguito delle inchieste iniziate con l'operazione 'mani pulite' del 1992, una commissione guidata dal giurista Sabino Cassese ha prodotto un codice di condotta. Col decreto legislativo n. 29 del 1993 il codice è stato allegato al contratto di lavoro dei dipendenti pubblici. Nel novembre del 2000 il Consiglio dei Ministri ha infine approvato un nuovo decreto legislativo che aggiorna il codice di comportamento e ne rafforza l'efficacia giuridica10. Conformandosi ai modelli stranieri analizzati, il codice inizia con l'affermazione dei valori che debbono ispirare i funzionari pubblici. Anche in questo caso si afferma il ruolo del funzionario come fiduciario del pubblico e si ricordano a quest'ultimo i doveri verso la Costituzione e la legge in generale. A tale preambolo segue l'elenco dei principi fondamentali dell'azione amministrativa a cui tutti si devono conformare: correttezza, efficienza e imparzialità. Seguono quindi articoli riguardanti: regali e altre utilità (art. 3), cosa rappresenta un comportamento non corretto e come evitare di dare anche solo l'impressione di improprietà; conflitto di interessi (art. 4, 5, 6, 7 e 12); imparzialità e rapporti col pubblico (art. 8, 9 10, 11); valutazione dei risultati (art. 13). Il codice differisce dal modello americano e britannico in due punti. Primo: i principi a cui ci si richiama sono puramente formali ed evitano ogni riferimento a principi etici sostanziali. Secondo: il codice non prevede l'istituzione di organi specifici diretti all'implementazione e supervisione del codice. A differenza del codice americano quello italiano non accorda inoltre nessuna protezione a coloro che denunciano violazioni (soffiate), ne sono previsti programmi di educazione etica per i dipendenti. Come chiarito originariamente dalla commissione Cassese, il codice ha una natura più di carattere disciplinare che etico; l'obiettivo che si propone è infatti quello di colmare le lacune della normativa nel settore dell'impiego pubblico11. Limiti delle esperienze attuali Esistono dei limiti comuni alle esperienze discusse sopra. Il primo e più evidente di questi è dovuto al fatto che l'approccio etico continua a essere percepito come second best rispetto alle soluzioni neo-liberali. L'autoregolazione etica viene spesso vista come una soluzione obbligata, dovuta cioè all'impossibilità di procedere ad ulteriori privatizzazioni e/o riforme manageriali che introducono il mercato nella PA. Altre volte l'EPA rappresenta invece una soluzione intermedia, da adottare cioè fino a quando non è possibile passare a riforme più sostanziali. Come per l'EDA, anche in questo caso l'influenza del positivismo ha favorito il pregiudizio diffuso verso strumenti di tipo culturali ritenuti soft. L'analisi teorica sviluppata sopra ha cercato di sfatare il mito positivista secondo cui solo riforme strutturali esternaliste possono conseguire benefici. In particolare, il confronto con le teorie economiche della burocrazia, che riflettono questo pregiudizio positivista in modo paradigmatico, ci ha consentito di evidenziare come le riforme di mercato auspicate siano potenzialmente meno efficaci di quelle soft difese dall'EPA. In presenza di fallimenti di mercato genuini, le soluzioni di mercato risultano o impossibili o del tutto ineffettive. Considerazioni simili possono essere sviluppate nei confronti del positivismo giuridico la cui influenza, soprattutto in Italia, è stata cruciale nel promuovere la giuridificazione del settore pubblico e la sclerosi burocratica che affligge la PA. Un secondo difetto che emerge da queste esperienze riguarda la natura stessa degli strumenti di autoregolazione adottati. Primo: i codici etici non solo sono elaborati senza un reale processo consultivo dei vari stakeholders della PA, ma riconoscono a questi forme di voice estremamente limitate. Come visto, solo nel caso americano si stabilisce la protezione di coloro che rivelano violazioni dei codici. Anche qui si tratta comunque di una protezione molto ristretta che non garantisce i funzionari dei livelli inferiori dell'abuso di potere da parte dei dirigenti o dell'esecutivo. Del tutto assente risulta infine un riconoscimento dell'obiezione di coscienza per gli ufficiali pubblici, anche quando questa è riconosciuta a livello costituzionale o in ambiti quali quello militare e sanitario (come avviene in Italia). Secondo: la struttura dei codici risulta più simile a quelli di disciplina che a strumenti per la risoluzione di conflitti e dilemmi etici. Sia nel caso britannico sia in quello italiano si manifesta esplicitamente una 94 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA posizione scettica nei confronti dell'etica e si preferisce la qualificazione più neutrale di codici di condotta. La distinzione non è solo di carattere linguistico ma sostanziale. In entrambi i casi si è in presenza di veri e propri codici disciplinari le cui intenzioni sono quelli di rafforzare il controllo gerarchico sui funzionari dei livelli inferiori. Questi codici impongono inoltre una morale supererogatoria che contrasta con l'obiettivo principale dell'etica applicata: quello cioè di dare vita ad una principled governance non utopica e dunque self-enforcing. In ultimo risulta evidente come anche nei confronti dei cittadini i vari codici offrono garanzie limitate. Per un verso i codici evitano di assumere impegni etici sostanziali e si limitano all'enunciazione di meri principi formali. I codici non riconoscono diritti di cittadinanza alcuna né servono per garantire ai cittadini servizi sociali necessari per l'esercizio dei diritti riconosciuti a livello costituzionale. Per altro verso le forme di voice attribuite ai cittadini quando non sono del tutto irrilevanti hanno una valenza contrattuale che mimica le relazioni commerciali di mercato. Ai cittadini viene riconosciuta voce in capitolo solo in quanto clienti della PA a cui è dovuta una qualche forma di compensazione per danni subito nell'erogazione di un servizio. A questi rimane però preclusa la possibilità di influire sulla determinazione dei criteri da utilizzare per valutare sia la qualità dei servizi forniti sia le forme di compensazione adeguata. Le carte dei servizi risultano inoltre del tutto superflue nei casi in cui il servizio non è attivato affatto o quando si procede alla sua disattivazione. In entrambi i casi l'unica forma di voice rimane infatti quella della rappresentanza politica. Ciò spiega come, a partire dagli anni '80, sia stato possibile assistere al proliferare dei codici e delle carte dei servizi simultaneamente alla riduzione dei diritti di cittadinanza attiva e al restringimento degli spazi di partecipazione democratica. Note 1 Sul ruolo e rilevanza dell'utilitarismo per le politiche pubbliche vedi Viano (2002, cap. 4) e le raccolte di saggi a cura di Lecaldano e Veca (1986) e Sen e Williams (1982). 2 Il primo e secondo gioco sono gli ambiti di analisi della teoria della scelta collettiva (social choice theory). Il secondo e il terzo caratterizzano invece le aree di ricerca della teoria della scelta pubblica (public choice). Il terzo e il quarto corrispondono invece al campo d'azione delle teorie della burocrazia in senso stretto. In letteratura non esiste una distinzione netta fra questi approcci. Per la teoria della scelta collettiva vedi Martelli (1983) e Rusconi (1989). Per la teoria della scelta pubblica vedi McLean (1987) e Mueller (1989). Per la teoria della burocrazia vedi Niskanen (1994), Peacock (1992) e i saggi contenuti nella terza parte del volume curato da Brosio (1989). 3 Sarebbe a dire la produzione di mercato dove il prezzo è stabilito dall'incrocio tra domanda e offerta. Ciò implica il riconoscimento della natura pubblica dei beni e servizi prodotti dalla burocrazia. 4 Questi due significati si ritrovano anche nell'opera dell'economista francese Vincent de Gournay che coniò il termine burocrazia verso la metà del diciottesimo secolo. L'autore francese è conosciuto anche per avere coniato lo slogan liberista laissez faire, laissez passer (cfr. Albrow, 1970). 5 Onde evitare fraintendimenti è bene notare che l'obiettivo di questa critica non è quello di negare che la PA sia inefficiente. Al contrario, la critica intende sottolineare come l'approccio economico non sia riuscito ad elaborare un modello esplicativo generale delle cause di tale inefficienza. 6 Rispetto all'approccio di Sacconi la teoria politica delle organizzazioni di McMahon risulta più consistente sia da un punto di vista analitico sia motivazionale. Il primo tipo di coerenza è dovuto al fatto che nel caso della PA non risulta affatto chiaro se esista un incentivo ex ante da parte dello stato a vincolarsi. Il modello neo-hobbesiano a cui fa riferimento Sacconi sarebbe valido se applicato al contesto delle relazioni internazionali ma risulta meno convincente quando utilizzato per le relazioni interne. Un'alternativa hobbesiana più adatta sarebbe quella sviluppata nel secondo capitolo dove l'azione del sovrano è connessa con il tentativo di prevenire l'emergenza di coalizioni difensive. Esistono inoltre dubbi sull'abilità della reputazione nel motivare i funzionari pubblici ex post. Primo: il modello di Sacconi richiede la modifica dell'intera struttura interna della PA in senso manageriale così da connettere reputazione e carriera. Secondo: il sistema degli incentivi descritto da Sacconi è puramente monetario. La 95 ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA combinazione di riforma manageriale e manipolazione dei soli incentivi monetari potrebbe aggravare le forme di opportunismo che affliggono la PA, come d'altronde avviene nelle imprese private. 7 Per un maggiore approfondimento dei casi trattati rimandiamo il lettore ai contributi contenuti in Sacconi (1998). Mentre per seguire gli sviluppi più recenti si consiglia di visionare le pagine internet dell'OGE (www.usoge.gov) e del Committee on Standards in Public Life (www.public-standards.gov.uk). Purtroppo al momento il sito del Ministero della funzione pubblica non dedica spazio alcuno alle tematiche etiche. 8 Sui governi della Thatcher e di Major vedi Stott (1995), mentre su quelli laburisti vedi Monbiot (2001). 9 La commissione ha inoltre elaborato un codice etico per i ministri e sta discutendo il progetto di codice etico per i parlamentari. 10 Il codice è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 84 del 10/05/2001 e diffuso nella PA attraverso una circolare del 12/07/2001 (n. 2198/M1/1D/MZ) emessa dal ministro Frattini. Rispetto agli 88 articoli del codice Cassese il nuovo codice ne conta solo 14, ma rinvia alla regolamentazione precedente per la copertura delle aree non trattate da questo. Da un punto di vista sostanziale non si riscontrano innovazioni significative; la revisione sembra sia stata infatti puramente stilistica. 11 Un'analisi critica dettagliata del codice Cassese si trova in Sacconi (1994b), a cui si rimanda anche per la visione dei testi predisposti dalla commissione Cassese riportati in allegato. 96 VI Mafia, antimafia e autoregolazione: una proposta normativa Il racket rappresenta una delle forme più antiche e persistenti di attività mafiosa. In particolari contesti del meridione il fenomeno risulta largamente diffuso e ha una natura pervasiva. La ragione che spiega il motivo del suo sviluppo e della sua persistenza è data dal ritorno economico che questa attività procura a coloro che la praticano. Ai benefici economici si associa inoltre l'immunità acconsentita dalle autorità giudiziarie, le quali hanno per lungo tempo manifestato la tendenza a sottovalutare l'importanza del fenomeno. Un atteggiamento questo largamente condiviso anche dalle forze politiche ed economiche più direttamente interessate dal problema. Una consolidata opinione comune ha infatti ritenuto l'estorsione una forma di attività criminale minore; cioè a dire, non particolarmente cruenta e pericolosa dal punto di vista dell'ordine pubblico. A confermare tale opinione ha contribuito l'apparente blandezza delle azioni ritorsive. Pochi sono stati i fatti eclatanti che hanno attirato l'attenzione dell'opinione pubblica e il racket si è prevalentemente limitato a colpire la proprietà piuttosto che le persone. Ne è scaturito un giudizio di non pericolosità sociale che tanto ha impedito l'elaborazione di efficienti politiche repressive. La revisione di una così consolidata opinione si è avuta solo a partire dagli anni '90. A determinarla hanno contribuito diversi elementi: una maggiore sensibilità seguita ad alcuni violenti fatti di cronaca (quali l'omicidio di Libero Grassi); l'organizzazione spontanea degli imprenditori economici ricattati in funzione difensiva; una maggiore collaborazione fra estorti e forze dell'ordine; una più precisa conoscenza del fenomeno. Alla maggiore sensibilità pubblica si è accompagnato, in campo scientifico, un rinnovato impegno nello studio del problema. Sono state così messi appunto nuovi e più raffinati modelli interpretativi che proprio dall'analisi del racket hanno ricavato elementi interessanti per spiegare la peculiarità dell'agire mafioso. Le diverse ipotesi interpretative hanno concentrato l'attenzione sulla specifica relazione che lega l'agire mafioso alla particolare struttura dei mercati economici. In primo luogo si è cercato di chiarire se esiste una specificità mafiosa rispetto ad altre forme di criminalità organizzata, in cosa consiste, quali motivi ne sono la causa. Ciò ha portato ad una ridefinizione, in senso restrittivo, del concetto di criminalità mafiosa rispetto quella comune con la quale intrattiene complesse relazioni fino al punto da confondervisi. Le analisi descrittivo-interpretative hanno reso possibile elaborare nuove ipotesi sul modo di ridurre le diseconomie ambientali che rafforzano il predominio criminale. E' questo tipo di problematiche che il presente capitolo affronta e discute. La tesi che sosteniamo è che le organizzazioni criminali mafiose rappresentano delle strutture di protezione privata che operano in contesti sociali in cui non si ha un'adeguata protezione pubblica. Rientrano in questi ambiti i mercati illegali, dove quest'ultima è naturalmente esclusa, ma anche i mercati legali dove l'azione giudiziaria assicurata dallo stato è fortemente deficitaria. Questa tesi si basa su un'interpretazione del fenomeno mafioso già rilevata da Max Weber (1922) e sviluppata in modo rigoroso da Diego Gambetta (1989; 1992)1. Secondo questa ipotesi, i gruppi mafiosi rappresentano agenzie di protezione privata che assicurano copertura e garanzia (nonché investimento finanziario) alle attività e ai soggetti operanti in contesti non-cooperativi. La Mafia, in quanto organizzazione, sviluppa così due funzioni: una di enforcement di accordi e contratti e una di coordinamento fra i vari soggetti operanti nei mercati (legali e illegali). I gruppi mafiosi soddisfano quindi un'esigenza di sicurezza che possiamo definire pubblica e questo assicura loro un insediamento stabile MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE all'interno di vari mercati e settori economici. Va però notato che a differenza della protezione garantita dallo stato quella mafiosa non rappresenta un bene pubblico. L'opera di enforcement e di coordinamento garantita dalla Mafia assicura solo forme di cooperazione collusiva le quali operano un rafforzamento delle diseconomie ambientali che impediscono un sano sviluppo economico. I modelli analitici che spiegano la persistenza del fenomeno mafioso attraverso il riferimento alla funzione economica svolta dai gruppi mafiosi non avanzano certo una giustificazione del fenomeno2. Al contrario l'intento che si propongono è quello di rendere evidenti le ragioni che spingono i singoli agenti economici a scegliere la strada collusiva. In questo modo si cerca di spiegare la forza dell'insediamento mafioso e l'inefficienza delle politiche che non incidono sulla funzione protettiva delle organizzazioni mafiose. Risulta chiaro infatti che l'azione giudiziaria anche nei casi in cui è riuscita a scompaginare le strutture verticistiche si è poi dimostrata incapace di impedire la loro ricomposizione. Difetti non meno problematici hanno avuto le politiche di sviluppo le quali hanno finito per rappresentare una fonte di finanziamento privilegiato dei gruppi mafiosi e il punto di congiunzione con il sistema delle imprese e quello politico. Le indicazioni normative che presentiamo in questo capitolo sostengono la necessità di sviluppare delle reti cooperative di natura solidaristica e non collusiva: una cooperazione 'buona' contrapposta a quella 'cattiva' prodotta dalla Mafia (Sacconi, 1994c). Lo sviluppo di queste reti cooperative viene realizzato attraverso la diffusione di strumenti di autoregolazione etica, quali i codici etici d'impresa e delle professioni. L'idea che cercheremo di argomentare è che i codici etici, intesi come contratti sociali parziali integrativi, potrebbero far emergere convenzioni economiche moralmente giustificate; tali da rappresentare una alternativa efficiente alle reti collusive presenti nei mercati protetti. Il lavoro si articola nel seguente modo. Nella prossima sezione presentiamo un approccio al fenomeno mafioso che utilizza i modelli analitici dell'economia neo-istituzionale. Successivamente discutiamo il concetto di estorsione e chiariamo come l'azione mafiosa non è sempre definibile come tale ma ha presso una natura genuinamente protettiva. Nell'ultima sezione viene chiarito come meccanismi di autoregolazione possono essere utilizzati per sviluppare reti cooperative morali alternative a quelle collusivo-mafiose. Il capitolo si conclude con la disamina della stabilità evolutiva delle reti cooperative solidaristiche, intese come sviluppo intenzionale di convenzioni economiche dal chiaro contenuto morale. INEFFICIENZA STRUTTURALE DEI MERCATI MERIDIONALI E RUOLO DELLA MAFIA Come visto nel capitolo quarto, l'economia neo-istituzionale sostiene che le particolari forme organizzative presenti in un mercato, settore economico o area geografica, hanno una relazione diretta con la struttura dei costi di transazione. Le varie delle forme istituzionali esistenti sui mercati reali rappresentano cioè soluzioni razionali agli alti costi di transazione che affliggono le imprese (cfr. Williamson, 1985). La questione da investigare è allora la seguente: è possibile leggere lo specifico caso del Mezzogiorno d'Italia attraverso questo schema concettuale? E' questa cornice teorica in grado di dirci qualcosa di nuovo, e di significativo, circa i problemi del sottosviluppo economico? E ancora più specificamente, è l'analisi neo-istituzionale in grado di spiegare problemi quale quello della persistenza e della pervasività delle organizzazioni mafiose? Gli studi sulle interrelazioni tra sottosviluppo e criminalità portati avanti nel secondo dopoguerra hanno seguito due linee di analisi distinte: una di carattere storico-economico, l'altra socio-antropologico3. In entrambi i casi emergono elementi comuni che possono essere integrati in un modello teorico unitario. Secondo questo modello il sottosviluppo del meridione si deve ai problemi di azione collettiva che affliggono queste regioni; problemi che determinano costi di transazione in media più elevati rispetto a quelli presenti nei contesti economici del CentroNord (cfr. Putnam, 1993). Due le sorgenti di inefficienza sociale: • il contesto strategico a dilemma del prigioniero in cui operano gli agenti economici 98 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE • l'esistenza di convenzioni ed istituzioni economiche le quali rappresentano soluzioni inefficienti ai problemi strategici posti dal dilemma del prigioniero In merito al primo punto si fa notare come una delle caratteristiche macroscopiche dei mercati meridionali sia l'assenza di fiducia e di un'etica pubblica. La peculiarità del carattere meridionale è quello di non fidarsi mai di nessuno, di considerare con scetticismo la capacità degli altri individui di mantenere la parola data, o di rispettare gli impegni presi, in tutti quei casi in cui risulta economicamente conveniente non mantenerla affatto4. Non si tratta comunque di un dato antropologico originario, ma il risultato di politiche sviluppate da dominazioni passate e rafforzate dalle esperienze quotidiane negative degli individui (cfr. Banfield, 1958 e Padgen, 1989). La sfiducia rappresenta sia la causa sia l'esito dell'emergere in modo generalizzato di comportamenti opportunistici che mirano allo sfruttamento esasperato delle asimmetrie informative. Ciò ha impedito lo svilupparsi nel tempo di convenzioni morali favorevoli alla reciprocità degli scambi e, quindi, di forme di cooperazione allargata (cfr. Banti, 1989; Del Monte, 1992). Le aspettative negative circa il comportamento degli agenti si sono talmente consolidate nel tempo che risulta razionale assumere comportamenti opportunistici ogni qual volta si entra in relazione con nuovi soggetti. Solo così si evita di cadere preda dell'opportunismo degli altri. Nei termini della teoria dei giochi il contesto meridionale si presenta quindi come un dilemma del prigioniero; sarebbe a dire un gioco dove l'unica strategia razionale è quella della defezione preventiva. Assenza di fiducia, forti asimmetrie informative, mancanza di convenzioni morali e di forme allargate di cooperazione, aspettative razionali di defezione: tutti questi elementi concorrono a mantenere il sistema economico all'interno della frontiera paretiana (cfr. Dasgupta, 1989). L'inefficienza generale del sistema è data dal fatto che numerosi tipi di transazioni non si realizzano a causa dei costi proibitivi. Se l'agente B ritiene altamente probabile che l'agente S si comporterà in modo opportunistico, questi sarà disposto ad entrare in una relazione contrattuale con l'agente S se, e solo se: (i) esiste la possibilità di stipulare un contratto completo, in grado, cioè, di prevenire tutte le possibili azioni opportunistiche, per tutti gli eventi stocastici possibili; (ii) esiste un apparato giudiziario che rende conveniente all'agente B ricorrervi per far valere i propri diritti legittimi in caso di violazione delle clausole contrattuali. La letteratura neoistituzionale a cui abbiamo accennato precedentemente ha reso esplicite le difficoltà a che queste due condizioni si realizzino. Prima di tutto risulta estremamente improbabile che si possa arrivare a definire dei contratti di lungo periodo completi, o anche a prevedere gli eventi future da regolare. Per quanto riguarda il ricorso all'apparato giudiziario, si fa notare come esistano inefficienze difficilmente eliminabili. In primis esiste una difficoltà teorica riguardo all'osservazione diretta di particolari stati del mondo da parte di un giudice imparziale. Ciò significa che è spesso difficile esprimere un giudizio obiettivo su determinate controversie. Una seconda causa riguarda l'inefficienza relativa dell'apparato burocratico a cui è affidato il compito di amministrare la giustizia. Inefficienza che determina allungamenti dei tempi per ottenere il giudizio. In assenza di questi elementi (contratti di lungo periodo completi, efficienza dell'azione giudiziaria) è razionale per B non entrare in relazione con S. Ciò spiega la tendenza dei singoli a mantenere comportamenti strategici opportunistici che determinano un'allocazione subottimale delle risorse economiche. Da un punto di vista teorico risulta ancora aperto il dibattito sul perché non siano emerse nel Meridione le soluzioni istituzionali del tipo descritti dalla teoria neo-istituzionale: la sostituzione del mercato e delle libere transazioni con forme di pianificazione istituzionale e transazioni gerarchiche. La ricerca storica ha avanzato l'ipotesi che i meccanismi di integrazione verticale descritti da Williamson (1985) hanno trovato una parziale realizzazione a causa della tendenza degli operatori economici a diversificare gli investimenti in modo da suddividere i rischi. Per altro verso, la presenza di alti livelli di turbolenza sociale ha impedito l'emergere di soluzioni alternative quali i distretti industriali, le cooperative economiche, etc5. Particolarmente complesso è lo studio del tipo di relazioni causali che esiste tra fenomeno mafioso e sottosviluppo economico: è la Mafia un prodotto del sottosviluppo o la sua causa? Come il ruolo 99 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE svolto dai gruppi mafiosi continua a retroagire sul contesto? Diego Gambetta ha sistematizzato e reso particolarmente interessante una tesi cui anche Max Weber (e Franchetti prima ancora) aveva dedicato alcune osservazioni. Secondo Gambetta le organizzazioni mafiose assolvono una funzione di intermediazione fiduciaria. Il meccanismo teorico che spiega il fenomeno prende le mosse da quanto abbiamo in parte già esposto. Un soggetto economico che opera su un mercato altamente turbolento e con forti asimmetrie informative si trova costantemente sottoposto al rischio dell'opportunismo della controparte. E' quindi portato a ricercare forme di assicurazione adeguate che gli permettano di evitare il 'bidone', come convenzionalmente viene chiamata la truffa6. In questo ambito trova terreno fertile l'emergere di agenzie private di protezione che garantiscono il soggetto economico esposto all'asimmetria informativa dall'opportunismo della controparte. Naturalmente questa protezione richiede un costo, il quale è proporzionale all'incertezza presente nel mercato. Nello specifico meridionale lo sviluppo delle agenzie di protezione è stato favorito e a preso la particolare configurazione che ha in ragione dell'esistenza di risorse specifiche liberate dallo smantellamento del sistema feudale e del latifondo avvenuto nella prima metà del 1800. Come lo stesso Franchetti nota "La differenza portata dalla abolizione della feudalità nelle relazioni sociali si ridusse dunque a questo: che come la ricchezza, così la prepotenza diventò accessibile ad un maggior numero, e che quella popolazione di facinorosi che prima era al servizio dei baroni diventò indipendente; sicché, per ottenere i suoi servizi bisognò trattare con essa da pari a pari. L'astuzia entrò in maggior proporzione a costituire la forza privata. Ma la forza rimase sempre il mezzo di ottenere in ogni disputa o gara, la vittoria definitiva" (1876: 76)7. Quello che ha reso e rende peculiare l'attività dei mafiosi non è, comunque, la funzione di intermediazione economica da questa acquisita. L'attività di raccolta e vendita delle informazioni necessarie ai soggetti economici è solo un aspetto della funzione di patronage svolta dalla Mafia. Funzione che certamente ne spiega la persistenza nel tempo e il forte insediamento nelle comunità locali, ma che non esplica pienamente la differenza rispetto alle figure economiche di intermediazione legale emersa in altri contesti sociali che condividono una storia simile. La peculiarità dell'azione mafiosa è data dal fatto che essa non si limita a vendere informazioni, ma assicura garanzie ben precise sulle informazioni in suo possesso. Come Gambetta chiarisce: "che [l'intermediatore] sviluppi o meno caratteristiche mafiose dipende principalmente dal fatto che produca e venda informazioni oppure garanzie" (1992: 9). Questo spiega perché l'intermediazione fiduciaria si sia sviluppata in modo pervasivo, ma anche, perché in altri contesti, diversi da quello meridionale, ha avuto e tende a mantenere una funzione economica e sociale del tutto legittima. Nella seconda metà del XX secolo lo sviluppo di ricchi mercati illegali ha poi rappresentato un'area di intervento che si è aggiunta all'intermediazione mafiosa tradizionale ed ha accentuato l'anomalia con le forme di intermediazione istituzionali legali8. L'analisi del ruolo economico della Mafia non costituisce, come abbiamo anticipato, una giustificazione morale del fenomeno criminale per almeno due ragioni. In primo luogo le agenzie private di protezione finiscono col ricoprire un ruolo che negli stati moderni ha rilevanza pubblica ed è appannaggio dello stato. La Mafia cerca di sovrapporsi allo stato, con la significativa differenza che l'intermediazione offerta dalla prima non rappresenta mai un bene pubblico. La protezione mafiosa rimane sempre un bene posizionale il cui costo è crescente. In secondo luogo, essendo la retribuzione dei mafiosi proporzionale all'incertezza presente sul mercato, questi hanno la convenienza a che la turbolenza sociale e le diseconomie ambientali permangano. Ciò determina e promuove l'immissione volontaria di dosi di sfiducia nei mercati. L'esempio paradigmatico è dato dall'enforcement dei diritti di proprietà. Questi ultimi non sono mai assicurati in modo stabile ed esclusivo, ma messi perennemente all'asta. Ogni agente ha quindi la necessità di rilanciare la propria offerta su quella dei concorrenti se vuole evitare di essere espropriato ad opera della stessa agenzia di protezione. La possibilità di contrattare in qualsiasi momento l'assegnazione dei diritti rende imprecisa la distinzione fra legale e illegale e impedisce di attribuire ai gruppi mafiosi una qualsivoglia funzione statuale. La conclusione è che, da un punto di vista generale, l'intermediazione mafiosa rappresenta una soluzione 100 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE decisamente subottimale dei problemi di azione collettiva con cui si confrontano i soggetti economici nel meridione. PROTEZIONE O ESTORSIONE? Estorsione e protezione rappresentano due modalità d'azione delle organizzazioni mafiose che nella pratica comune si tende a confondere sovrapponendole. Argomentiamo a favore di una distinzione perché riteniamo che gli effetti economici a cui entrambe danno vita siano estremamente diversi; come diverse sono le soluzioni normative che queste richiedono. La distinzione è inoltre importante perché rende esplicita la complessità strutturale dei legami che intercorrono fra agenti economici e agenzie di protezione privata nei mercati protetti; nonché gli effetti perversi che questi hanno sul sistema economico generale in termini di mancato sviluppo. Un rapporto di protezione può definirsi tale se la garanzia assicurata è relativa a minacce di natura prettamente endogena. In altre parole, la protezione mafiosa ha una sua validità solo se aiuta gli operatori economici a difendersi da rischi ambientali non imputabili agli stessi gruppi mafiosi. Nel caso di azioni protettive che hanno come oggetto la difesa di proprietà, la violenza deve essere una caratteristica propria del sistema, dovuta cioè alla presenza di una criminalità comune non mafiosa. Qualora la minaccia fosse data dalle azioni volontarie dei gruppi mafiosi, si avrebbe invece una relazione estorsiva. La distinzione proposta è importante per chiarire se esistono ragioni valide che spingono gli agenti economici a rivolgersi a strutture di protezione extra-istituzionale. E' chiaro infatti che se l'azione mafiosa ha una valenza puramente estorsiva non esiste convenienza alcuna da parte degli operatori economici ad usufruire di tale servizio. Il pagamento del 'pizzo' rappresenta allora solo un modo per evitare i danni che seguirebbero ad un rifiuto a pagare. Da una prospettiva normativa, gli strumenti da utilizzare in contesti simili sono quelli tradizionali: politiche repressive dirette allo smantellamento delle organizzazioni criminali; politiche di sviluppo dirette alla riduzione delle condizioni sociali che producono alti livelli di criminalità. Dinamiche ben diverse sono prodotte nei casi in cui l'azioni mafiosa non ha una valenza estorsiva (o solo estorsiva) ma soddisfa un bisogno di protezione genuino. In questi casi l'implementazione di politiche dirette a combattere il fenomeno estorsivo sarebbe non solo ineffettiva ma anche controproducente. Lo smantellamento dei gruppi mafiosi che assicurano protezione esporrebbe gli operatori economici agli effetti della turbolenza sociale e renderebbe le transazioni economiche estremamente costose. Le politiche di welfare potrebbero inoltre rappresentare risorse a cui i gruppi mafiosi possono accedere attraverso lo sviluppo di reti collusive appropriate. Molte volte la difficoltà ad intendere la funzione economica della Mafia è dovuta alla tendenza diffusa a considerare le azioni mafiose come puramente estorsive. Si tratta di una convinzione parzialmente errata, che può essere spiegata, come sostiene Gambetta, dai meccanismi di autoselezione delle informazioni. Le azioni eclatanti, quelle che attirano l'attenzione della stampa, dell'opinione pubblica e delle forze di polizia riguardano situazioni di conflitto, casi in cui il rapporto protettivo non funziona o è meramente estorsivo. Il rapporto di protezione difficilmente viene alla ribalta perché non esiste nessuna convenienza a denunciarlo. Per Gambetta esiste nelle regioni meridionali una domanda di protezione diffusa che i gruppi mafiosi si preoccupano di soddisfare9. Le ragioni che spiegano la convenienza economica degli agenti ad instaurare delle relazioni di carattere protettivo con i gruppi mafiosi rimandano al modello che abbiamo presentato nella sezione precedente. In un contesto sociale dove l'interazione è non-cooperativa, dove esistono livelli elevati di criminalità comune e dove i vari titoli di proprietà sono controversi o percepiti come tali, avere la protezione mafiosa rappresenta una scelta ottimale. L'operatore che può contare sulla protezione mafiosa è in grado di ridurre i rischi dovuti sia all'azione della criminalità comune sia a quella dei diretti concorrenti. Che l'intermediazione mafiosa implica costi sociali tali da impedire un sano sviluppo socioeconomico ha scarsa importanza per il singolo operatore. Come nel dilemma del prigioniero 101 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE razionalità collettiva e razionalità individuale risultano divergenti. Da un punto di vista analitico l'opera di intermediazione che Gambetta attribuisce ai gruppi mafiosi può essere disaggregata in tre tipi distinti. La prima forma di protezione è quella contro la violenza fisica sulle cose e sulle persone. Questo tipo di violenza ha, a sua volta, tre cause: (i) (ii) (iii) l'ambiguità e il senso di illegittimità che caratterizza molti diritti di proprietà esistenti l'esistenza di alti tassi di criminalità comune l'incapacità delle autorità statali nell'imporre il rispetto della legge Il secondo tipo di protezione assicurato dalla Mafia è diretto contro l'opportunismo degli agenti economici e combina funzioni di intermediazione con quelli di assicurazione. Data la natura incerta delle relazioni contrattuali e la difficoltà a distinguere tra operatori onesti e disonesti, esiste un incentivo a ricorrere al mafioso per ottenere informazioni affidabili o per avere la mediazione dello stesso. In questo caso è l'azione del mafioso che permette la realizzazione di transazioni che altrimenti non avrebbero luogo. L'intervento del mafioso può inoltre essere richiesto ex-post-factum per recuperare le perdite incorse in una precedente transazione andata a male o per punire un operatore disonesto. Il terzo ed ultimo tipo di protezione riguarda la creazione di reti collusive che restringono il mercato e/o l'accesso alle risorse pubbliche. In alcuni ambiti la protezione mafiosa assicura il mantenimento di oligopoli competitivi attraverso la prevenzione di ogni forma di competizione tra gli oligopolisti. In questi casi i mafiosi assolvono il compito di enforcers di accordi collusivi. Alternativamente, l'azione mafiosa è utilizzata per creare oligopoli ex novo imponendo barriere all'entrata che prevengono lo sviluppo di mercati competitivi. L'azione mafiosa si è rivelata particolarmente effettiva nel controllare l'accesso agli appalti pubblici. Qui i gruppi mafiosi sono riusciti ad assicurarsi il controllo delle aste e hanno quindi impedito l’emergere di una genuina concorrenza fra imprenditori indipendenti e imprenditori collusi. Occorre comunque precisare che l'intermediazione mafiosa non risulta sempre conveniente. Secondo Gambetta l'accordo protettivo è conveniente solo nei casi in cui esiste un equilibrio stabile fra i vari gruppi mafiosi, o quando queste organizzazioni prestano attenzione ai profitti di lungo periodo rispetto a quelli realizzabili a breve. Nel caso contrario il contratto assume un carattere esclusivamente predatorio e la protezione si trasforma in semplice estorsione. Quando l'azione mafiosa riesce ad imporre un controllo oligopolistico sui mercati e sugli appalti, i guadagni ottenuti dalle imprese coinvolte sono più che compensati dai costi sociali generali supportati dai cittadini. La protezione mafiosa risulta quindi altamente subottimale anche quando non è estorsiva nei confronti delle imprese. Le diseconomie prodotte dall'intermediazione mafiosa sono così riassumibili. Primo, il contratto di protezione determina una relazione di mutuo benessere fra organizzazioni mafiose ed imprese economiche i cui costi sono scaricati su tutti gli agenti non protetti, o la cui protezione non è efficiente, presenti sul mercato. Secondo, i costi individuali in cui incorrono coloro che non sono protetti rafforzano la razionalità del sottoscrivere un contratto di protezione e forza gli operatori indipendenti a stabilire relazioni con i vari gruppi presenti sul territorio. Terzo, il meccanismo protettivo una volta inseritosi nel mercato crea le ragioni del proprio rafforzamento e diventa così self-enforcing. Quarto, le politiche repressive che riescono ad eliminare le 'cosche' operanti sul territorio eliminano anche le tenue forme di protezione esistenti e riportano l'interazione sociale entro un nuovo dilemma del prigioniero. La protezione come bene indivisibile: un'eccezione La protezione, essendo un bene economico ha, alla stregua di tutti gli altri, un suo mercato, la cui caratteristica è quella di avere una natura monopolistica. La presenza di più agenzie protettive per uno stesso territorio determina infatti alti livelli di conflittualità la cui soluzione è, necessariamente, o una guerra con un solo vincitore, o una fusione fra le diverse agenzie, o un accordo sulle zone di influenza. In questo mercato il capitale aziendale è dato dalla reputazione 102 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE dell'agenzia: è tale reputazione che assicura l'osservanza degli accordi collusivi attraverso un limitato ricorso alla violenza. Il ruolo giocato dalla reputazione giustifica però forti obiezioni circa la possibilità di distinguere tra protezione ed estorsione. Nei mercati fortemente protetti, o in contesti sociali ad alta densità mafiosa, un atteggiamento di rifiuto a comprare protezione potrebbe avere ricadute sulla reputazione dell'agenzia di protezione; potrebbe essere letto come un atto di indipendenza o di spavalderia e ridurre, per questa via, la credibilità del mafioso. Sorge così un'esigenza di controllo totale del territorio; esigenza che rende vuota la distinzione avanzata. Gambetta risponde all'obiezione in un duplice modo: facendo riferimento ad alcuni dati empirici; sollevando un'accezione all'idea che la protezione mafiosa abbia sempre una natura posizionale. La letteratura giornalistica e giuridica sorta negli ultimi anni permette di notare come le ritorsioni del racket verso i clienti riluttanti solo in pochi casi assumono forme violente quali l'omicidio. "Contrariamente a quanto si crede", scrive Gambetta, "il rifiuto di comprare protezione in quanto tale non va incontro il più delle volte a una risposta violenta. [...] i mafiosi non uccidono i clienti recalcitranti; al peggio li infastidiscono, e causano danni alle loro proprietà. Gli imprenditori che vengono assassinati sono quelli che hanno violato patti presi con i mafiosi in precedenza o che hanno denunciato i mafiosi alle autorità" (1992: 64)10. Si ricorre all'omicidio solo in casi di denuncia alle forze dell'ordine, come è avvenuto per Libero Grassi, l'imprenditore tessile palermitano ucciso nell'agosto del 1991. Per il resto le ritorsioni riguardano le proprietà e hanno delle motivazioni particolari: hanno cioè a che fare con l'applicazione degli accordi collusivi che limitano le entrate e la concorrenza nei mercati. Il secondo tipo di ragione che spiega il ricorso alla violenza per imporre forzosamente il 'pizzo' riguarda ambiti in cui la protezione perde la sua caratteristica di bene posizionale e assume la forma di bene indivisibile. Risulta abbastanza frequente riscontrare situazioni in cui il contratto di protezione sottoscritto da alcuni operatori finisce per agevolare tutti gli imprenditori che operano su quel dato territorio. In questi casi la richiesta estorsiva può essere vista come l'imposizione di forme di tassazione generalizzata per un servizio di cui tutti usufruiscono, ma che solo alcuni pagano. La ritorsione verso coloro che si rifiutano di pagare rappresenta quindi una risposta violenta verso i comportamenti opportunistici di alcuni agenti, il cui fine è la divisione equa dei costi di protezione. Concludiamo con una breve osservazione. Come abbiamo detto sopra, spesso relazioni di protezione si trasformano in estorsione, ma può anche darsi il caso che relazioni estorsive divengano protettive. Il passaggio può essere imposto dal sopraggiungere di eventi o minacce nuove ed improvvise, come ad esempio il formarsi di una nuova banda criminale o lo sconfinamento di un'altra. In queste situazioni la protezione fittizia del rapporto estorsivo ha buone probabilità di divenire effettiva. Come osserva Gambetta, non sempre l'imposizione è indice di inutilità11. AUTOREGOLAZIONE E SVILUPPO DI RETI COOPERATIVE MORALIZZATE Secondo l'ipotesi suggerita da Gambetta, la Mafia non genera il problema della subottimalità evidenziato dal dilemma del prigioniero ma è da questo stesso generata. In quanto agenzia di protezione privata, la Mafia rappresenta una convenzione sociale emersa spontaneamente al fine di risolvere problemi di azione collettiva strutturali. Solo che come soluzione si è dimostra parziale, inefficiente e fonte di ulteriori costi sociali, in termini di mancato sviluppo economico e alti tassi di criminalità. La 'soluzione mafiosa' assicura quindi nicchie cooperative a discapito di forme più ampie ed estese. Se questa ipotesi è valida la soluzione del problema richiede politiche che spezzino le reti collusive e favoriscano lo sviluppo di reti cooperative alternative dove il ruolo della Mafia è irrilevante. Si tratta cioè di sviluppare convenzioni sociali che risolvano in modo efficiente e moralmente accettabile il problema delle diseconomie ambientali che si oppongono allo sviluppo. Risulta evidente infatti che in ambiti dove l'azione mafiosa non ha un mero carattere predatorio, ma da anzi vita a relazioni mutuamente vantaggiose, esiste una 103 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE vera e propria impasse giudiziaria. Il problema che si pone è, allora, quello di definire strategie normative non giudiziarie che possono risultare efficaci ed efficienti in contesti dove prevalgono le logiche protettive. Da una prospettiva etica l'emergere di comportamenti opportunistici su larga scala non rappresenta né un dato naturale, né l'espressione di una predisposizione genetica all'acquisizione. Al contrario, i comportamenti opportunistici sono visti come l'espressione di un malessere di fondo per il modo in cui le istituzioni fondamentali della società distribuiscono beni e risorse, diritti e doveri. L'economia neo-istituzionale ha implicitamente riconosciuto la validità di questo argomento etico nella trattazione delle due forme di opportunismo responsabili per l'evoluzione della moderna impresa economica: selezione avversa e azzardo morale. In entrambi i casi viene infatti sottolineato come sia il cattivo disegno degli incentivi a favorire lo sfruttamento esasperato delle asimmetrie informative. Le imprese il cui ethos aziendale premia la competizione darwinista finiranno per attirare solo persone disposte ad operare senza scrupoli. Similmente, le imprese che si basano su schemi di incentivi puramente monetari finiranno per promuovere comportamenti egoistici diretti alla massimizzazione dei benefici attesi. A differenza della teoria neo-istituzionale, l'approccio etico ritiene che l'opportunismo vada combattuto non per mezzo di interventi ingegneristici, ma attraverso lo sviluppo di strategie culturali dirette allo sviluppo di forme di voice e di lealtà diffuse. Considerazioni simili possono essere sviluppate quando passiamo dal livello microeconomico a quello macroeconomico. La soluzione del deficit fiduciario che affligge le regioni meridionali e che è alla base del sottosviluppo e della criminalità mafiosa richiede la riformulazione del contratto sociale fra i soggetti che partecipano alle varie istituzioni intermedie e fra lo stato e le istituzioni intermedie stesse. Tale riformulazione implica lo sviluppo di un movimento etico che coinvolga i vari attori che compongono la società civile attraverso un diffusa implementazione di strumenti di autoregolazione. In questo quadro i codici etici rappresentano contratti sociali parziali che redigono la mappa completa dei diritti e doveri spettanti ai vari stakeholders. La definizione dei principi sottostanti i vari contratti sociali parziali ha, a sua volta, una duplice funzione: quella di rompere con il sistema di ingiustizie e discriminazioni sociali alla base del deficit fiduciario e quella di indicare il corso d'azione saliente per tutti coloro che sono intenzionati a rompere con le reti collusive mafiose. Un movimento etico di questo tipo potrebbe, dal nostro punto di vista, mettere in moto dinamiche che porterebbero all'emergere di 'convenzioni sociali' dalla forte valenza morale. Soluzioni che sottostimano la forza motivazionale che principi di giustizia condivisi possono avere per lo sviluppo di una sana cooperazione sociale sono parziali e destinate al fallimento. Nei paragrafi che seguono cercheremo di chiarire come l'approccio etico appena delineato possa favorire la nascita di un movimento etico antimafia. Prima di tutto verranno chiariti gli effetti benefici che l'autoregolazione etica è in grado di procurare nello specifico contesto meridionale. Successivamente viene esplicitato come sia possibile implementare uno schema di principled governance simile senza incorrere in costi di governo eccessivi. Infine viene discussa la stabilità evolutiva che tale movimento può acquisire nel competere con strutture collusivocriminali disposte a ricorrere alla violenza. L'autoregolazione nel contesto strategico meridionale Vediamo di analizzare quali effetti possono avere i codici etici nel particolare contesto meridionale. Abbiamo visto che il contratto di protezione offerto dai mafiosi si caratterizza come un marchio di qualità che rafforza la posizione di mercato delle imprese che lo sottoscrivono. Nel caso dei commercianti gli effetti dell'intermediazione mafiosa sono, per esempio, non solo di garanzia dalla criminalità diffusa, ma permettono la salvaguardia/aumento della clientela. Questo si ottiene in diversi modi: attraverso la garanzia della sicurezza (nessuno a paura di essere coinvolto in furti o attentati all'interno del negozio); per mezzo delle relazioni particolari che i mafiosi mettono a disposizione dei propri protetti (fornitori che praticano prezzi più bassi, o forme di pagamento dilazionate, maggiori possibilità di accedere al credito bancario 104 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE e non, garanzia da comportamenti opportunistici, da ricontrattazioni successive, etc.); regolando l'entrata di nuovi concorrenti nel mercato. Si tratta di agevolazioni che rappresentano delle economie positive importanti da un punto di vista competitivo e che sono in grado di determinare il successo o il fallimento delle imprese. Una strategia di principled governance che sia evolutivamente stabile deve quindi essere in grado di offrire incentivi che siano grosso modo equivalenti a quelli ottenibili attraverso la sottoscrizione del contratto protettivo. Solo in questo modo può una coalizione antimafiosa attrarre un numero significativo di soggetti economici e competere con quella mafiosa. Come l'autoregolazione etica può contribuire allo sviluppo di reti fiduciarie alternative a quelle protezionistiche offerte dalla Mafia? Dare vita ad una rete fiduciaria significa assumere degli impegni pubblici che limitano l'azione discrezionale degli agenti in tutti i casi in cui si può ricavare un vantaggio economico dalla violazione degli accordi stabiliti. L'effettività di un sistema di vincoli simili dipende dell'essere una strategia condizionale la quale richiede di cooperazione solo con quanti assumono un impegno simile. Una struttura a rete richiede quindi due cose: la sottoscrizione di codici etici che vincolano gli agenti e l'istituzione di comitati etici che monitorano l'osservanza degli accordi sottoscritti. Un corretto funzionamento della rete dovrebbe permettere una riduzione dei costi di transazione a causa di un ridotto opportunismo che l'osservanza dei codici comporta. Il monitoraggio e la sanzione delle violazioni dovrebbe inoltre garantire una selezione degli agenti economici che porta all'esclusione dei free-riders dalla rete stessa. Una volta che la rete è resa operativa meccanismi reputazionali dovrebbero poi essere in grado di attirare nuovi soggetti economici verso le reti rafforzandole ulteriormente. Posti di fronte al scelta tra una rete cooperativa etica che riconosce e assicura il rispetto di principi universali e una rete collusiva dove è lasciato ai gruppi mafiosi decidere di volta in volta chi ha un titolo legittimo che va protetto, è plausibile assumere che un numero crescente di operatori economici troverebbe conveniente scegliere la prima sulla seconda. L'argomento può essere formalizzato nel seguente modo. Abbiamo due coalizioni, una di carattere mafioso M che attraverso contratti protettivi assicura determinati benefici economici, un'altra antimafiosa A che intende assicurarsi dei benefici, quantomeno uguali alla prima, senza stabilire relazioni collusive. Occorre allora dimostrare che entrare nella coalizione A sia più conveniente che entrare in M. A rispetto ad M si affida ai codici e non all'uso della violenza, riconosce validità universale ai diritti di proprietà legittimi indipendentemente dalla disponibilità a pagare dei titolari, ha uno schema istituzionale di riferimento (sistema delle imprese, associazioni professioni, stato) più stabile di quello di M dove l'equilibrio fra le varie agenzie di protezione è pur sempre un equilibrio turbolento. La conclusione è che esiste una convenienza ex ante ad entrare nella coalizione antimafia in quanto la garanzia assicurata dai codici etici è potenzialmente più sicura di quella garantita dai contratti di protezione mafiosi. Il problema consiste allora nel dimostrare che esiste anche una razionalità ex post a mantenere la coalizione A, cioè ad osservare gli accordi sottoscritti volontariamente. Una risposta positiva richiede che i guadagni della coalizione A siano nettamente superiori a quelli della coalizione M. Ciò è possibile solo se: (i) la coalizione è tanto estesa da determinare un alto numero di transazioni cooperative (ii) esistono particolari agevolazioni per coloro che scelgono di entrarvi (cfr. Lorenz, 1989) Nelle fasi iniziali la prima condizione sembra alquanto difficile da soddisfare. Se l'analisi svolta circa gli effetti pervasivi e diffusi dell'intermediazione mafiosa è corretta, all'inizio la coalizione A sarà sicuramente minoritaria rispetto ad M. Il difetto numerico può essere compensato attraverso la manipolazione dei pay-offs fra le due coalizioni. Si dovrebbero predisporre particolari schemi di incentivo che spingano gli operatori verso la coalizione A piuttosto che quella M. Ad esempio si dovrebbe fare in modo che sia le associazioni di categoria sia la pubblica amministrazione stabiliscano criteri preferenziali che, a parità di condizioni, premiano i soggetti economici che sottoscrivono e osservano i principi stabiliti dalla coalizione A. Nel caso delle associazioni di categoria ciò equivale all'imposizione dell'obbligo di sottoscrivere il codice etico come precondizione per l'accettazione presso l'associazione stessa. Nel caso della 105 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE pubblica amministrazione si dovrebbe stabilire che l'assegnazione degli appalti di fornitura e i vari sussidi economici a cui si può accedere dipendono dall'accettazione e osservanza di codici etici adeguati. In questo modo risulterebbe rafforzata anche la convenienza a rimanere nella coalizione A, e quindi la stabilità della rete ex post. Vediamo di chiarire come è possibile coinvolgere la pubblica amministrazione e le associazioni di categoria. Entrambe queste istituzioni operano per mezzo di prerogative delegate loro dal potere sovrano dello stato. Nel caso delle associazioni di categoria, l'iscrizione alle varie camere di commercio e albi professionali rappresenta una condizione indispensabile per potere operare nel mercato e per accedere alle agevolazioni che lo stato riconosce a favore dei vari soggetti economici. In un sistema democratico l'esercizio di poteri delegati simili richiede una precisa esplicitazione delle ragioni che giustificano le restrizioni che queste organizzazioni impongono ai soggetti economici e i benefici sociali che tali istituzioni procurano ai cittadini in generale. Questo equivale a definire le responsabilità sociali che le associazioni di categoria hanno quale contropartita per l'esercizio dei poteri loro delegati. A ciò va inoltre associato un sistema di monitoraggio che verifichi l'effettivo svolgimento delle funzioni sociali attribuite loro e limiti l'abuso di potere da parte di queste organizzazioni. Nel contesto meridionale le associazioni di categoria hanno fallito in modo sistematico nel compito di proteggere le imprese e gli operatori onesti dalla competizione dei collusi. Spesso anzi il loro operato ha portato all'aumento dei costi burocratici che le imprese non protette hanno dovuto affrontare. Lo sviluppo di forme adeguate di autoregolazione etica avrebbe quindi una triplice funzione: (i) (ii) (iii) ristabilire le responsabilità sociali associate all'esercizio del potere delegato; proteggere gli operatori economici onesti dall'abuso di potere di queste organizzazioni; stabilire forme di controllo effettive che penalizzino gli operatori collusi. L'effettività di una principled governance da parte delle imprese e delle associazioni di categoria dipende in larga misura dal modo di operare della pubblica amministrazione e degli organi di governo. Ovviamente se le istituzioni dello stato non migliorano l'efficienza dei servizi pubblici risulta estremamente difficile ridurre le diseconomie ambientali che sono all'origine della domanda di protezione mafiosa. Allo stesso modo, se le istituzioni pubbliche non si autovincolano attraverso la sottoscrizione di codici etici, non solo risulta difficile smantellare i networks mafiosi, ma si finisce per favorire le relazioni collusive tra politici, burocrati e mafiosi. Nel capitolo precedente abbiamo visto come strumenti di autoregolazione possono modificare i comportamenti della pubblica amministrazione e ridurre le inefficienze dell'azione burocratica. Primo: attraverso l'istituzionalizzazione di forme di voice adeguate è possibile ridurre sia l'asimmetria informativa a favore dei burocrati sia gli abusi di potere a danno dell'utenza. Secondo: il riconoscimento dello spazio discrezionale lasciato agli ufficiali pubblici e la definizione dei principi che devono ispirare l'esercizio di tale discrezionalità possono aprire la pubblica amministrazione allo scrutinio dei cittadini e prevenire forme estese di corruzione. L'azione congiunta di queste prescrizioni avrebbe due ulteriori implicazioni: quello di rendere evidenti le aree che richiedono interventi strutturali di carattere legislativo dirette ad eliminare la farraginosità delle procedure burocratiche; quello di rendere la pubblica amministrazione meno permeabile alle pressioni concussive di politici, imprese e gruppi criminali. In conclusione la razionalità ex post di una rete può ottenersi attraverso l'implementazione di un meccanismo che possiamo chiamare 'effetto domino della sanzione'. Secondo questo meccanismo le imprese osservano gli impegni etici per evitare di incorrere nelle sanzioni delle associazioni di categoria. A loro volta le associazioni di categoria devono dare corso alle sanzioni se no incorrono nelle sanzioni degli organi pubblici da cui derivano il potere delegato. In questo modo si riduce il rischio di un accordo collusivo fra imprese e associazioni che blocca l'effettività dell'autoregolazione. Ovviamente se si forma una coalizione collusiva fra tutti i soggetti a cui è demandato comminare sanzioni allora l'intera struttura a rete crolla. In un contesto in cui il pubblico ha però voce in capitolo e le informazioni possono circolare pubblicamente la possibilità di una coalizione collusiva di queste dimensioni sembra alquanto remota. Da un punto di vista evolutivo una rete cooperativa simile dovrebbe essere in grado di 106 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE sviluppare sentimenti di giustizia corrispondenti e una selezione dei tratti caratteriali della popolazione che promuovono la fiducia. Autoregolazione e segmentazione dei mercati Gambetta (1992) ritiene che il grosso ostacolo all'emergere di forme di cooperazione allargata nel meridione è dovuto alla strutturale ristrettezza dei mercati meridionali. Nei mercati meridionali il numero dei clienti indipendenti, che cioè possono mettere in atto meccanismi punitivi verso i collusi risulta fortemente ridotto. Questo ha decretato l'insuccesso dei vari movimenti antimafia sorti in passato e continua a ridurre l'impatto degli effetti reputazionali negativi per coloro che sottoscrivono accordi collusivi. Esiste allora un limite allo sviluppo di convenzioni sociali del tipo da noi suggerito, dovuto al fatto che un movimento etico A non riuscirebbe ad attirare la massa critica necessaria per spostare l'equilibrio sociale da M ad A. L'obiezione coglie un elemento importante che spiega il motivo che ha impedito l'evoluzione spontanea di reti cooperative alternative a quelle mafiose. Non risulta pienamente valida se riferita a modelli di principled governance che vogliono sviluppare reti solidaristiche in modo intenzionale. Risponderemo all'obiezione considerando i diversi elementi che determinano la segmentazione dei mercati. La tesi che sosteniamo è che esistano indicazioni che fanno ben sperare circa l'abilità dell'autoregolazione di incidere profondamente sullo sviluppo futuro di almeno uno degli elementi più significativi: quello culturale. Il carattere ristretto dei mercati meridionali dipende da tre fattori: tecnologici, giuridici e culturali. L'estensione di ogni mercato è connessa con le variabili tecnologiche che influenzano la produzione in ogni determinata fase storica. La teoria economica descrive il rapporto come una relazione di dipendenza causale, nel senso che solo innovazioni che modificano le tecniche di produzione e/o di distribuzione possono portare ad una espansione dei mercati (cfr. Nelson, 1995). L'autoregolazione ha effetti trascurabili in questo ambito. Le innovazioni tecniche sono una variabile esogena che non dipende dal modello normativo presentato e che pertanto non riteniamo necessario discutere approfonditamente. Gli unici elementi che vale la pena ricordare sono i processi tecnologici dovuti alla rivoluzione informatica e quelli portati dal processo di unificazione europea. Entrambi concorrono nel rendere meno obbligate le soluzioni produttive da impiegare e meno angusti i mercati su cui operare. Tra i fattori giuridici che influenzano i mercati vanno ricordati quelli relativi al produzione e commercio delle droghe. La legislazione in materia ha creato mercati illegali che assicurano ai gruppi mafiosi fonti di reddito enormi. Redditi che possono poi essere reinvestiti per lubrificare i circuiti collusivi col mondo delle imprese e della politica. Ridurre gli effetti negativi prodotti da questi mercati implica la revisione delle politiche responsabili per la creazione degli stessi; vanno quindi anche questi aldilà dell'ambito d'azione dell'autoregolazione etica. Diverso è il caso dei fattori culturali. In quest'ambito una migliore comprensione dei problemi che hanno afflitto i movimenti antimafia passati è di estrema importanza per individuare strategie atte a promuovere incrementi paretiani. Che cosa spiega il fallimento dei movimenti antimafia sorti in passato? Una possibile spiegazione riguarda la natura frammentaria di questi movimenti e i problemi di azione collettiva con cui i vari gruppi si sono a loro volta confrontati. La varietà e diversità dei gruppi che hanno storicamente dato vita a movimenti antimafia è naturalmente un segno di vitalità sociale che refuta lo stereotipo dell'inerente passività dei meridionali. Sfortunatamente questo è anche un indice della litigiosità e del settarismo che ha caratterizzato tali movimenti. Una ragione che spiega la frammentarietà del movimento antimafia è, in parte, connessa con il fatto che i vari gruppi sono spesso sorti come il prodotto dell'azione di leaders più o meno carismatici. Conseguentemente, le attività dei vari gruppi sono risultate troppo personalizzate per riscuotere i favori di un pubblico ampio, o si sono risolti in manifestazioni tanto atomistiche quanto impressionistiche. La natura personalistica dei vari gruppi ha poi reso i leaders obiettivo privilegiato della ritorsione mafiosa. Da qui l'esigenza di provvedere alla loro sicurezza attraverso un rafforzamento della coesione interna, forme di permanente vigilanza, un coltivato isolazionismo e un profondo scetticismo 107 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE riguardo alle genuine motivazioni degli altri gruppi. Strategie simili hanno però finito per rafforzare i problemi di azione collettiva che affliggono i movimenti e ridotto l'abilità delle coalizioni antimafia di promuovere forme allargate di cooperazione. Un'altra ragione che spiega la debolezza dei movimenti antimafia è eminentemente politica. In un contesto sociale dove esistono profonde ineguaglianze economiche e un diffuso senso di ingiustizia, l'azione collettiva richiede l'individuazione di criteri di giustizia che, nelle parole di Tim Scanlon, nessuno potrebbe ragionevolmente rifiutare come base per un accordo equo e duraturo (1982). L'azione politica tradizionale è stata non solo incapace nell’individuare principi simili, ma ha finito per accentuare i conflitti fra le diversi componenti della società civile stessa. I regimi post-unitari sono intervenuti nel mezzogiorno con un misto di politiche repressive indiscriminate e accordi collusivi con élite locali che hanno minato la legittimità del governo centrale. Al deficit di sostegno diffuso si è quindi cercato di supplire con meccanismi di scambio politico diretti ad aumentare il sostegno specifico (cfr. Mastropaolo, 1998). Questo ha però portato allo sviluppo di logiche clientelari che hanno distorto la competizione politica, aumentato i costi di governo e reso intermediazione mafiosa ancora più effettiva. Una rappresentazione del tipo di interazione che si ha in ambiti dove esiste una pluralità di gruppi che perseguono strategie antimafia alternative è data nella matrice riportata in figura 6.1. Giocatore X M A1 A2 A3 C D M 3;3 5;2 5;2 5;2 5;2 5;3 Giocatore Y A1 A2 A3 2;5 2;5 2;5 1;1 4;4 4;4 4;4 1;1 4;4 4;4 4;4 1;1 5;1 5;1 5;1 4;4 4;4 4;4 C 2;5 2;5 2;5 2;5 1;1 1;5 D 3;5 4;4 4;4 4;4 5;1 4;4 Figura 6.1: Interazione in ambiti dove il movimento antimafia è frammentato Nella matrice M sono le strategie che implicano la protezione mafiosa, C e D si riferiscono a strategie di cooperazione e defezione libera, mentre le strategie A1, A2 e A3 sono quelle connesse con strategie cooperative condizionali connesse con l'appartenenza ai diversi gruppi antimafia. I numeri si riferiscono come al solito all'ordine delle preferenze individuali, dove 1 indica la scelta preferita al di sopra di tutte le altre e 5 quella meno preferita. I giocatori protetti dalla Mafia non sono mai in grado di realizzare la scelta 1 perché incorrono nel costo necessario per avere la protezione. Assumiamo inoltre che nel caso in cui interagiscono con altri agenti protetti o con opportunisti incalliti i benefici che ricavano sono ulteriormente ridotti: nel primo caso perché i mafiosi evitano di farsi sgarbi fra di loro; nel secondo caso perché gli opportunisti possono intervenire sul mafioso attraverso pagamenti diretti. Assumiamo infine che coloro i quali aderiscono ai gruppi antimafia cooperano solo con i membri dello stesso gruppo ma defezionano con tutti gli altri. L'unica eccezione riguarda le interazioni con i protetti da cui accettano di farsi sfruttare per non incorrere nella ritorsione dei mafiosi. In un contesto strategico del genere la strategia M risulta decisamente superiore a quella A. Dato che esistono diverse strategie condizionali, gli agenti si trovano a confrontarsi con il rischi connessi alla mancata coordinazione. A questi si aggiungono poi i costi di assicurazione impliciti nel passare da una strategia di maximin ad una cooperativa. Le conclusioni a cui porta l'analisi costi-benefici sono così quelle di rafforzare la convenienza a sottoscrivere contratti di protezione e di rendere estremamente penalizzante la scelta cooperativa C12. Vediamo ora in che modo l'implementazione di una struttura a rete basata sui codici etici cambia le relazione strategiche tra le parti. La sottoscrizione di codici etici implica 108 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE l'accettazione di principi morali che vincolano il soggetto a non comportarsi opportunisticamente. Come ci siamo sforzati di chiarire nei capitoli precedenti, i codici devono fare riferimento al contratto sociale generale; devono cioè richiamarsi a principi di giustizia sociale sui quali esiste un accordo generale e definire un quadro normativo unitario e coerente. Le organizzazioni che prendono parte alla rete si devono inoltre impegnare a garantire forme di monitoraggio e accettare i giudizi espressi dai comitati etici indipendenti. Ciò comporta due cose: (i) la creazione di una rete cooperativa antimafiosa singola dove esiste (ii) un uso pubblico delle informazioni. La matrice che descrive l'interazione sociale in ambiti simili è riportata in figura 6.2. Giocatore X M A C D M 3;3 5;2 5;2 5;3 Giocatore Y C A 2;5 2;5 2;5 1;1 5;1 1;1 4;4 1;5 D 3;5 4;4 5;1 4;4 Figura 6.2: Interazione in ambiti dove il movimento antimafia è unitario Rispetto alla situazione precedente qui esiste una sola strategia antimafia A sulla quale convergere. Questo significa rendere la coalizione antimafiosa saliente (graficamente data dal grassetto) per quanti intendono rompere con le logiche collusive ed evitare i problemi di coordinazione che emergono in contesti dove esiste frammentazione. In termini evolutivi possiamo pensare alla strategia A come caratterizzata da un bacino d'attrazione più ampio rispetto a quello di M e quindi in grado crescere a scapito di quest'ultima. L'obbligo a sottoscrivere i codici e un'effettiva imposizione degli stessi sono condizioni indispensabili per prevenire l'invasione di strategie opportunistiche mutanti. Sarebbe a dire, quelle strategie opportunistichee che mimano i modi d'agire cooperativi antimafiosi. L'esistenza di una coalizione antimafiosa avente le caratteristiche descritte sopra non avrebbe solo la funzione di connettere le organizzazioni produttive. La coalizione ha infatti una salienza sociale che può risultare attraente pure per coloro che operano su mercati meno affetti dai rischi di sfruttamento opportunistico ma che tendono a rispondere positivamente alle tematiche etiche e per i consumatori etici. La somma di questi benefici dovrebbe garantire alla coalizione A un avvantaggio competitivo superiore a quella M. La competizione tra le due colazioni dovrebbe quindi essere in grado di sviluppare dinamiche evolutive capaci di restringere le strategie M ai mercati illegali e alle transazioni collusive a cavallo tra legale e illegale. Per ridurre il ruolo dell'intermediazione mafiosa anche in queste aree sono necessarie, come detto, interventi legislativi esogeni rispetto alla autoregolazione etica. Coalizione antimafiosa e reazione mafiosa violenta Esiste un'ultima obiezione a cui necessita dare una risposta prima di concludere. L'obiezione riguarda la reazione dei gruppi mafiosi verso le strutture di aggregazione promosse dalla coalizione A. Sarebbe del tutto plausibile assistere ad una risposta militare dei gruppi mafiosi contro coloro che rompono con le logiche collusive con costi elevatissimi per gli agenti colpiti dalla ritorsione. Ciò determinerebbe uno svantaggio concorrenziale della coalizione A nei confronti di M difficilmente eliminabile attraverso l'uso degli incentivi richiamati sopra. Rispondere a questa obiezione non è semplice. Certamente la nascita di un movimento etico che tende a minare il dominio e l'egemonia dei gruppi criminali susciterebbe ritorsioni gravi. I mafiosi cercherebbero di difendere la propria reputazione e il proprio dominio sul territorio utilizzando la forza e l'intimidazione. Resta comunque da vedere che effetto avrebbe questo comportamento all'interno delle relazioni estorsivo-protettive descritte sopra. 109 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE Come abbiamo detto prima, la forza delle diverse agenzie di protezione privata è assicurata dal tacito accordo degli agenti economici, i quali trovano conveniente (rispetto alla diverse alternative possibili nel contesto) l'accordo di protezione. In questi ambiti le azioni violente si manifestano solo per situazioni particolari: rifiuto di pagare una protezione di cui godono i benefici; violazioni di accordi collusivi; denunce alle forze dell'ordine. Quando questo non avviene si risponde al rifiuto di protezione senza un ricorso ad azioni violente: si lascia cioè l'imprenditore in balia dell'ambiente e lo si espone agli effetti della mancata protezione. La violenza endogena e la sfiducia pubblica vengono così utilizzate per rafforzare la convenienza a sottoscrizione il contratto protettivo. Nel caso in cui la convenienza a partecipare alla coalizione M abbia però solo 'ragioni militari' (perché esiste una rete cooperativa antimafiosa efficiente nel ridurre l'incertezza ambientale) è lecito supporre che l'imposizione violenta degli accordi mafiosi comporti uno slittamento progressivo delle relazioni protettive verso relazioni di carattere estorsivo del tipo di quelle riscontrate per esempio a Capo d'Orlando (cfr. Palumbo, 1993). Il che avrebbe come probabile esito il moltiplicarsi dei tentativi di defezione dalla coalizione M, anche e soprattutto attraverso l'azione di denuncia. Dare vita ad una rete fiduciaria moralmente vincolante e antimafiosa ha degli effetti che possono essere così riassunti. Primo: l'esistenza di una coalizione antimafiosa fa sì che l'accordo protettivo non rappresenti più il solo 'marchio' di garanzia operante nel mercato. Secondo: questo determina lo sviluppo di meccanismi concorrenziali fra i due 'marchi' di cui uno ha caratteristiche morali nettamente superiori. Terzo: la reazione violenta contro entrata del nuovo 'marchio' nel mercato, trasforma il rapporto di protezione (volontario) in rapporto di estorsione, con effetti di lungo periodo deleteri (aumento delle denunce di estorsione alle forze dell'ordine). Quarto: l'azione di repressione delle forze dell'ordine ne risulta rafforzata e moltiplica le difficoltà dei gruppi mafiosi nel controllare le attività economiche presenti sul territorio. Quinto: a queste difficoltà si aggiungono le possibili tensioni all'interno degli equilibri mafiosi e l'accentuazione delle azioni di spoliazione dei clienti che rendono i contratti di protezione sempre meno appetibili. Il risultato finale dovrebbe essere il ridimensionamento (se non l'esclusione) dei mafiosi sui mercati legali e un ripiegamento su quelli illegali, dove, evidentemente, i meccanismi autoregolativi descritti hanno scarso effetto. CONCLUSIONI Nel presente capitolo ci siamo preoccupati di analizzare alcune ragioni che rendono peculiare l'azione e la funzione della criminalità mafiosa. Un'ipotesi interessante che abbiamo cercato di seguire vede la Mafia come insieme di agenzie di protezione privata la cui funzione è quella di soddisfare le esigenze di sicurezza in contesti dove la fiducia è un bene scarso e l'azione pubblica largamente inefficiente. In quest'ottica il ricorso all'intermediazione mafiosa assume la forma di una convenzione sociale in grado di risolvere dilemmi cooperativi pervasivi e generalizzati. Si tratta comunque di una soluzione inefficiente sia dal punto di vista economico sia sociale. L'azione protettiva tende, infatti, ad assumere la caratteristica di bene posizionale che contribuisce ad aumentare la sfiducia e i costi di transazione esistenti sui mercati. L'impasse cooperativa è inoltre risolta solo all'interno di reti collusive che annullano i meccanismi concorrenziali. Si sviluppa così una cooperazione perversa che premia le transazioni cattive in luogo di altre moralmente preferibili. Gli effetti più evidenti sono l'impossibilità di un sano sviluppo economico-sociale, alti tassi di criminalità, distorsione nella valorizzazione dei talenti. A poco servono, in questo contesto, le soluzioni giudiziarie ed economiche tradizionali. Essendo l'azione mafiosa una soluzione di equilibrio ai problemi di azione collettiva che affliggono la società meridionale, la repressione giudiziaria finisce col distruggere le uniche reti protettive esistenti e ricrea le condizioni per la loro ricomparsa. Essendo fortemente sviluppate, le reti collusive sono inoltre in grado di distorcere i meccanismi di allocazione autoritativa delle risorse in modi a loro favorevoli. I modelli analitici utilizzati hanno inoltre evidenziato come la stabilità e l'efficienza delle reti collusive rende estremamente difficoltoso lo sviluppo di un 110 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE senso generale di rivolta. Malgrado questo rappresenti il desiderio di ampi settori della società civile, la rivolta richiede infatti comportamenti supererogatori. L'idea che abbiamo cercato di argomentare è che occorre sviluppare politiche di intervento che, in aggiunta all'azione repressiva dello stato, riducano le diseconomie ambientali responsabili per la domanda di protezione extra-istituzionale. Il confronto analitico fra le soluzioni suggerite dalla teoria neoistituzionale e quelle dell'autoregolazione etica ha messo in evidenza le potenzialità di queste ultime quali veicoli per lo sviluppo una rete cooperativa antimafiosa. Si è cercato infine di chiarire come una strategia di intervento decentrata basata sulla sottoscrizione e osservanza di codici etici implichi costi di governo ridotti rispetto alle politiche pubbliche tradizionali. I codici sono stati intesi in una particolare accezione contrattualista, e cioè come esplicitazione di contratti sociali parziali ipotetici fra stakeholders che partecipano alle istituzioni intermedie della società civile e dello stato. L'effettività dei codici è stata indagata attraverso l'analisi della stabilità evolutiva che una struttura a rete basata sull'autoregolazione etica potrebbe avere. In merito ai problemi di efficienza sociale e di stabilità evolutiva, l'opzione rilevante che abbiamo cercato di giustificare rimane la necessità di attribuire una natura contrattualista ai codici, i quali devono incorporare criteri di giustizia sociale capaci di ottenere il sostegno di tutti coloro che sono interessati al progetto cooperativo etico. Solo in questo modo potrebbe l'accordo rappresentare un vincolo efficace contro le tentazioni collusive garantite dai circuiti mafiosi. Note 1 In Economia e società Weber afferma: "Quest'ultimo tipo [prestazioni estorte] è rappresentato dalla Camorra nell'Italia meridionale e dalla Mafia in Sicilia [...] Queste prestazioni sono intermittenti soltanto all'inizio, in quanto formalmente 'illegali'; ma in pratica assumono spesso il carattere di 'versamento periodico' in cambio di determinate prestazioni, e specialmente di una garanzia di sicurezza. Ecco l'osservazione di un fabbricante napoletano, fattami circa vent'anni fa: 'Signore, la Camorra mi prende x lire al mese, ma garantisce la sicurezza - lo stato me ne prende dieci volte tanto, e garantisce niente' (tr. it. 1986: 195)". La citazione weberiana è simile a quanto riportato da Gambetta in (1989) a proposito del 'bidone equino'. 2 Un'eccezione di rilievo è la sentenza del giudice Luigi Russo del tribunale di Catania. Vedi Russo (1991) e le considerazioni critiche di Fiandaca (1991) alla sentenza. 3 Tra le opere storiche vale la pena ricordare Lupo (1996), Pezzino (1987), Renda (1997) e Spampinato (1987). Per quanto riguarda le letture economiche contrapposte del fenomeno vedi Catanzaro (1991), Centorrino (1994), Gambetta (1992) e Santino e La Fiura (1990). Classici dell'analisi socio-antropologica sono Banfield (1958), Blok (1974), Hess (1970) e Schneider(s ) (1976). A queste andrebbe aggiunto il saggio di Franchetti (1876) le cui osservazioni continuano ad essere di particolare interesse. 4 Secondo una definizione tecnica la fiducia rappresenta una particolare distribuzione probabilistica bayesiana compresa fra 0,5 e 1. Le distribuzioni che sono comprese fra 0 e 0,5 rappresentano, all'opposto la sfiducia. Per una discussione generale sul concetto di fiducia vedi Lane e Bachman (1998), Mutti (1987), Roniger (1988) e Sacconi (1990). 5 Per coloro interessati alla letteratura sull'argomento segnaliamo Trigilia (1988) e Del Monte e Giannola (1992). 6 Akerlof (1970) e Schelling (1978) per l'analisi teorica dei problemi che ciò crea per il mercato. 7 Gambetta (1992) suggerisce una lettura del processo emergenziale che ha portato allo sviluppo dei gruppi mafiosi simile a quello proposto da Nozick (1974). Riteniamo comunque che un modello più congruente sia quello elaborato da Hayek (1982, I). In Nozick l'ambiente sociale all'interno del quale prendono forma le agenzie private di protezione è moralizzato in senso lockiano. Ed è proprio questo carattere che spiega i limiti strutturali all'espansione delle agenzie sul territorio. In Hayek non esiste questa caratterizzazione morale e la spiegazione fa solo riferimento ai problemi di coordinazione esistenti in contesti dove l'interazione è decentrata. Per un'analisi più approfondita del modello hayekiano e delle difficoltà che questo incontra nel dare conto del fenomeno mafioso vedi Palumbo (2000, cap. 5). 111 MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE 8 I mercati illegali rappresentano infatti contesti economici dove l'interazione è giocoforza noncooperativa e richiede delle forme di enforcement extra-statale. In questo capitolo non trattiamo comunque le problematiche sollevate dall'esistenza di mercati illegali e restringiamo la nostra attenzione all'intermediazione mafiosa nei mercati legali. Per una disamina delle interazioni che occorrono nei mercati illegali rimandiamo ai saggi contenuti nel volume curato da Zamagni (1993). 9 L'ipotesi di Gambetta è stata oggetto di numerose obiezioni. Catanzaro (1994) e Santino (1994) ritengono che la protezione mafiosa sia solo fittizia e che la tesi di Gambetta manca di supporto empirico adeguato. Le ipotesi di Catanzaro e Santino restano comunque su interpretazioni alternative dell'evidenza empirica disponibile piuttosto che su dati empirici diversi da quelli utilizzati da Gambetta. Santino ritiene inoltre che la riproduzione del sistema Mafia si deve al controllo istituzionale operato da un blocco sociale borghese sul resto della società civile. L'ipotesi solleva il dubbio popperiano riguardo alla possibilità di una falsificazione empirica di tale enunciato. Se è vero che esistono relazioni di natura collusiva anche sviluppate e durature fra mafia e istituzioni, è altrettanto vero che l'esistenza di un blocco sociale simile è difficile non solo da provare ma anche da refutare. Un importante contributo alla comprensione degli effetti perversi della mediazione politica nel Mezzogiorno è quello di Trigilia (1992). 10 Queste considerazioni sono contenute in diverse inchieste empiriche. Anche nei colloqui che abbiamo avuto con alcuni rappresentanti delle associazioni anti-racket questo elemento è stato più volte sottolineato. 11 Un supporto empirico alla tesi di Gambetta è dato dal lavoro di Block (1980) sulle organizzazioni criminali operanti nell'area di New York. Anche qui si assiste al passaggio da relazioni estorsive e relazioni protettive. 12 Questa lettura del dilemma del prigioniero come composto da tre distinti problemi (ragionamento isolato, coordinazione e assicurazione) si deve a Baier (1977). 112 Conclusione Liberalismo e repubblicanesimo: continuità e tensioni I temi che caratterizzano il dibattito filosofico-politico attuale sono connessi ai conflitti promossi dai processi di globalizzazione. Questi processi sollevano due tipi di questioni: il primo tipo riguarda le dinamiche democratiche interne agli stati nazionali, mentre il secondo ha come oggetto la giustizia tra nazioni. A partire dalla fine degli anni '70 nei paesi occidentali ha avuto luogo una progressiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica. L'attività politica è stata sempre più relegata alla periodica selezione di un personale politico sul quale, una volta eletto, i cittadini hanno scarso potere di controllo. Allo stesso tempo si è assistito al trasferimento del potere decisionale verso strutture burocratiche trasnazionali non elettive e inaccessibili ai singoli individui e agli interessi deboli. Le politiche di libero mercato adottate negli ultimi vent'anni hanno infine subordinato le esigenze delle varie comunità locali agli interessi di un numero ristretto di multinazionali e istituzioni finanziarie. Tali politiche hanno comportato la radicale riforma delle istituzioni di welfare e sottoposto i paesi in via di sviluppo alla crescente dipendenza politica e finanziaria dai paesi industrializzati. In questo contesto particolarmente influente è stato il pensiero neoliberale, il quale ha supplito la legittimazione culturale necessaria al successo dell'impresa1. Siffatti cambiamenti hanno favorito lo sviluppo di movimenti di pensiero che premono per regole costituzionali in grado di proteggere individui, comunità locali e paesi poveri dagli interessi predatori dei soggetti che operano sui mercati globali. In contrapposizione all’etica pubblica liberale, questi movimenti non concepiscono la costituzione come un insieme di vincoli esterni all'azione politica, ma come uno strumento di autogoverno atto a garantire le comunità locali e nazionali dagli effetti disgreganti del libero mercato. In aggiunta, le regole costituzionali sono viste non come connesse a principi etici astorici e universali, ma come il risultato di processi deliberativi concreti che coinvolgono le persone reali. Ad un approccio 'esternalista' che ricerca i vincoli a cui deve sottostare l'azione politico-deliberativa nell’etica si contrappone un approccio 'internalista' il quale elegge l'ambito politico e la deliberazione democratica come la base sulla quale costruire una società bene ordinata. Da un punto di vista filosofico ciò comporta la ridefinizione della nozione stessa di giustificazione e l'abbandono delle aspirazioni fondative di positivisti logici e deontologici. Oggetto di critica è anche il principio di unanimità utilizzato dai contrattualisti al quale si contrappone un meno esigente principio di deliberazione democratica. Nell'elaborare una struttura giustificatoria non fondativa il riferimento teorico dei protagonisti del nuovo dibattito filosofico è stato il repubblicanesimo civico: un movimento di pensiero che interpreta la costituzione come il risultato di un processo deliberativo costituente avente una innegabile dimensione politica2. Le ragioni che spiegano l'attrazione del pensiero repubblicano hanno a che fare con il pregiudizio liberale verso la politica, oltre che con le difficoltà implicite nel definire principi morali universali e oggettivi. Chantal Mouffe, per esempio, sottolinea come "ciò che è stato celebrato come la rinascita della filosofia politica non è altro che una mera estensione della filosofia morale; è ragionamento morale applicato all'analisi delle istituzioni politiche. Questo è reso manifesto dall'assenza, nel pensiero liberale corrente, di un’accurata distinzione teoretica tra argomentazione morale e politica" (1993: 147). Un'obiezione questa la cui validità viene riconosciuta anche da Rawls. In Political Liberalism l'autore ammette infatti che "qui bisogna distinguere, come d'altronde avrei dovuto fare nell'originale articolo del 1980, tra costruttivismo CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO morale e politico" (1993: 90). La revisione proposta da Rawls non soddisfa comunque le esigenze partecipative dei repubblicani, come dimostra la dura accoglienza riservata al lavoro del 1993 da pensatori come Sheldon Wolin. Per quest'ultimo Rawls continua infatti ad avocare una platonica guardian democracy che "privilegia la struttura costituzionale rispetto alla politica democratica e culmina con l'esaltazione della corte suprema, l'istituzione perennemente favorita da coloro la cui preoccupazione principale è quella di controllare il demos" (1996: 101). Nel concludere questo saggio è nostra intenzione chiarire il tipo di relazioni che intercorrono tra pensiero liberale e repubblicano. Nel fare ciò focalizzeremo l'attenzione su tre temi principali: il primo riguarda la relazione tra universalismo etico e deliberazione democratica; il secondo quella tra diritti individuali e giustizia sociale; il terzo considera infine le implicazioni dell'approccio repubblicano/deliberativo per l'etica applicata. Per ognuna di queste tematiche i pensatori repubblicani propongono soluzioni che si distaccano da quelle liberali alle volte in modo radicale. E' comunque nostra opinione che le divergenze tra i due approcci non sono poi così profonde come da entrambi le parti si tende a sostenere. DALL'UNIVERSALISMO ETICO AL COSTRUTTIVISMO POLITICO Come anticipato, la tradizione di pensiero repubblicana era stata riscoperta e portata all'attenzione dei filosofi politici dalla scuola storica di Cambridge. Diversamente dagli storici di Cambridge la generazione di pensatori repubblicani emersa negli anni '90 si serve del riferimento alla tradizione di pensiero iniziata da Machiavelli per avanzare valori sostantivi che sono in stridente contrasto sia con quelli dell'umanesimo civico, sia con la lettura essenzialista (e non deliberativa) della volontà generale di Rousseau. La ripresa delle tematiche repubblicane in questo periodo si lega inoltre alle teorie comunitarie e a quelle postmoderne nel criticare il pensiero liberale nelle sue varie forme. Anche in questo caso è necessario comunque non confondere la prospettiva repubblicana con questi altri movimenti di pensiero. L'approccio repubblicano non si limita alla critica delle concezioni strumentali e individualistiche dei valori tipiche di comunitari e postmoderni. Al contrario, si impegna per costruire una teoria della cittadinanza slegata dal pensiero aristotelico e adatta alle esigenze delle moderne società pluralistiche e multiculturali. I principi del repubblicanesimo civico invocati hanno una struttura decisamente costruttivistica e kantiana, ma si tratta del Kant politico proposto da Onora O'Neill (1989) piuttosto che quello etico di Rawls. Nel discutere le critiche avanzate contro Rawls e, per estensione, contro il costruttivismo da lui proposto, la O'Neill nota che spesso queste obiezioni confondono problemi legati alla definizione di modelli astratti con quelli pertinenti alla costruzione di modelli ideali. Il fatto che l'approccio costruttivista suggerito da Rawls intenda ridurre l'effetto delle contingenze storico-sociali e proporre procedure decisionali astratte non depone contro la praticabilità dei principi scelti. L'astrazione da contingenze fattuali è spesso inevitabile e condiziona la riflessione normativa per sé. Altra cosa è, per O'Neill, il riferimento a caratteristiche e condizioni ideali. Modelli normativi ideali sollevano il problema della praticabilità evidenziato prima da Mackie. Come la O'Neill afferma "se le idealizzazioni non 'semplificano' descrizioni dell'agente che sono vere, allora queste non rappresentano modi innocui di estendere il ragionamento. Tali idealizzazioni assumono e difendono di nascosto versioni 'reificate' (enhanced) di specifiche caratteristiche e capacità. [...] Esse finiscono per privilegiare alcuni tipi di agenzia umana e forme di vita le cui caratteristiche peculiari sono presentate come ideali universali" (1989: 210). Per O'Neill Rawls difende una versione ideale dell'agente morale che necessita di una giustificazione di tipo oggettivo, quella sulla quale si sono concentrate le critiche comunitarie. La ridefinizione del modello costruttivistico portata avanti da Rawls negli anni '80 non ha intaccato questa dimensione ideale e proposto un liberalismo politico dove gli agenti morali ideali sono "i cittadini di una moderna polis democratica, i quali accettano la posizione originaria come uno 'strumento di rappresentazione' che cattura con precisione un ideale 114 CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO condiviso di ciò che per loro rappresenta un sistema equo di cooperazione sociale tra cittadini con diverse concezioni del bene" (ibid.: 211). Secondo O'Neill questo tipo di consenso presuppone l'esistenza di valori condivisi che però risultano essere tali solo localmente e che di conseguenza espongono la teoria alle accuse di relativismo. Inoltre le procedure ipotetico-deliberative sottostanti l'idea di ragione pubblica risultano troppo astratte per dare una guida pratica effettiva alle persone impegnate nella pratica politica e non attribuiscono valore alla partecipazione politica attiva per sé. Come alternativa O'Neill suggerisce un approccio che rinuncia al consenso ipotetico di agenti razionali idealmente situati. Quello che si richiede è "il consenso possibile degli agenti reali. Il cui criterio non resta sul consenso fattuale (il quale può riflettere falsa coscienza o costrizione) ma sul fatto che ogni tipo di accordo raggiunto o in offerta possa essere rifiutato e rinegoziato. Se vogliamo essere sicuri che un principio possa essere condiviso anche da coloro che ne risultano svantaggiati, dobbiamo accertarci che questi ultimi abbiano avuto la possibilità di rifiutare e rinegoziare i ruoli e i compiti imposti su di loro dai principi prescelti" (ibid.: 217). La critica di O'Neill è ripresa da coloro per i quali il consenso ipotetico di Rawls resta sull'esistenza di principi morali basilari la cui universale accettazione non è solo dubbia, ma sottovaluta la forza del pluralismo nell'erodere le forme di consenso sociale esistenti nel passato. Inoltre questi pensatori vedono l'affermarsi del valore della tolleranza religiosa prima e di quella politica poi come il frutto di modus vivendi raggiunti attraverso l'azione politica e che hanno poi finito per creare le basi morali del consenso per sovrapposizione ricercato da Rawls. In questo senso lo scetticismo mostrato da Rawls verso i modus vivendi riflette una preconcezione tipica del liberalismo filosofico contro la politica come attività pratica. Preconcezione che, a sua volta "minaccia di rendere i principi di giustizia troppo astratti e lontani dalle circostanze reali in cui le persone vivono e quindi incapaci di supplire regole pratiche ai soggetti impegnati a definire i criteri di giustizia cooperativa validi in particolari condizioni politiche" (Bellamy e Hollis, 1996: 4). Malgrado queste innegabili differenze risulta chiaro che alla base della concezione politica difesa dai repubblicani rimane necessariamente un appello a valori condivisi tipico dell'approccio ralwsiano. Nel caso della O'Neill questi sono descritti come i principi di vittimizzazione: frode, coercizione e violenza. Nel caso di autori come Bellamy e Hollis è l'impegno ad accettare le conclusioni dei processi deliberativi come vincolanti e a mantenere la discussione pubblica e la partecipazione a tale discussione aperta a tutti. Di conseguenza, più che un punto di vista incompatibile con quello rawlsiano, l'approccio repubblicano sembra richiedere un indebolimento delle condizioni di ragionevolezza imposte dal primo. Cittadinanza, diritti e stato sociale Le politiche neo-liberali promosse a partire dalla fine degli anni ‘70, il cui obiettivo era quello di liberare la società civile dal gioco delle potenti burocrazie pubbliche, si sono ben presto scontrate con gli interessi di larghi settori della società civile stessa. Sull’esempio della Thatcher, la reazione dei vari governi neo-liberali è stata quella di: • • • rafforzare i poteri dell'esecutivo rispetto al legislativo restringere i diritti sociali ed economici delle classi meno avvantaggiate delegittimare l'opposizione extraparlamentare promossa dai movimenti sindacali e noglobal La violazione delle libertà civili e sociali che ciò ha comportato ha finito perciò per accentuare il dibattito sui diritti di cittadinanza, sul loro contenuto e sul modo di garantirli. Da un punto di vista teorico la discussione ha seguito due direzioni: quella giuridico-deontologica suggerita da Ralws (1971) e Dworkin (1978) e quella repubblicana che, sulle orme della O'Neill, antepone i doveri ai diritti. La proliferazione di numerose e controverse teorie dei diritti avvenuta nel corso degli anni '80 ha posto all'ordine del giorno tre problemi: (i) distinguere tra pretese legittime e richieste implausibili 115 CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO (ii) dirimere i conflitti tra titolari di diritti contrapposti (iii) definire come soddisfare adeguatamente questi diritti La risoluzione di questi problemi ha fatto emergere dubbi non solo in merito a specifiche teorie dei diritti, ma sulla appropriatezza del linguaggio stesso dei diritti. Per Alan Ryan (1990), per esempio, il linguaggio dei diritti conserva la carica assolutistica che caratterizzava le vecchie teorie dei diritti naturali e ha favorito la crescente segmentazione e litigiosità della società americana. In più, l'autore vede il linguaggio dei diritti come responsabile per avere contribuito alla giuridificazione delle relazioni sociali e per avere promosso il trasferimento del potere decisionale nelle mani di avvocati, giuristi e burocrati indipendenti dal processo democratico e difficilmente controllabili. Da parte sua Chantal Mouffe (1988) evidenzia come il linguaggio dei diritti abbia favorito non solo la lotta democratica (democratic struggle), ma anche e soprattutto l'antagonismo democratico tra le varie minoranze sociali e culturali impegnate nella costruzione delle proprie identità collettive. Un antagonismo che è alla base delle emergenti forme di razzismo e xenofobia e che non intacca le forme istituzionalizzate di sfruttamento sociale. L'ultimo punto è ripreso da Onora O'Neill, la quale si sofferma sulla tendenza delle istituzioni politiche a sottoscrivere manifesti che riconoscono diritti radicali, salvo poi a dimostrarsi riluttanti nel supplire le risorse necessarie affinché i titolari legittimi possano farne un uso effettivo. Secondo il filosofo di Cambridge il linguaggio dei diritti risulta inappropriato per le moderne società pluralistiche e democratiche dove alle forti pressioni per il riconoscimento di diritti disparati fa da contraltare la carenza delle risorse necessarie alla loro implementazione. Particolarmente limitante è poi, per O'Neill, l'interpretazione topografica (spatial) dei diritti quali sfere di libertà che circoscrivono gli ambiti di autonomia degli individui. Tale interpretazione solleva problemi teorici refrattari a soluzioni semplici e di facile applicazione. Prima di tutto, risulta problematica l'identificazione degli insiemi di libertà che compongono ogni sfera individuale. L’indeterminatezza impedisce la costruzione di sfere di diritti compossibili uguali e la selezione di quella che massimizza le opportunità degli agenti. A sua volta, l'interpretazione topografica stabilisce una correlazione perfetta tra diritti e obbligazioni che nega l'esistenza delle obbligazioni imperfette. Sarebbe a dire, l'esistenza di obbligazioni per le quali non è possibile individuare un titolare di diritti a priori. La conclusione a cui arriva la O'Neill è che il linguaggio dei diritti risulta troppo rigido nel suddividere il mondo in sfere di libertà individuale, ma incapace di definire i modi in cui "coordinare gli usi di un mondo che condividiamo e che non può essere diviso in domini esclusivi" (1989: 195). La soluzione avanzata dalla O'Neill è quella di un costruttivismo modale delle obbligazioni che "non si basi su massimizzazioni e che quindi non richieda una metrica plausibile delle obbligazioni stesse. Se una pluralità di esseri razionali distinti deve avere le stesse obbligazioni, iniziamo costruendo il contenuto di tali obbligazioni attraverso l'identificazione e la messa da parte di tutti i principi d'azione che non possono guidare le azioni dei membri di codesta pluralità di esseri razionali pressappoco uguali [...] Il vantaggio offerto da questo criterio di costruzione è quello di permetterci l'identificazione progressiva delle obbligazioni" (ibid.: 197). In questo modo la O'Neill pensa sia possibile arrivare alla definizione di principi di azione di carattere universale che coprano sia le tradizionali categorie dei diritti individuali, sia le obbligazioni imperfette. L'identificazione seriale delle obbligazioni lascia inoltre un ampio spazio alla deliberazione democratica e assegna alla politica una funzione di primaria importanza nell'integrare e adattare la costruzione alle esigenze specifiche a cui si applica. In questo senso l'approccio costruttivista cerca di connettere la riflessione filosofica sui principi astratti di azione da utilizzare nella sfera pubblica alla pratica politica quale strumento di partecipazione, educazione ed emancipazione. Anche qui le similarità con il costruttivismo etico di Rawls sono più delle differenze. Entrambi gli autori sono infatti alla ricerca di una ridefinizione della teoria morale kantiana che vada oltre il mero proceduralismo e arrivi a principi di azione che sebbene astratti non risultino 116 CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO vuoti di contenuto. Nel caso della O'Neill, la ridefinizione di Kant segue un percorso che vede l'azione politica non solo come terreno di scontro tra individui con visioni del mondo e preferenze (morali) fisse e immutabili, ma anche come strumento di confronto, crescita e costruzione di punti di vista comuni.3 Da notare infine che l'assumere le obbligazioni come primarie rispetto ai diritti ha la funzione di integrare l'approccio deontologico liberale e di ricoprire gli interstizi fra sfere di libertà. L'attenzione data alle obbligazioni imperfette intende infatti proteggere i bambini, i disabili e gli agenti deboli i quali non sono in grado di riconoscere o di premere per un riconoscimento dei loro diritti. Si preoccupa cioè di quanti necessitano di una speciale attenzione e cura piuttosto che un diritto alla non interferenza. Sarebbe a dire, quegli stessi soggetti sociali svantaggiati a cui si rivolge il principio di differenza di Rawls. ETICA APPLICATA E DELIBERAZIONE DEMOCRATICA Nel campo dell'etica applicata le critiche dei pensatori repubblicani si concentrano su due elementi principali: il ruolo dell'esperto etico e la natura degli strumenti da utilizzare per una effettiva principled governance. Nel primo caso ad essere contestata è l'idea che il ragionamento filosofico e i dibattiti che questo promuove rappresentino strumenti deliberativi ideali da preferire a quelli reali. Nel secondo caso l'obiettivo critico sono invece i codici 'concessi' e i comitati di 'esperti', e l'idea che questi possano sostituire la partecipazione attiva di cittadini e stakeholders alla deliberazione pubblica. Il principio filosofico che connette le due critiche è dato dall'idea che i dibattiti ideali non solo non sono in grado di replicare le deliberazioni reali, ma tradiscono l'ideale stesso di autonomia che li ispira. Da un punto di vista pratico l'approccio repubblicano ritiene inoltre che l'adozione di procedure deliberative ideali ha scarso effetto educativo e un valore motivazionale trascurabile. A mettere in luce le debolezze di un approccio che privilegia le deliberazioni ideali rispetto a quelle reali è il filosofo Fred D'Agostino. Nel discutere se le conferenze fra esperti possano incarnare l'ideale di autodeterminazione, la sua risposta è che "la competenza professionale (expertise) è compatibile con l'autogoverno quando, e solo quando, 'traccia' un corso ipotetico di ragionamento che 'noi, i cittadini' potremmo avere perseguito noi stessi, sia individualmente sia collettivamente" (1998: 50). D'Agostino crede che in società genuinamente pluralistiche tale tracking condition può essere soddisfatta solo in casi banali. Il test fallisce invece quando si affrontano i conflitti e i dilemmi morali di cui si occupa l'etica applicata: aborto, eutanasia, pornografia, etc. Il fatto del pluralismo stabilisce infatti che esistono "(a) dimensioni multiple indipendenti per valutare se la soluzione proposta da un esperto ad un problema del cliente è adeguata, le quali (b) sono (parzialmente) incommensurabili; nel senso che (i) la superiorità in una dimensione non varia in modo diretto con la superiorità di un'altra dimensione, mentre (ii) non esiste un valore dato per compensare la superiorità lungo una dimensione contro la superiorità lungo le altre" (ibid.). La tracking condition di D'Agostino ripropone le considerazioni ontologiche ed epistemologiche che hanno portato Rawls a passare dalla nozione di razionalità a quella di ragionevolezza. Se la ragione non è in grado di indicare un corso d'azione unico, la risoluzione dei conflitti etici rinvia a regole e procedure decisionali che hanno una base convenzionale. In questo contesto la relazione tra esperti e cittadini assume la forma di un confronto fra le convenzioni prodotte democraticamente e quelle definite dalle istituzioni professionali a cui gli esperti afferiscono. Ciò permette di definire le varie tipologie ipotetiche in cui esiste un'incongruenza fra le due e le priorità da seguire in ogni caso. D'Agostino ritiene che "in una società democratica non esiste ragione alcuna per fare prevalere il giudizio dell'esperto. [...] Se l'opinione di 'noi, i cittadini' è differente da quella degli esperti, e se l'opinione pubblica è in accordo con la ragione, questa deve prevalere perché rappresenta la 'nostra' (non irragionevole) opinione in materia" (ibid.). In altre parole, il fatto del pluralismo non consente agli esperti di far prevalere la loro opinione su quella espressa democraticamente perché in ultima analisi resta su una base convenzionale del tutto simile a quest'ultima: il consenso attuale dei propri membri. 117 CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO Rispetto a Rawls il fatto del pluralismo richiamato da D'Agostino serve per mettere in evidenza la rilevanza della partecipazione democratica sia per esprimere giudizi valutativi appropriati sia per la crescita morale dei cittadini. Secondo D'Agostino "tracciare il ragionamento (ipotetico) del cliente richiede molto di più che una buona condotta etica e professionale. Come minimo richiede il conoscere come il cliente risolverebbe le incommensurabilità e arriva ad uno schema di valutazione generale. Comunque, dato che il cliente può risolvere le incommensurabilità solo quando si confronta col problema direttamente [...] l'idea stessa che un esperto possa tracciare il ragionamento del cliente è priva di senso" (ibid.). In altre parole il giudizio dell'esperto non può essere un perfetto sostituto di quello dell'agente proprio perché richiede elementi valutativi che solo il diretto coinvolgimento dell'agente può provvedere. Gli effetti educativi prodotti dalla partecipazione volontaria sono simili a quelli discussi sopra a proposito del modus vivendi. Per D'Agostino il prendere parte attiva ad una discussione libera ci può insegnare che questa "può non portare a nessun consenso sostanziale e quindi che gli individui che dissentono possono avere ragioni per persistere nel loro disaccordo che la ragione non può disputare" (ibid.: 52). In questi casi per stabilire una qualche forma di cooperazione è necessario ricercare soluzioni politiche che si basano sul riconoscimento reciproco e sul compromesso. In definitiva D'Agostino, come la O'Neill precedentemente, mette in evidenza la debolezza delle teorie etiche universalistiche e sottolinea la necessità di strumenti deliberativi che complementino il ragionamento filosofico. Nel campo dell'etica applicata ciò ha due implicazioni. La prima riguarda la ricerca di criteri di giudizio morale oggettivi e universali. D'Agostino afferma che in un mondo che riconosce il valore del pluralismo una ricerca simile non è solo destinata al fallimento, ma può risultare anche controproducente. Un chiaro esempio in tal senso è il tentativo di risolvere conflitti etici quali quelli posti dall'aborto attraverso la risoluzione di questioni relative all'identità del feto e dei diritti a questo relativi. La seconda implicazione riguarda invece l'utilizzo di strumenti di autoregolazione che fanno a meno del coinvolgimento attivo degli agenti che devono osservarli. Se i ragionamenti degli esperti non sono in grado di riprodurre quelli dei cittadini, gli strumenti normativi elaborati su tale base risultano incompatibili con l'idea di autogoverno. Nel migliore dei casi questi strumenti non fanno altro che riflettere il sistema di valori degli esperti, mentre nel peggiore riflettono gli interessi di coloro che li hanno commissionati. E' chiaro in ogni caso che strumenti simili hanno scarsa probabilità di motivare gli individui ad agire moralmente e di promuovere la principled governance delle società pluralistiche e democratiche. Note 1 Cockett (1995), Smith (1987) and Stiglitz (2000) discutono l'influenza pratica che il pensiero neoliberale ha avuto sulle politiche economiche a livello nazionale e internazionale. Una pungente analisi dell'influenza culturale del pensiero neoliberale si trova invece in Frank (2002). 2 Sul pensiero repubblicano e sul suo revival attuale si vedano i saggi contenuti nei numeri monografici di Filosofia politica (12, 1, 1998) e di Filosofia e questioni pubbliche (5, 2, 2000) e il volume di Viroli (1999). 3 L'approccio deontologico di derivazione americana per certi versi sembra infatti replicare i modelli della scelta pubblica dove le preferenze (morali) degli agenti sono assunte come date, mentre le sole procedure decisionali valide sono quelle aggregative. In questo senso la discussione deontologica ripropone i dilemmi paretiani relativi alla definizione di una 'funzione morale' che massimizzi il consenso sociale del tipo discusso dal teorema di Arrow. 118 Bibliografia AKERLOF, G. (1970), "The Market for 'Lemons': quality uncertainty and the market mechanism", Quarterly Journal of Economics 84: 488-500. ALBROW, M. (1970), Bureaucracy. London: Macmillan. 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Un approccio di questo genere ha non solo aspirazioni genuinamente normative, ma una innegabile valenza pratica; vede la riflessione filosofica non solo come una attività speculativa, ma anche e soprattutto come uno strumento di governance delle moderne società pluraliste e multiculturali. Il saggio ricostruisce il processo evolutivo che ha portato all’emergere dell’etica pubblica e di quelle applicate. La prima parte discute il contributo seminale di John Rawls, i modelli neo-hobbesiani che hanno perseguito l’ideale rawlsiano della filosofia morale come teoria della scelta razionale e gli approcci genealogici humeani che hanno invece tentato di riportare la riflessione filosofica in un ambito eminentemente epistemologico. Nella seconda parte sono ricostruiti i dibatti filosofici che hanno accompagnato la nascita dell’etica degli affari e dell’etica della pubblica amministrazione. Queste etiche sono quindi discusse in relazione ad un caso concreto, la mafia, per vedere se e in che modo possono servire come strumenti di governance. Antonino Palumbo è ricercatore di filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Palermo. Pubblicazioni recenti: «Weber, Durkheim and the Sociology of the Modern State», in collaborazione con Alan Scott, in Cambridge History of Twentieth Century Political Thought, R. Bellamy e T. Ball (eds.), Cambridge University Press, Cambridge 2003; «Liberalism», in Understanding Democratic Politics, R. Axmann (ed.), Sage, London 2003; Il dibattito filosofico-politico in Gran Bretagna, «Filosofia e questioni pubbliche» 6, n. 2, 2001; «Administration, Civil Service and Bureaucracy», in Blackwell Companion to Political Sociology, K. Nash e A. Scott (eds.), Blackwell, Oxford 2001; «Processi di riforma e codici etici della pubblica amministrazione in Gran Bretagna», in Etica della pubblica amministrazione, L. Sacconi (a cura di), Guerini, Milano 1998.