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La Prima Guerra Mondiale

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Il delicato equilibrio tra le potenze europee La Prima guerra mondiale FINLANDIA NORVEGIA M BELGIO Atlantico LETTONIA a r LITUANIA R U Prussia Danzica Orientale PAESI BASSI Oceano ESTONIA a R E G N O U N I T O SV E Z IA Mare d el Nord DANIMARCA lt i c o Nuovi confini e nuovi stati alla fine della Prima guerra mondiale B IUGOSLAVIA I M P E RO T E D E S CO U S R S S I A S POLON IA GERMANIA LUSSEMBURGO CECOSLOVACCHIA FRANCIA IMPERO AUSTRO-UNGARICO SVIZZERA AUSTRIA UNGHERIA RO M A N IA PORTOGALLO IUGOSLAVIA ANDORRA Mar Nero SERBIA BULGARIA S PAG N A MONTENEGRO I TA L I A ALBANIA I M P E R O GRECIA Marocco (Fr.) A L G E R I A (Fr.) Tunisia (Fr. ) S i r i a (Fr.) Malta (R.U.) Mare O T T O M A N O TURCHIA Mediterraneo Cipro (R.U.) L’assetto dell’Europa prima e dopo la Prima guerra mondiale 3.1 Lo scoppio della guerra L’attentato di Sarajevo ultimatum: intimazione con cui uno Stato rende note a un altro Stato le proprie irrevocabili condizioni circa una determinata questione, minacciando di ricorrere alla forza qualora tali richieste non vengano soddisfatte entro un dato tempo. Il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero d’Austria-Ungheria, e sua moglie Sofia furono assassinati a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina. Autore dell’attentato fu uno studente serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, membro di una organizzazione nazionalista che – con il sostegno di Belgrado – rivendicava l’annessione della Bosnia alla Serbia. La decadenza inarrestabile dell’Impero ottomano aveva scatenato gli appetiti della Russia e dell’Austria-Ungheria sui Balcani: la prima cercava uno sbocco sul Bosforo e i Dardanelli per puntare poi al Mediterraneo, la seconda desiderava estendere i suoi domini verso sud (e nel 1908 aveva già annesso unilateralmente proprio la Bosnia-Erzegovina). La situazione era complicata dal gran numero di etnie diverse presenti nella penisola e dal ruolo emergente della Serbia, che desiderava unificare sotto le proprie insegne tutte le popolazioni slave del sud (gli stessi serbi, i bosniaci, gli sloveni e i croati). L’attentato di Sarajevo ebbe l’effetto di esacerbare le tensioni e poche settimane dopo – il 23 luglio – gli austro-ungarici inviarono a Belgrado un durissimo ultimatum  . La situazione dei Balcani si rivelò esplosiva perché inserita all’interno del delicato equilibrio tra le potenze europee di inizio Novecento. Nel vecchio continente si fronteggiavano due grandi sistemi di alleanze: la Triplice Alleanza, nata nel 1882, che univa Austria-Ungheria, Germania e Italia, e la Triplice Intesa, stipulata nel 1907 tra Francia, Regno Unito e Russia. Molti erano i motivi di ostilità tra i governi. In primo luogo, gli Stati europei erano in accesa concorrenza tra loro per l’accaparramento dei territori ancora colonizzabili, in particolare in Africa e Asia; la necessità di sostenere le ambizioni imperialistiche aveva di conseguenza spinto tutte le maggiori capitali a varare imponenti piani di riarmo. Gli apparati industriali nazionali erano inoltre in competizione per la conquista economica dei mercati internazionali, europei ed extra europei. Infine, il nazionalismo sciovinista infiammava le opinioni pubbliche borghesi e spingeva i governi a mostrarsi aggressivi sul piano diplomatico e militare: esempio più rilevante di questo atteggiamento era senza dubbio il vigore con cui l’imperatore tedesco Guglielmo II aveva accolto e promosso le istanze espansionistiche dei movimenti pangermanisti  . A partire dalla fine del XIX secolo e fino al 1914, tutte le principali crisi internazionali erano state risolte per via diplomatica e non avevano portato allo scontro militare tra le grandi potenze europee: così era avvenuto, per esempio, nel caso delle due crisi marocchine del 1905 e 1911 e dei pericolosi fermenti dell’area balcanica. Tuttavia, dopo l’attentato di Sarajevo la guerra sembrò un passo non solo inevitabile ma addirittura auspicato dagli europei. Infatti, allo scoppio delle ostilità il sentimento prevalente dell’opinione pubblica di molti Stati europei, dominata dal nazionalismo, fu di tale esaltazione che gli storici hanno parlato in proposito di una «comunità d’agosto» tra le genti del vecchio continente, una comunità inconsapevolmente indirizzata all’autodistruzione. A favore dell’intervento militare si dichiararono anche molti tra i maggiori partiti socialisti europei, appoggiando l’entrata in guerra dei rispettivi paesi e sancendo nei fatti la fine della Seconda internazionale e dell’ideale di unità tra le classi lavoratrici d’Europa. L’aspirazione all’unificazione di tutte le genti di lingua tedesca in un unico stato; il movimento che si basava su tale aspirazione si diffuse nel corso del XIX secolo nel mondo germanico e giunse nel secolo successivo, con il nazismo, alla teorizzazione della superiorità della razza ariana, nella quale si identificava quella germanica. [   I NODI DELLA STORIA p. 60] Luglio 1914: una guerra inevitabile Dopo l’attentato si arrivò velocemente allo scoppio delle ostilità: Vienna non ritenne soddisfacente la risposta serba all’ultimatum del 23 luglio e cinque giorni dopo – il 28 luglio 1914 – dichiarò guerra al paese balcanico. Si mise allora in moto il meccanismo inarrestabile delle alleanze contrapposte: la Russia si schierò a fianco della Serbia, la Germania accanto all’Austria-Ungheria; la Francia a sua volta appoggiò la Russia. Il Regno Unito tentò disperatamente di arginare la crisi per via diplomatica, ma il 4 agosto le truppe tedesche violarono la neutralità  del Belgio allo scopo di aggirare le posizioni di frontiera dell’esercito francese. L’occupazione del Belgio indusse anche Londra a schierarsi e il 5 agosto 1914 le più grandi potenze europee si trovavano in guerra tra loro. Ad esse si aggiunsero col tempo molti altri paesi, e la guerra assunse dimensioni veramente mondiali. Accanto ai cosiddetti «Imperi centrali» scesero in campo l’Impero ottomano e la Bulgaria. Con le potenze dell’«Intesa» si schierarono invece Romania, Grecia, Giappone, Stati Uniti e, come vedremo, l’Italia. 1870 pangermanismo: movimento politico e culturale nato nel XIX secolo e mirante a riunire tutti i popoli di origine tedesca in un unico stato. neutralità: è la posizione politica di chi non parteggia per nessun contendente. La neutralità del Belgio era garantita da un trattato internazionale del 1839 sottoscritto anche dalla Germania. J.E. Détaille , Il sogno, 1888, Parigi, Musée d’Orsay. © Loescher Editore – Torino 48 L’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e sua moglie, l’arciduchessa Sofia, vengono assassinati a Sarajevo, «Domenica del Corriere», 1914. © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 49 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento 3.2 L’entrata in guerra dell’Italia L’iniziale neutralità italiana L’Italia era legata a Germania e AustriaUngheria dal trattato della Triplice Alleanza, che aveva però un carattere difensivo. L’ultimatum inviato alla Serbia dall’Austria, senza peraltro alcun accordo con l’Italia, era così dichiaratamente aggressivo, che Salandra, capo del governo, annunciò il 2 agosto 1914 che l’Italia sarebbe rimasta neutrale. Il governo Salandra ritenne – almeno all’inizio – la scelta della neutralità conveniente da diversi punti di vista. In primo luogo essa permetteva di continuare a commerciare liberamente con i paesi in guerra. In cambio del non intervento, inoltre si potevano ottenere dalle due alleanze adeguati vantaggi territoriali. I politici, infine, tenevano conto del fatto che la maggioranza dell’opinione pubblica e del Parlamento italiani erano in generale a favore della pace. Col passare dei mesi, i paesi dell’Intesa e gli Imperi centrali aumentarono le pressioni su Roma affinché si schierasse e la scelta neutralista cominciò ad essere messa in dubbio. Anche l’opinione pubblica si divise progressivamente in opposte fazioni: neutralisti e interventisti. Vignetta pubblicata sull’«Avanti!» del 7 Agosto 1914. territori irredenti: erano i territori non ancora «salvati» e che rimanevano sotto il dominio straniero: in particolare Trento e Trieste. La divisione dell’opinione pubblica in Italia Neutralisti e interventisti Neutralisti Cattolici, socialisti, liberali (Giovanni Giolitti) Interventisti Nazionalisti (Gabriele D’Annunzio), irredentisti (Cesare Battisti), repubblicani, radicali, riformisti (Gaetano Salvemini), rivoluzionari di sinistra Obiettivi mantenere la pace; preservare l’unità del movimento operaio internazionale (socialisti) Obiettivi Ottenere una «purificazione del mondo», un cambiamento radicale; possibilità di guadagni tramite ricche commesse militari pubbliche Neutralisti e interventisti Il fronte di chi si opponeva alla discesa in campo dell’Italia era multiforme. Neutralisti erano: • i socialisti – al cui interno prevaleva la corrente massimalista – che si opponevano alla guerra considerata un «borghese» da cui operai e contadini non avrebbero tratto alcun beneficio; • i cattolici, che seguivano l’insegnamento pacifista del papa Benedetto XV; • i liberali facenti capo a Giovanni Giolitti, il quale temeva una guerra lunga e l’impreparazione italiana al conflitto. Egli era inoltre convinto che garantendo agli Imperi centrali la neutralità di Roma, l’Italia avrebbe potuto ottenere per via diplomatica gran parte dei territori irredenti  . Interventisti erano: • i nazionalisti, che miravano ad accrescere attraverso la guerra il prestigio dell’Italia come nuova grande potenza continentale; • gli irredentisti, che desideravano l’annessione di Trento e Trieste per portare a termine il processo di unità nazionale cominciato con il Risorgimento; l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Imperi centrali entro un mese. Al termine del conflitto il nostro paese avrebbe ricevuto Trento, Trieste, l’Istria, il Tirolo meridionale (Alto-Adige) e la Dalmazia settentrionale. [Testimonianze  documento 5, p. 72] Il Parlamento venne tenuto all’oscuro delle trattative e messo di fronte al fatto compiuto. Per la Camera, opporsi avrebbe significato entrare in contrasto con il sovrano e con il governo – ormai apertamente favorevoli alla guerra – ai quali spettava la scelta delle alleanze del paese. Il monarca e l’esecutivo erano inoltre rumorosamente appoggiati, in quelle che la propaganda interventista chiamò le «radiose giornate» di maggio, da un’opinione pubblica sempre più incline al conflitto. Rifiutando ancora di impegnarsi per l’intervento, la Camera avrebbe aperto un grave conflitto istituzionale. Fu così che i deputati votarono, con la sola eccezione del Psi, i pieni poteri a Salandra lasciandogli l’assoluta libertà di gestire la discesa in campo dell’Italia. Il 24 maggio 1915 Vittorio Emanuele III annunciava l’entrata in guerra contro l’Austria-Ungheria. • i repubblicani, i radicali e i socialisti riformisti, recentemente espulsi dal Psi, tutti desiderosi di battersi per l’Europa dei popoli, contro il dispotismo e contro il militarismo degli Imperi centrali. • i rivoluzionari di sinistra, che vedevano nella guerra l’occasione per abbattere i governi borghesi e capitalisti del vecchio continente. Il Patto di Londra e l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa Papa Benedetto XV. Gli interventisti, benché in minoranza, erano appoggiati da influenti giornali come il «Corriere della Sera» e da prestigiosi intellettuali come il meridionalista Gaetano Salvemini o lo scrittore Gabriele D’Annunzio. Inoltre essi contavano tra le loro fila il sovrano Vittorio Emanuele III, i capi dell’esercito e il presidente del Consiglio, Antonio Salandra. Salandra, dopo aver tentato inutilmente le trattative con l’Austria, decise di prendere contatto con i governi dell’Intesa con cui il 26 aprile 1915 concluse un patto segreto, il Patto di Londra. L’accordo prevedeva, in cambio di adeguate concessioni territoriali, Antonio Salandra. Soldati in trincea nella zona della Marna in un dipinto francese del 1917, Parigi, Musée de l’Armée. 3.3 Quattro anni di feroci combattimenti 1914: dalla guerra di movimento alla guerra di posizione Il piano tedesco prevedeva a ovest una rapida vittoria sulla Francia, prima che a oriente la Russia mobilitasse il suo immenso esercito. Ciò avrebbe evitato alla Germania una guerra su due fronti. La resistenza dei belgi (attaccati dai tedeschi nonostante la dichiarazione di neutralità) e dei francesi superò tuttavia le previsioni dei tedeschi. Giunte ad appena quaranta chilometri da Parigi, le armate tedesche vennero fermate sul fiume Marna, tra il 6 e il 12 settembre; il fronte allora si stabilizzò lungo una linea che correva per 800 chilometri dalle coste del Mare del Nord alla Svizzera. A est, le cose non andarono meglio per gli Imperi centrali. Nelle due grandi battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri (nell’odierna Polonia), tra agosto e settembre, i tedeschi riuscirono a fermare l’avanzata dei russi verso la Germania. Contemporaneamente, però, Vienna perse la Galizia (nelle attuali Ucraina e Polonia) e dovette attestarsi sulla difensiva. Nel giro di pochi mesi svaniva la speranza di una vittoria rapida e appariva concreta, invece, la prospettiva di un lungo e logorante conflitto. Lo scontro su due fronti temuto dai tedeschi era divenuto realtà. © Loescher Editore – Torino 50 1870 La Prima guerra mondiale © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 51 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento Il 1915 e il 1916 furono anni di battaglie durissime che causarono centinaia di migliaia di morti lasciando sostanzialmente inalterate le linee del fronte. Sul fronte occidentale si combatté la guerra di posizione. Era una guerra di profondo logoramento degli uomini e dei materiali. I soldati dei due schieramenti vivevano all’interno delle trincee, immersi nel fango ed esposti al freddo, alle malattie e ai colpi dell’artiglieria nemica. Quando riceveLe prime offensive sul fronte occidentale Anversa Bruges Gand Bruxelles Ypres BE LGIO Lilla So mm e Arras Amiens Linea della guerra di posizione Saarbrücken Marna Parigi Strasburgo Nancy Vitry F R A N C I A TEDESCO Metz Verdun Re a Reims Friburgo Épinal Troyes Le alleanze e i fronti dopo le prime settimane di guerra NORVEGIA SVEZIA REGNO UNITO San Pietroburgo Mare del N o r d DANIMARCA PAESI BASSI Londra BELGIO Mosca IMPERO TEDESCO Varsavia Kiev Vienna SVIZZERA IMPERO AUSTRO-UNGARICO Belgrado I TA L I A Roma SERBIA Mar Nero Istanbul OT TO M A N O Imperi centrali Mare Mediterraneo Bolzano 1870 3221 Pieve di Cadore Trentino Belluno 3554 Adamello 2780 Cristallo 3343 Udine Trento Fr i u l i Pordenone Rovereto Lago di Garda Brescia Asiago V e n e av e t Grado o Vicenza Adi ge Venezia Padova rs o Trieste Confini del 1914 Offensive italiane Offensive austriache Fronte nell’ottobre 1917 R E G N O D’ I T A L I A Verona o nz Gorizia Iso San Michele C a Pi L’offensiva austriaca dell’ottobre 1917 I M PE RO S u d SVIZZERA Merano AUST RO- U N G A R I CO T i r o l o Cortina d’Ampezzo Pieve di Cadore Bolzano Caporetto Trentino 3554 Adamello Belluno Udine Vittorio Veneto Fr i u l i Monte Grappa Pordenone Trento Rovereto Asiago Brescia Lago di Garda Vicenza 1775 V e Nervesa n e Pi av e t o R E G N O D’ I T A L I A Verona Adi ge Padova Soldati appostati in trincea durante la Prima guerra mondiale. © Loescher Editore – Torino 52 Monte Coglians Cortina d’Ampezzo Marmolada Il fronte italiano: dall’Isonzo a Caporetto Sul fronte italiano, la guerra conobbe a lungo lo stesso andamento del resto d’Europa: grandi battaglie dagli esiti non risolutivi che T i r o l o Venezia nto ALBANIA GRECIA Fronti di guerra alla fine del 1914 Merano BULGARIA I M P E RO Triplice intesa S u d SVIZZERA AUST RO- U N G A R I CO e liam Tag S PAG N A ROMANIA I M PE RO ge Praga Luigi Cadorna. Le offensive italiane e austriache sul fronte meridionale fino all’autunno del 1917 Adi Parigi F R A NCIA R U S S I A Berlino La Prima guerra mondiale nura. Si trattò di un’autentica disfatta, che causò circa 400.000 morti e quasi 300.000 prigionieri, oltre alla perdita di quasi tutto l’armamento leggero e pesante. Mentre ondate di profughi si riversavano nelle retrovie e il panico si impadroniva dell’opinione pubblica del paese, solo la resistenza disperata dei soldati italiani – tra cui i cosiddetti «ragazzi del 1899», soldati appena diciottenni – arrestò lungo il fiume Piave l’avanzata austriaca. Gli alti comandi dell’esercito negarono le proprie responsabilità, addossando alla scarsa disciplina delle truppe le colpe della disfatta. Cadorna venne comunque destituito pochi giorni dopo e sostituito dal generale Armando Diaz. ge O Château-Thierry MPERO sfociavano in un sanguinoso ed estenuante conflitto di posizione. Nel 1915, l’esercito italiano guidato dal generale Luigi Cadorna si lanciò in ripetuti assalti contro le fortificazioni austriache nella regione del fiume Isonzo e del Carso senza ottenere apprezzabili avanzamenti territoriali. Oltre 250.000 soldati persero la vita nei primi mesi di guerra e apparve subito evidente l’inadeguatezza dell’armamento ed equipaggiamento italiano. Nel maggio 1916 furono gli austriaci a lanciare contro l’Italia, ex alleato traditore, la Strafexpedition («spedizione punitiva»). Attaccando in Trentino, essi puntavano ad attraversare l’altopiano di Asiago e penetrare così nella pianura veneta, ma, pur subendo gravi perdite, gli italiani riuscirono a respingere l’offensiva proprio sull’altopiano di Asiago. Più a est l’esercito di Cadorna riuscì anzi ad avanzare sul fronte dell’Isonzo e ad espugnare in agosto la città di Gorizia. Il 1917 si rivelò per l’Italia un anno drammatico. Tra il 23 e il 24 ottobre, l’Austria-Ungheria sferrò sul fiume Isonzo – con l’ausilio di alcune divisioni tedesche – un potente attacco contro le truppe italiane, stanche e sfiduciate dopo oltre due anni di guerra. Il fronte crollò a Caporetto (nell’odierna Slovenia) e gli austriaci dilagarono nella pia- Adi I LUSSEMBURGO Lussemburgo Sedan Aisne ise nn O Offensive alleate s Mo Laon Rouen Se Aquisgrana Liegi a Charleroi San Quintino D Direttrici dell’avanzata ttedesca (1914) Limite massimo dell’avanzata tedesca Maastricht no REGNO UNITO Dunkerque Dover Calais vano l’ordine di avanzare, le truppe si lanciavano in disperati attacchi verso la trincea avversaria, che distava poche centinaia di metri – a volte poche decine – ma le mitragliatrici falciavano inesorabilmente gran parte dei soldati e l’assalto falliva. Per esempio, nell’attacco tedesco al forte francese di Verdun (febbraio-dicembre 1916) caddero 800.000 uomini, mentre nell’assalto inglese sulla Somme (luglio-novembre 1916) fu sacrificato un milione di soldati. A oriente, il fronte si mantenne più mobile. La Russia perse nel 1915 la Polonia e la Lituania. La Serbia, le cui rivendicazioni erano all’origine della guerra, venne invasa e sconfitta, e anche la Romania, che si era affiancata all’Intesa, fu costretta dalla Germania alla resa. Francia e Regno Unito riposero grandi speranze in una spedizione navale contro l’Impero ottomano. Ma l’impresa fallì: sbarcate nella regione degli Stretti, le truppe alleate dovettero ritirarsi dopo mesi di cruenti combattimenti con i turchi. Un insuccesso si rivelò anche il tentativo tedesco di spezzare il monopolio avversario sui mari: le flotte di Germania e Regno Unito si affrontarono alla fine di maggio del 1916 nella battaglia dello Jütland, al largo della Danimarca, ma lo scontro si risolse in un nulla di fatto. Più efficace fu il blocco navale cui Regno Unito e Francia sottoposero la Germania per interrompere le indispensabili forniture di materie prime e beni alimentari. Le flotte di Londra e Parigi riuscirono a limitare l’afflusso di merci sul continente; Berlino rispose con assalti indiscriminati alle navi degli avversari, e giunse a colpire i mercantili dei paesi neutrali carichi di aiuti per l’Intesa. Questa strategia culminò con l’affondamento del transatlantico Lusitania, avvenuto nel maggio 1915 ad opera di un sommergibile U-20, che causò la morte di circa 1200 persone. Parte dei passeggeri era di nazionalità statunitense e l’evento si rivelò diplomaticamente disastroso per la Germania e contribuì a orientare in senso antitedesco l’opinione pubblica americana. rco 1915-1916: battaglie sanguinose e inutili Isa 1 o nz Gorizia Iso Ca Grado San Donà di Piave rs o Trieste Offensive austro-tedesche Fronte nell’ottobre 1917 Fronte nel dicembre 1917 © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 53 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento Kaunas Konigsberg Stettino Minsk Danzica Laghi Masuri Tannenberg IMPERO TEDESCO Bielostok IMPERO RUSSO Varsavia Lodz Breslavia Rovno Kiev Leopoli Cracovia Vienna IMPERO AUSTRO-UNGARICO Budapest 1917: la Rivoluzione in Russia e la discesa in campo degli Stati Uniti autodeterminazione dei popoli: è il diritto di ogni popolo di creare uno Stato che raccolga quanti appartengono, per lingua, cultura e tradizioni a un’unica comunità nazionale. Gli ultimi mesi di guerra sul fronte occidentale PAESI BASSI Bruges R E G NO U N ITO Dunkerque Dover Calais Boulogne Ypres Bruxelles B E LG I O Lilla So mm e Amiens 1870 Colonia Aquisgrana Liegi IMPERO s Mo LUSSEMBURGO TE Lussemburgo Sedan Laon Aisne Reims Château-Thierry Marna Linea della guerra di posizione Fronte nel luglio 1918 DESCO Saarbrücken Metz Verdun Strasburgo F R A N C I A Parigi Nancy Fronte nell’ottobre 1918 Épinal Friburgo Fronte nel novembre 1918 La fase finale del conflitto tra Austria e Italia I M P E RO S u d SVIZZERA Merano AUST RO- U N G A R ICO T i r o l o Pieve di Cadore Bolzano Marmolada 3343 Tren t i no Adamello Caporetto Belluno 3554 Vittorio Veneto Trento Rovereto Udine Fr iuli Monte Grappa Nervesa Pi av Lago di Garda Brescia V e n Vicenza e t e o Grado Ca rs o Trieste San Donà di Piave R E G N O D’ I T A L I A Verona Manifesto propagandistico americano che incita i giovani all’arruolamento. o nz Gorizia Iso Pordenone Asiago 1775 Adi ge Padova L’imperatore Carlo I d’Austria. © Loescher Editore – Torino 54 Offensive alleate O Magonza San Quintino se a Offensive tedesche O Arras Oi nn a Charleroi Rouen Se Anversa Maastricht Gand ge Adi decimazione: punizione inflitta per colpa gravissima a un reparto militare. Prevedeva la fucilazione di un soldato, estratto a sorte, ogni dieci. Il 1917 fu l’anno della svolta. La stanchezza serpeggiava fra le truppe di tutti gli eserciti: gli episodi di insubordinazione erano sempre più frequenti e non rari divennero anche diserzioni e ammutinamenti di interi reparti, che si rifiutavano di andare all’assalto anche sotto la minaccia della decimazione  . Anche le popolazioni civili, sottoposte a gravi privazioni economiche e alimentari, mostrarono una crescente ostilità alla guerra. Le manifestazioni di protesta aumentarono e crebbero anche gli scioperi in fabbrica, segnalando il rifiuto del conflitto che maturava in seno alla classe operaia. Le stesse frange socialiste contrarie alla guerra, riunitesi prima a Zimmerwald e poi a Kienthal (in Svizzera), lanciarono un appello alla pace senza vincitori e vinti, senza annessioni territoriali o pagamento di danni di guerra. Analogo appello contro «l’inutile strage» della guerra fu mosso dal papa Benedetto XV, ottenendo grande risonanza presso l’opinione pubblica dell’intero continente. In questo quadro, due eventi cambiarono radicalmente le prospettive del conflitto. In Nella primavera del 1918, gli Imperi centrali si impegnarono nella loro ultima, potente offensiva. A marzo, la Germania avanzò sul fronte occidentale, arrivando in giugno a minacciare nuovamente Parigi: ma ancora una volta venne fermata sulla Marna dalla resistenza anglo-francese. L’Intesa passò successivamente all’attacco e in agosto costrinse i tedeschi ad arretrare profondamente dopo la vittoriosa battaglia di Amiens. Il fronte dell’Intesa era inoltre rafforzato dalle truppe americane (giungevano in Europa oltre 300.000 soldati al mese) e dalle enormi quantità di beni alimentari, merci finite e materie prime che gli Stati Uniti presero a inviare agli alleati subito dopo la discesa in campo. Nell’evidente impossibilità della vittoria, il fronte interno tedesco si disgregò. La rivolta dilagò in tutta la Germania e il Kaiser Guglielmo II fu costretto ad abdicare fuggendo in Olanda. Il 9 novembre veniva proclamata la repubblica e due giorni dopo la Germania firmava l’armistizio. L’Austria-Ungheria lanciò in giugno una grande offensiva sul Piave, che venne però respinta dall’esercito italiano, risollevatosi dopo Caporetto e guidato ora dal generale Armando Diaz. Sostenuti dal fronte interno e uniti dall’urgenza della lotta difensi- va sul suolo patrio, gli italiani passarono al contrattacco e alla fine di ottobre, nella battaglia di Vittorio Veneto, costrinsero gli avversari alla rotta. L’armistizio fu firmato il 3 novembre nei pressi di Padova, dopo che l’esercito e la flotta italiani avevano occupato rispettivamente Trento e Trieste. Anche il sovrano asburgico Carlo I dovette abdicare e il 12 novembre l’Austria si proclamò repubblica, concedendo alle tante etnie dell’impero un’indipendenza di fatto che sarebbe poi stata sanzionata dai trattati di pace successivi alla guerra. La resa della Bulgaria e dell’Impero ottomano completarono la disfatta degli Imperi centrali. o Mar Baltico 1918: l’ultima offensiva degli Imperi centrali e la fine della guerra Re n Linea del fronte nel dicembre del 1914 Linea del fronte nel dicembre del 1917 Riga Russia crollò il potere degli zar: i bolscevichi di Lenin nel novembre di quell’anno si impadronirono del potere e decretarono l’immediata uscita della Russia dalla guerra. L’armistizio con gli Imperi centrali fu concluso nel dicembre dello stesso anno e la pace venne firmata il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk: la Russia perdeva la Polonia, i paesi baltici, la Finlandia, parte della Bielorussia e l’Ucraina, mentre Germania e Austria-Ungheria si trovarono finalmente libere dall’impegno su due fronti. Il 6 aprile 1917 erano però entrati in guerra gli Stati Uniti. Come affermò il presidente americano Woodrow Wilson, gli americani si schieravano a fianco dell’Intesa con lo scopo di ristabilire il diritto internazionale e di combattere il militarismo e l’autoritarismo degli Imperi centrali. Tali obiettivi, insieme al principio di autodeterminazione dei popoli  , erano al centro dei famosi Quattordici Punti che Wilson rese noti nel gennaio del 1918 e che gli valsero l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale. In essi si affermava che la nuova Europa sorta dalla guerra avrebbe dovuto essere democratica e pacifica e rispettosa delle nazioni: principi e valori del tutto opposti a quelli che avevano guidato la politica degli Stati europei nel periodo prebellico. [Testimonianze  documento 6, p. 72] Dotati di straordinarie risorse economiche e militari, gli Stati Uniti diventavano così protagonisti della scena politica mondiale. La Prima guerra mondiale rco Il fronte orientale all’uscita della Russia dalla guerra Isa 1 Venezia Offensive italiane Fronte nell’ottobre 1918 Fronte nel novembre 1918 © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 55 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento La Prima guerra mondiale Officina meccanica della Krupp AG, Essen, 1913. Manifesto inglese che invita all’arruolamento, 1914, Londra, Imperial War Museum. Rifugiati armeni che ricevono provviste di cibo. 3.4 Le caratteristiche della nuova guerra La guerra di massa   Album p. 62 Dossier 9 p. 408 Deportati armeni durante il genocidio, 1915-1916. La Prima guerra mondiale fu diversa da tutte le guerre che l’avevano preceduta ed ebbe un tale impatto sulla storia del Novecento da venire chiamata «Grande guerra». Essa fu innanzi tutto una guerra di massa. Gli eserciti mobilitarono decine di milioni di uomini, per la maggior parte contadini, che in questo modo per la prima volta vennero a contatto con luoghi, persone e idee nuove, acquisendo coscienza della propria importanza. Il numero delle vittime fu enorme: i principali paesi belligeranti subirono nel complesso circa 8.750.000 morti e oltre 20 milioni di feriti.  A Masse enormi vennero poi mobilitate sui fronti interni, nelle fabbriche e nei campi, per supportare lo sforzo di guerra. Alle popolazioni, che soffrirono ovunque ristrettezze e privazioni, vennero chiesti in nome della patria una adesione ideale e un impegno non inferiori a quelli dei soldati. Le donne uscirono dall’ambiente domestico, nel quale erano state fino ad allora relegate, per diventare protagoniste della produzione bellica. Il movimento per i diritti femminili conobbe allora un deciso balzo in avanti.  D9 Le popolazioni civili furono spesso vittime dirette dei combattimenti. I profughi si contarono a milioni e villaggi e città occupati furono spesso sottoposti a saccheggio. Spicca in questo quadro la terribile sorte che colpì gli armeni. Di religione cristiana, essi costituivano una cospicua minoranza etnica all’interno dell’Impero ottomano – musulmano – e rivendicavano l’indipendenza e la creazione di un proprio Stato. Nel 1915, con l’accusa di connivenza con le potenze dell’Intesa, i turchi procedettero alla loro sistematica deportazione verso il deserto siriano: gli stenti, i maltrattamenti e le uccisioni indiscriminate furono causa di un autentico genocidio. Secondo le stime più accreditate, le vittime furono circa un milione, su un totale di 1,5 milioni di armeni turchi. Fu la prima delle grandi stragi di civili che avrebbero caratterizzato la storia del Novecento. Le innovazioni tecnologiche e gli alti comandi La Grande guerra fu anche un trionfo della tecnologia bellica. Invenzioni già applicate alla vita civile, per esempio il motore a scoppio o il telefono, furono utilizzate per realizzare armi e dispositivi sempre più efficaci e letali: si possono ricordare il sottomarino, l’aeroplano, la mitragliatrice, i gas asfissianti, cannoni, esplosivi, comunicazioni più efficaci nel coordinare le truppe e prevedere le mosse nemiche. Tuttavia, non sempre i comandi militari seppero utilizzare appieno le potenzialità delle nuove tecnologie. Per questo motivo continuarono ad affidarsi a massicci – e inutili – assalti della fanteria contro le linee avversarie, praticamente ignorando le enormi potenzialità e la forza dirompente del carro armato, un nuovo veicolo a motore, corazzato e dotato di cingoli che gli permettevano di viaggiare su ogni terreno. Il carro armato era capace di superare ogni resistenza, ma fu utilizzato in formazioni compatte solo verso la fine della guerra: divenne allora facile espugnare le trincee apparse per quattro anni inviolabili e penetrare in profondità nel fronte nemico. La Grande guerra fu anche il conflitto che donò un potere senza precedenti agli alti comandi militari. Generali come Paul von Hindenburg in Germania, Douglas Haig nel Regno Unito e Joseph Joffre in Francia lavorarono fianco a fianco con i capi dei governi, imponendo spesso le loro decisioni al potere politico. In generale, inoltre, la Prima guerra mondiale determinò la crescita smisurata del potere e delle prerogative degli esecutivi a scapito dei parlamenti. La necessità di prendere decisioni importanti in tempi rapidi era una condizione incompatibile con la tradizionale – e necessariamente più lenta – discussione tra partiti all’interno delle Camere dei rappresentanti. Economia di guerra e propaganda In tutti i paesi coinvolti nella guerra, fu evidente la crescita dei poteri dello Stato. Essa si manifestò principalmente in due fondamentali campi della vita civile. In campo economico, le materie prime vennero sottoposte a controllo pubblico, i Vittime della Prima guerra mondiale Nazioni belligeranti Caduti Russia 1870 Dispersi 1.700.000 4.950.000 2.500.000 910.000 2.100.000 190.000 1.357.000 4.266.000 537.000 Italia 650.000 947.000 600.000 Stati Uniti 126.000 234.000 4.500 Serbia, Romania, Belgio, Grecia, Portogallo, Montenegro 408.000 341.000 286.000 Germania 1.773.000 4.216.000 1.152.000 Austria-Ungheria 1.200.000 3.620.000 2.200.000 Impero ottomano 325.000 400.000 250.000 87.000 152.000 27.000 8.536.000 21.226.000 7.746.500 Gran Bretagna Francia Bulgaria Totale © Loescher Editore – Torino 56 Feriti © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 57 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento riparazioni di guerra: poiché la responsabilità della guerra ricadeva sulla Germania, apparve logico caricarla nel 1919 del compito di «riparare» i danni provocati dal conflitto. Questo impedì per parecchi anni all’economia tedesca di riprendersi. beni alimentari furono razionati e venduti a prezzi imposti dal governo, le risorse produttive e la manodopera vennero concentrate forzatamente sugli obiettivi della guerra, in particolare sulla fabbricazione di armi. Interi comparti industriali – dal siderurgico al meccanico, al chimico – ebbero nello Stato il principale committente e conobbero uno sviluppo straordinario. Lo Stato stesso finì ovunque per dirigere gran parte dell’economia nazionale: un fenomeno che allontanava l’Europa dal liberismo ottocentesco e la lanciava sulla strada della pianificazione o programmazione pubblica della produzione. La necessità di coordinare gli sforzi del fronte interno determinò inoltre una riduzione delle libertà personali dei cittadini – in particolare della libertà d’espressione –, una limitazione della libertà d’azione degli oppositori della guerra – i «disfattisti» –, e la creazione di un capillare sistema di propaganda in favore del conflitto. Era necessario, infatti, produrre uno sforzo eccezionale per convincere le opinioni pubbliche nazionali a sostenere gli enormi sacrifici richiesti dalla guerra. Nacquero così uffici civili e militari appositi, incaricati di propagandare la bontà dello sforzo bellico presso soldati e popolazione. Era l’esordio di un campo nuovo, che nel corso del Novecento avrebbe assunto un’importanza fondamentale nella vita pubblica di ogni paese. Le dure clausole imposte alla Germania 3.5 La Conferenza di Parigi La dura punizione inflitta ai tedeschi La Conferenza di pace che si aprì a Parigi nel gennaio 1919 ebbe per protagonisti i vincitori della guerra: Lloyd George per il Regno Unito, Georges Clemenceau per la Francia e Woodrow Wilson per gli Stati Uniti e Vittorio Emanuele Orlando per l’Italia. I delegati dei paesi vinti non furono ammessi e alle potenze sconfitte vennero imposte condizioni particolarmente dure. I lavori procedettero speditamente e in pochi mesi si conclusero diversi trattati. Il Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919, attribuì alla Germania la responsabilità della guerra; il suo esercito e la sua flotta furono quasi azzerati, la riva destra del Reno venne smilitarizzata e quella sinistra occupata da truppe alleate. L’Alsazia e la Lorena tornarono alla Francia, lo Schleswig andò alla Danimarca, i vasti territori orientali della Posnania e dell’Alta Slesia passarono alla Polonia. Le miniere di carbone della Saar furono concesse in amministrazione per 15 anni al governo di Parigi, le colonie vennero spartite tra i vincitori e Berlino si vide imporre un debito di 132 miliardi di marchi-oro in riparazioni di guerra  : una cifra del tutto fuori dalla sua portata. Nel complesso, la Germania perse 70.000 chilometri quadrati di territorio e 6 milioni di abitanti. Queste durissime misure generarono tra i tedeschi rabbia e un sentimento di rivalsa che avrebbero gravemente pregiudicato le relazioni internazionali nei decenni seguenti. L’Austria, con il Trattato di Saint-Germain firmato il 10 settembre 1919, perse quasi per intero il territorio che componeva l’impero prima della guerra e fu ridotta a uno Stato di piccole dimensioni. Stessa sorte toccò alla Turchia, nata dalla dissoluzio- Il presidente americano Woodrow Wilson. La Prima guerra mondiale ne dell’Impero ottomano, confinata – se si esclude la capitale – alla sola penisola anatolica e gravemente penalizzata dal Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920. I suoi territori in Europa si ridussero praticamente alla sola città di Istanbul, mentre le regioni del Medio Oriente che avevano fatto parte dei domini della «Sublime Porta» furono affidate sotto mandato internazionale a Francia e Regno Unito. Le due potenze europee si spartivano così in zone d’influenza territori vastissimi e ricchi di giacimenti petroliferi. I nuovi Stati indipendenti L’Europa uscita dai trattati di pace era assai diversa da quella del 1914. Tre grandi imperi – Russia, Austria-Ungheria e Germania – erano crollati. La carta d’Europa fu ridisegnata e i vincitori applicarono il principio dell’autodeterminazione dei popoli, così come auspicato dal presidente statunitense Wilson. Fu decisa quindi la formazione di nuovi Stati nazionali secondo il criterio della tendenziale omogeneità di lingua e cultura: la Polonia, che risorgeva dopo le tre spartizioni settecentesche, e l’Ungheria, che si svincolava dalla tutela di Vienna. Furono inoltre create la Cecoslovacchia e la Iugoslavia, a coronamento degli sforzi serbi per unire i popoli slavi del sud, la Finlandia e i tre paesi baltici di Lettonia, Lituania ed W. Orpen, La firma della pace di Versailles, 1919, Londra, Imperial War Museum. Trattato di Versailles Riduzioni territoriali • cessione a Francia e Regno Unito delle colonie in Africa; • occupazione francese di Alsazia, Lorena e bacino minerario della Saar; • cessione della Posnania e dell’Alta Slesia alla Polonia; • cessione dello Schleswig alla Danimarca Limitazioni delle forze armate • riduzione dell’esercito a 100.000 uomini; • riduzione del numero delle navi da guerra; • proibizione di creare un’aviazione militare; • creazione di una zona «smilitarizzata» di 50 km sulla riva destra del Reno Risarcimenti • pagamento di enormi indennizzi alle potenze vincitrici; • cessione di ingenti quantità di materie prime e di prodotti industriali La cerimonia della firma del Trattato di pace a Parigi il 28 giugno 1919. © Loescher Editore – Torino 58 1870 © Loescher Editore – Torino 1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi 1895 I Lumière brevettano il cinematografo 1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright 1913 Ford introduce la catena di montaggio 1920 59 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento Estonia: questi ultimi quattro Stati acquistavano l’indipendenza dopo un plurisecolare dominio russo. Altre nazionalità non videro riconosciuto il diritto a darsi uno Stato. Inoltre, in diversi dei nuovi Stati persisteva il problema delle minoranze etniche. In Polonia, per esempio, insieme ai polacchi vivevano un milione di tedeschi e quattro milioni di ucraini. In Iugoslavia invece convivevano serbi, croati, sloveni, bosniaci e altre minoranze. Tutto questo avrebbe generato a breve nuove tensioni nel cuore d’Europa. p. 66 David Lloyd-George, Georges Clemenceau e Woodrow Wilson a Versailles per la Conferenza di pace, 1919. L’Italia e la «vittoria mutilata» L’Italia, rappresentata alla Conferenza di Parigi dal presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, ottenne Trento, con l’Alto Adige, Trieste e l’Istria. Non era poco, ma era meno di quanto previsto dal Patto di Londra del 1915. Quell’accordo riservava infatti al nostro paese una parte della Dalmazia (ora non più disponibile perché parte del nuovo stato iugoslavo), e un posto nella spartizione delle colonie tedesche. Roma chiese anche l’annessione della città di Fiume, abitata in prevalenza da italiani e di partecipare alla spartizione dei domini ottomani. Non trovando soddisfazione per queste richieste, Vittorio Emanuele Orlando abbandonò temporaneamente la Conferenza. Nacque allora in Italia il mito della «vittoria mutilata». Il completamento, con Trento e Trieste, dell’unità del paese non appariva più sufficiente: secondo i nazionalisti, la sofferenza e il sangue versato dagli italiani meritavano ben altra ricompensa. Anche in Italia, dunque, gli strascichi della Grande guerra erano destinati ad alimentare a lungo tensioni pericolose e destabilizzanti. 1914 Attentato di Sarajevo 1915 L’Italia entra in guerra 1916 Battaglie di Verdun e della Somme 1917 Rivoluzione in Russia; disfatta di Caporetto Quali furono le cause della Prima guerra mondiale? Lo scoppio della Prima guerra mondiale fu, per molti versi, una delle vicende meno spiegabili del Novecento. Una sorta di gioco d’azzardo politico-diplomatico che maturò nella convinzione che il conflitto sarebbe stato breve e poco dispendioso in termini sia economici che di perdite umane. In realtà, come abbiamo visto, fu costosissimo sotto entrambi gli aspetti. Se proviamo a paragonare le ragioni che portarono alla prima guerra con quelle che generarono la seconda, di cui parleremo tra qualche capitolo, emerge con chiarezza la nuvolosità e la carenza di vere motivazioni del conflitto del 1914. La Seconda guerra mondiale esplose per l’attacco della Germania nazista alla Polonia nel 1939; attacco che era stato preceduto da una lunga serie di violazioni diplomatiche e militari nel 1938, blandamente contrastate dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale fino all’inevitabile esito del nuovo conflitto. In estremo Oriente, l’attacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbor (1941) non poteva che scatenare la reazione militare degli Stati Uniti. Come si può vedere, nella tragedia degli eventi, si trattò di un processo lineare, di una classica successione di causa-effetto. 60 © Loescher Editore – Torino Ma le ragioni da cui scaturì la Grande guerra, invece, sembrano fragili, non lineari e il conflitto del tutto evitabile. La causa scatenante, l’attentato di Sarajevo, ci appare come una vicenda troppo isolata per giustificare l’incendio anche solo della polveriera balcanica. I rancori franco-tedeschi, la concorrenzialità commerciale tra Germania e Gran Bretagna, il ruolo della Russia di protettrice dei popoli slavi, l’ambizione italiana di ottenere le terre irredente (e qualcosa di più, magari) giustificarono un conflitto di tale portata? Ovviamente un ruolo centrale lo recitarono le patologie politiche dell’epoca, l’imperialismo e il nazionalismo. Tuttavia, sempre più numerosi storici insistono oggi sull’idea dello scivolamento involontario dei governi dell’epoca nel conflitto; sull’incapacità di mettere freno all’escalation bellica; sulla debolezza della diplomazia, usata più come una clava per colpire il nemico piuttosto che come mezzo per regolare i conflitti. La Prima guerra mondiale, insomma, è nata e si è autoalimentata non per la volontà lineare di una parte (come Hitler o il Giappone nazionalista nella Seconda guerra mondiale), ma per l’incapacità di tutti di tenerla fuori dalle opzioni praticabili. 1  Nell’estate 1914 scoppia la Prima guerra mondiale, che all’inizio vede contrapposte Austria-Ungheria e Germania a Russia, Francia e Regno Unito. Il 28 giugno 1914, un bosniaco di nazionalità serba uccise a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero asburgico. L’evento fece precipitare le tensioni internazionali, mettendo in moto il meccanismo delle alleanze contrapposte. L’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, al cui fianco si schierarono Russia, Francia e Regno Unito. Accanto all’Austria-Ungheria scese in campo la Germania. Entro l’inizio di agosto l’Europa era in guerra. In seguito nel conflitto sarebbero intervenute altre grandi potenze, come l’Impero ottomano e gli Stati Uniti. 2  1918 Wilson pubblica i Quattordici punti sull’autodeterminazione dei popoli I NODI DELLA STORIA La Prima guerra mondiale 1918 Sconfitta degli Imperi centrali L’Italia si tiene da principio fuori dal conflitto, ma nel maggio 1915 scende in campo a fianco della Triplice Intesa, contro i vecchi alleati della Triplice Alleanza. L’Italia, la legata dalla Triplice Alleanza ad Austria-Ungheria e Germania, si dichiarò neutrale: la maggioranza dell’opinione pubblica e del Parlamento era contraria a un ingresso in guerra. Gli interventisti, tra cui il re, i militari e il capo del governo Antonio Salandra, vedevano nel conflitto la possibilità di acquisire territori e prestigio internazionale. Alla fine di aprile del 1915, con la firma segreta del Patto di Londra l’Italia si legò all’Intesa e il 24 maggio Vittorio Emanuele III dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. 3  Nell’autunno 1918, dopo quattro anni di combattimenti e oltre otto milioni di morti, la Grande guerra si conclude con la sconfitta di Germania e Austria-Ungheria. La Prima guerra mondiale durò fino al 1918. I principali combattimenti si svolsero nella Francia nord-orientale e nell’Europa dell’est: fu una guerra di posizione e logorante, imperniata sul sistema delle trincee. Molte nuove tecnologie vennero impiegate, gli apparati industriali produssero al massimo e alle popolazioni civili furono imposti grandi sacrifici. Gli Stati giunsero a controllare buona parte dell’economia e ovunque crebbe il potere degli esecutivi e dei militari. La fine della guerra giunse per l’esaurimento della Germania e dell’Austria-Ungheria, che, prive ormai di soldati e armi, chiesero l’armistizio nel novembre 1918. 4  L’Italia rischia la sconfitta nel 1917 con la disfatta di Caporetto, ma batte gli austriaci nel 1918 e conquista la vittoria in guerra. L’esercito italiano si batté sulla linea dell’Isonzo e del Carso, e in Trentino, perdendo circa 650.000 uomini. Come sul fronte francese, si trattò di una guerra di posizione, segnata da inutili e sanguinosi assalti alle linee avversarie. Le battaglie maggiori furono però di movimento e si svolsero nell’ottobre 1917 con lo sfondamento austriaco a Caporetto e la ritirata italiana fino al Piave, e nell’ottobre 1918, con la vittoria italiana nello scontro di Vittorio Veneto. L’Austria-Ungheria chiese allora l’armistizio, firmato il 3 novembre 1918. 5  1919-1920 Trattati di pace 1920 Dissoluzione dell’Impero ottomano Con la pace, si dissolvono gli imperi asburgico, tedesco, russo e ottomano, mentre l’Italia ottiene dai trattati meno di quanto desiderato. I trattati di pace, firmati tra 1919 e 1920, furono molto duri per gli sconfitti. La Germania perse ampi territori, le sue forze armate vennero azzerate, il Kaiser abdicò e fu proclamata la repubblica. L’impero asburgico crollò e in Europa centro-orientale nacquero molti nuovi Stati, come Austria, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Ungheria. Intanto, nel 1917, in Russia lo zar era caduto sotto i colpi della rivoluzione comunista: anche l’ultimo grande impero europeo cessò così di esistere. Stessa sorte toccò all’Impero ottomano, dissoltosi e ridotto alla piccola Turchia. Ottenendo Trento e Trieste, l’Italia concluse il processo di unità nazionale cominciato col Risorgimento. Ma dalla guerra il nostro paese ottenne meno di quanto desiderato e nacque allora il mito della «vittoria mutilata», che avrebbe avuto profonda influenza sull’opinione pubblica nazionale negli anni seguenti. © Loescher Editore – Torino 61 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento La Prima guerra mondiale Dalle trincee ai monumenti della Grande guerra L’esperienza della Prima guerra mondiale costituì un trauma psicologico e sociale senza precedenti. I soldati sui diversi fronti europei (ed extraeuropei) erano stati costretti per lunghi anni, dal 1914 al 1918, a sperimentare una guerra per lo più di logoramento, combattuta all’interno di trincee e con armi moderne. Nel dopoguerra i governi e le istituzioni dei paesi vincitori e vinti dovettero affrontare l’eredità politica e simbolica della guerra, a cominciare dalla gestione del lutto per i milioni di morti che il conflitto aveva provocato. L’ossario di Douaumont. I monumenti I cimiteri di guerra In primo luogo, i morti dovevano essere sepolti con tutti gli onori e i vivi dovevano essere consolati della loro perdita. Con questo obiettivo, tra gli anni Venti e Trenta, furono costruiti innumerevoli cimiteri di guerra, concentrati soprattutto in prossimità dei campi di battaglia. In questi luoghi, destinati soprattutto al lutto privato, si susseguivano file interminabili di croci che ricordavano le vittime, disposte secondo un ordine rigoroso e marziale. Molto spesso si trattava di vittime anonime, perché non era stato possibile dare un nome ai corpi dei soldati caduti. I monumenti (sacrari o ossari soprattutto) sorsero in tutto il territorio nazionale e furono destinati al lutto pubblico: lo scopo era celebrare la vittoria militare, promuovere il culto della nazione, tributare l’omaggio ai combattenti e al loro sacrificio, imporre una memoria ufficiale della guerra. Attraverso imponenti opere architettoniche, che garantivano il riconoscimento del valore dei caduti, si attuava una ricomposizione della comunità tra chi aveva combattuto in prima linea e chi aveva vissuto l’esperienza bellica nelle retrovie o nella vita civile. A seconda della forma e dei soggetti rappresentati mutava il messaggio veicolato. L’ossario di Douaumont, nei pressi di Verdun, che ospita le spoglie di 130.000 caduti francesi e tedeschi, fu costruito nel 1920 e inaugurato soltanto nel 1932: la sua forma insolita di proiettile rievoca l’impugnatura di una spada, ormai conficcata nel suolo francese e così resa inoffensiva. A Redipuglia, vicino a Gorizia, fu inaugurato nel 1938 il più grande sacrario militare italiano, che contiene i resti di oltre 100.000 morti. La sua cifra essenziale è rappresentata dalla scalinata maestosa, in cui campeggia la scritta «presente» per ognuno dei 22 gradoni. Dettaglio dei gradoni del sacrario militare di Redipuglia. L’arco di Trionfo a Parigi, che ospita il monumento al Milite ignoto francese. Il «Milite ignoto» La guerra moderna di massa, che aveva coinvolto milioni di soldati e aveva lasciato migliaia di corpi senza riconoscimento, trovò la sua rappresentazione più efficace nel monumento al Milite ignoto, il combattente non identificato che si era sacrificato per la patria. In occasione dell’anniversario dell’armistizio, l’11 novembre 1920, furono l’Inghilterra e la Francia a rendere omaggio al simbolo di tutti i militari caduti. Il monumento trovò spazio all’interno di strutture già esistenti: i corpi dei Militi ignoti inglese e francese furono tumulati rispettivamente presso l’Abbazia di Westminster a Londra e l’Arco di Trionfo a Parigi. Il 4 novembre 1921 anche l’Italia seppellì con tutti gli onori il proprio Milite ignoto: a Roma, all’interno del Vittoriano, monumento già dedicato a Vittorio Emanuele II. Veduta del Hooge Crater War Cemetery presso Ypres in Belgio: un cimitero che accoglie i caduti inglesi che morirono durante le battaglie delle Fiandre nella Prima guerra mondiale. 62 © Loescher Editore – Torino Il Vittoriano a Roma, sede del monumento al Milite ignoto italiano. © Loescher Editore – Torino 63 1 3 L’Europa e il mondo nel primo Novecento Ragiona sul tempo e sullo spazio Impara il significato 1 4 ATTIVITÀ 2 Osserva le cartine alle pp. 48 e 126 e spiega quali sono le trasformazioni geopolitiche portate dalla Prima guerra mondiale. 1 Il 28 giugno viene firmato il Trattato di Versailles, che attribuisce alla Germania la responsabilità della guerra 2 Il 28 luglio l’Austria dichiara guerra alla Serbia; pochi giorni dopo la Germania dichiara guerra alla Russia e alla Francia 3 Il 10 settembre viene firmato il Trattato di Saint-Germain con il quale l’Austria viene ridotta a uno Stato di piccole dimensioni 4 Nel maggio gli austriaci avviano contro l’Italia la Strafexpedition, la «spedizione punitiva» contro l’alleato traditore 5 Nel gli austriaci, rinforzati da alcune divisioni tedesche, sfondano le linee italiane a Caporetto e dilagano nella pianura veneta 6 Il 3 marzo viene firmata la pace di Brest-Litovsk che segna la fine delle ostilità sul fronte orientale; una pace fortemente voluta dalla Russia bolscevica che, pur di mettere fine alle sofferenze della guerra, accetta la perdita di un immenso territorio 7 Il 6 aprile gli Stati Uniti entrano in guerra a fianco dell’Intesa, contro il militarismo e l’autoritarismo degli Imperi centrali 8 Nel gennaio si apre a Parigi la Conferenza di pace, che ha per protagonisti i vincitori della guerra; essa si conclude con la stesura dei trattati che dettano le condizioni ai paesi vinti 9 Il 28 giugno l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero d’Austria e Ungheria, e sua moglie Sofia sono assassinati a Sarajevo da uno studente nazionalista serbo 10 Il 24 maggio  , abbandonando l’iniziale posizione neutrale, l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nel periodo della Prima guerra mondiale. 1 2 3 4 5 6 7 8 Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento; poi distingui con tre colori diversi gli eventi riconducibili alle prime fasi della guerra, quelli che riguardano il suo svolgimento e quelli che si riferiscono alla conclusione del conflitto. 5 La Prima guerra mondiale Conflitto istituzionale Nazionalismo sciovinista Disfatta Diritto internazionale Genocidio Ammutinamento Autolesionismo Trincea Prova a riflettere sul significato di «profughi» e scrivi un esempio di profughi ai tempi della Prima guerra mondiale e di profughi ai giorni nostri. Osserva, rifletti e rispondi alle domande 6 Osserva la mappa concettuale relativa alla Prima Guerra mondiale. Poi rispondi alle domande. Le caratteristiche fondamentali del primo conflitto mondiale Esplora il macrotema 3 Completa il testo. Le motivazioni della Prima guerra mondiale vanno ricercate nella situazione di delicato equilibrio tra le potenze europee di inizio Novecento. L’attentato di Sarajevo, a seguito del quale l’Austria dichiara guerra alla (1) , non fa che esacerbare tali tensioni e finisce per mettere in movimento il sistema di alleanze contrapposte delle potenze (2) : gli «Imperi centrali» (Germania e Austria) e l’«Intesa» (Francia, Inghilterra, Russia). I motivi di ostilità tra i governi erano molti: la concorrenza per l’accaparramento dei (3) ancora colonizzabili, che aveva spinto a varare imponenti piani di riarmo; la competizione per la conquista dei (4) internazionali; il nazionalismo sciovinista. La guerra si conclude con la (5) degli «Imperi centrali», ai quali vengono imposte condizioni molto dure, e a seguito dei trattati l’Europa assume una fisionomia completamente differente: sono crollati gli (6) di Russia, Austria-Ungheria, Germania e Turchia e sono nati nuovi Stati nazionali. Tuttavia alcune (7) non vedono riconosciuto il diritto a darsi uno Stato e in diversi dei nuovi Stati rimane persistente il problema delle minoranze (8) ; l’Italia, dal canto suo, rimane delusa dall’esito delle (9) . Tutto questo non farà che alimentare nuove tensioni pericolose e destabilizzanti. 1 Perché fu «guerra di massa»? 2 Quali effetti ebbe la guerra sui poteri dello Stato? 3 Perché fu considerata una guerra ad alta intensità tecnologica? Mostra quello che sai 7 64 © Loescher Editore – Torino Osserva le immagini alle pp. 54 (in basso) e 56 (in alto): a chi si rivolgono questi manifesti? Quale tipo di richiesta formulano e quali sono le strategie di cui si avvalgono? © Loescher Editore – Torino 65 Documenti Diritti di libertà e diritti politici Secondo alcuni studiosi, la Prima guerra mondiale segnò una rottura storica: solo allora furono definitivamente seppelliti gli ultimi residui dell’Ancien régime. Nei paesi sconfitti crollarono i vecchi imperi e si aprì una fase costituente: al mutamento della forma di Stato, con la proclamazione della Repubblica, si accompagnarono Costituzioni che innovavano profondamente in direzione democratica la vita degli Stati. Fu quel che accadde in Germania e in Austria, ma anche per molti versi in Turchia. Il fondamento delle nuove Costituzioni era dunque il principio democratico: esse si fondavano sulla democrazia di massa pluralista, che oltrepassava il costituzionalismo classico avente le basi nello Stato di diritto e nel principio parlamentare. Le Costituzioni del primo dopoguerra, infatti, recepirono innanzitutto la piena affermazione dei diritti di libertà e dei diritti politici e li preservarono con una serie di garanzie per il loro esercizio. Quel passaggio non riuscì all’Italia: paese vincitore, ma ferito nelle proprie aspirazioni, non conobbe un passaggio verso la piena democrazia pluralista. Fu invece la dittatura fascista a guidare il passaggio alla dimensione di massa. Anche nei paesi sconfitti, la democrazia pluralista fu un fatto effimero. Travolte le nuove Costituzioni dall’ondata fascista e nazista, che imperversò in Europa fino alla Seconda guerra mondiale, il costituzionalismo democratico si riaffacciò prepotentemente nella fase di ricostruzione degli assetti europei nel secondo dopoguerra. In particolare, per l’Italia l’Assemblea costituente fu la prima esperienza di elaborazione condivisa del testo fondamentale. E tutte le culture politiche, pur in contrasto su molti temi e con sensibilità assai differenti, recepirono gli sviluppi del costituzionalismo novecentesco. La prima sottocommissione, della quale facevano parte alcuni tra i più eminenti deputati (Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro per i democristiani, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi e Nilde Iotti per il PCI, Lelio Basso per il PSI, Francesco De Vita per il PRI, Mario Cevolotto per il Partito democratico del lavoro, Roberto Lucifero e Giuseppe Grassi per il PLI), ebbe il compito «di elaborare i principi generali della nuova Costituzione nonché i diritti fondamentali delle libertà della persona umana». Non tutti in Assemblea costituente furono d’accordo sulla centralità acquisita dai principi affermati nella prima parte del testo. Alcune componenti, infatti, avrebbero preferito che i principi fondamentali, come nella Costituzione francese del 1946, fossero racchiusi in un preambolo da premettere alle norme vere e proprie dell’organizzazione dei poteri dello Stato. La soluzione che invece prevalse – fondata sulla centralità della prima parte del nostro testo fondamentale – dava ai diritti di libertà una rilevanza eguale alla regolazione dei diversi poteri dello Stato. La Costituzione si apre con i principi fondamentali, enunciati negli articoli che vanno da 1° al 12°, per poi passare ai diritti e ai doveri dei cittadini. Il titolo I si occupa dei rapporti civili, ovvero dei diritti di libertà, che coprono gli articoli 13-28. I rapporti politici sono regolati dal titolo IV, che comprende gli articoli 48-54. Si chiude con le disposizioni transitorie e finali, che in origine vietavano il ritorno in patria dei discendenti di casa Savoia e la ricostituzione del disciolto Partito fascista. Erano precedute dall’articolo 139, secondo il quale «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Con queste parole Piero Calamandrei, membro dell’Assemblea costituente, iniziò a spiegare ai giovani le caratteristiche principali della Costituzione italiana durante un incontro tenutosi a Milano nel 1955. La Carta entrata in vigore nel 1948 tratta dei diritti e dei doveri nella prima parte, articoli 13-54. 1 Quali sono i pericoli maggiori che possono condizionare il diritto di libertà? 2 Ti pare che certe iniziative intraprese in nome della sicurezza dei cittadini possano portare a limitazioni dei diritti sanciti dalla Costituzione? 66 © Loescher Editore – Torino 1. Lo Statuto Albertino del 1848 e la Costituzione della Repubblica del 1948 Si mettono a confronto alcuni articoli dello Statuto Albertino del 1848, divenuto con l’unità italiana, la legge fondamentale dello Stato, e della Costituzione democratica del 1948, relativamente ai diritti di libertà. Nel primo essi sono meramente enunciati, nella seconda sono affermati e tutelati da prescrizioni circostanziate alle quali il legislatore non può sottrarsi. Art. 24. [Statuto Albertino] – Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi. Art. 3. [Costituzione della Repubblica] – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 26. [Statuto Albertino] – La libertà individuale è guarentita. Art. 13. [Costituzione della Repubblica] – La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Art. 28. [Statuto Albertino] – La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Art. 21. [Costituzione della Repubblica] – Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. 2. I diritti La formulazione del termine «diritti» fatta da Giuliano Amato. L’obiettivo di fondo del costituzionalismo moderno di questo secondo dopoguerra – sul quale si è verificata e almeno sino ad ora rinnovata, una convergenza tra le diverse forze sociali e politiche ammesse alla competizione nello Stato democratico e pluralista – può essere sintetizzato nel tentativo di sottrarre alla politica, come volontà della maggioranza, e all’economia, come risultato del confronto fra le proprietà e le iniziative private, il diritto per ciascun individuo di condurre un’esistenza nel contempo libera e dignitosa. Ogni uomo, indipendentemente dalle ragioni del calcolo economico e dei caratteri dell’indirizzo politico che di volta in volta si afferma come prevalente, deve essere posto nella condizione di poter realizzare nella maniera più piena lo sviluppo della propria persona. A tal fine la maggior parte delle Costituzioni contemporanee vigenti nell’Europa continentale, e tra queste in maniera esemplare quella italiana, riconoscono come patrimonio, pre dato, di ogni individuo, un complesso arcipelago di libertà civili e di pretese a non essere escluso dai diversi luoghi sociali nei quali e mediante i quali il singolo si fa appunto persona e si realizza come persona. Attraverso le prime, tradizionalmente definite «libertà negative», o «libertà da», al cittadino viene riconosciuta, nei confronti dello Stato in tutte quante le sue manifestazioni, e nei confronti degli altri individui, una sfera di autonomia privata, in linea di principio, intangibile. Attraverso le seconde, che potremmo anche definire «libertà positive» o «libertà di», al cittadino è invece riconosciuta la pretesa di partecipare alla vita politica, economica e sociale della comunità. Nel riconoscimento di questi diritti si può constatare il superamento della concezione individualistica propria del pensiero liberale dell’Ottocento. G. Amato, I diritti, in L. Violante (a cura di), Dizionario delle istituzioni e dei diritti del cittadino, Roma, Editori Riuniti, 1996 © Loescher Editore – Torino 67 Documenti Diritti sociali Il primo articolo della Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» – scaturì da una discussione appassionata nell’aula di Montecitorio. Il testo proposto dalla Commissione predisposta per elaborare il testo costituzionale era differente: più lungo – si componeva infatti di tre commi – e meno espressivo rispetto alla stesura definitiva. Questa fu proposta dal democristiano Amintore Fanfani e prevalse rispetto a quella avanzata dai socialisti e dai comunisti («L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori»). La formulazione avanzata da Fanfani prevalse anche su quella suggerita dal repubblicano-azionista Ugo La Malfa per conto della sinistra democratica. Quest’ultima recitava: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro». Il coniugare diritti di libertà e diritti del lavoro riprendeva il binomio giustizia e libertà, che aveva animato negli anni della dittatura l’antifascismo democratico. Il leader comunista Palmiro Togliatti la giudicò troppo astratta. Tutte e tre le proposizioni intendevano comunque affermare una dimensione includente e pluralista. La sovranità era fondata sull’insieme dei cittadini, che la delegavano ai propri rappresentanti secondo le regole fissate dalla Costituzione. Inoltre tutte e tre le formule ricercavano la dimensione sociale, esplicitamente affermata nelle principali Costituzioni del secondo dopoguerra, da quella francese del 1946 alla legge fondamentale tedesca del 1949. Il bisogno di riconoscere la dignità eguale degli esseri umani non solo in quanto cittadini ma in quanto attivi artefici con il loro lavoro, qualunque esso fosse, del benessere della comunità e, soprattutto, di sottolineare la dimensione sociale dell’economia, non era frutto di un pregiudizio ideologico, ma nasceva dalla dura esperienza dei tempi. L’Europa e gli Stati Uniti prima della guerra mondiale erano stati attraversati da una devastante crisi economica che aveva gettato sul lastrico milioni di uomini, aveva provocato una spaventosa disoccupazione e non era stata estranea all’affermarsi del nazismo nel cuore dell’Europa. Dopo quella catastrofe, il ruolo dello Stato nella regolazione dell’economia si era generalmente affermato e si era rivelato uno stimolo alla ripresa economica. La Costituzione riprendeva quindi i principi affermatisi dopo la crisi seguita al crack del 1929. Li possiamo riassumere nel riconoscimento del primato dell’economia di mercato, che, però, necessitava di regole per operare a beneficio dei più, condizione imprescindibile di una democrazia effettiva. Entro questa cornice culturale, nel secondo dopoguerra si verificarono il «miracolo economico» e la effettiva trasformazione dell’Europa e dell’Italia in paesi di economia avanzata. Recita l’articolo 41: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». E l’articolo 42 stabilisce: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità». Nelle democrazie moderne, soprattutto in quelle nate in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, i diritti sociali derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status passando così dal concetto di assicurazione sociale a quello di sicurezza sociale, fornendo un Welfare (termine inglese che indica appunto lo Stato sociale) che si propone di garantire a tutta la popolazione degli standard di vita qualitativamente più elevati. 1. Lo sforzo dei «padri» della Costituzione italiana per cercare di ridurre le distanze tra le classi sociali I costituenti cercarono di riversare negli articoli della Carta costituzionale il frutto delle lotte e delle conquiste sociali della prima metà del XX secolo. Un’analisi dello storico Luciano Canfora. L’economista Fanfani, la cui matrice culturale era stata l’Università Cattolica di padre Gemelli (dunque un epicentro del clerico-fascismo), ora costituente e collocato nella sinistra del suo partito, propugna il «controllo sociale della vita economica» onde «agevolare lo sviluppo della persona». Un grande costituzionalista italiano, che fu tra gli artefici della Costituzione emanata il 1° gennaio 1948, Piero Calamandrei, definì efficacemente questo genere di carte costituzionali nate dopo la fine dei fascismi. Osservò, e si riferiva in particolare a quella italiana – che sono testi «polemici». E ciò per la ragione, evidente alla lettura dei «principi fondamentali», che esse mettono in discussione l’ordine sociale esistente. Una vera «rivoluzione» nella storia del pensiero costituzionale e nella prassi. L’articolo «eversivo» per eccellenza è il terzo della Costituzione italiana, elaborato da Lelio Basso. Esso dice: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». A buon diritto Lelio Basso lo ha definito, trent’anni dopo, quando era ormai chiara la distanza tra questa norma e la concreta vicenda della storia repubblicana, «l’articolo chiave di tutta la Costituzione, l’articolo fondamentale, l’articolo perno». E commentava: «questo articolo afferma che non c’è democrazia finché sussistono disuguaglianze economiche e sociali». […] Esso costituisce una novità assoluta. È la nozione di «rimuovere gli ostacoli» come «compito della Repubblica» l’elemento totalmente nuovo, unico rispetto anche alle coeve carte costituzionali antifasciste. L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004 2. I diritti di partecipazione politica e sociale. Una formulazione dell’espressione «diritti sociali» fatta da Giuliano Amato. La Costituzione riconosce anche diversi diritti di libertà che si esercitano essenzialmente in comune con gli altri. Tra questi, in primo luogo, oltre alla stessa libertà religiosa, la libertà di riunione (art. 17) e la libertà di associazione (art. 18). Tutti i cittadini, in maniera pacifica e senz’armi, possono liberamente riunirsi tra loro, per qualsiasi motivo, senza chiedere alcuna autorizzazione. Tuttavia, per le riunioni che si svolgono in un luogo pubblico, come ad esempio una strada, una piazza, o comunque qualsiasi luogo che per sua natura o volontà di legge sia accessibile a tutti, gli organizzatori devono darne preavviso all’autorità di pubblica sicurezza. […] Sempre nell’ambito dell’indirizzo fondamentale che ispira il riconoscimento di tutti quanti i diritti che abbiamo fin qui trattati – e che si potrebbe riassumere nell’aspirazione ad assicurare ad ogni individuo le condizioni per realizzare nella maniera più piena lo sviluppo della propria persona – il costituzionalismo europeo di questo secolo, in maniera coerente alla proclamazione dell’uguaglianza giuridica, e all’immagine di uomo presupposta, si preoccupa però anche e soprattutto delle precondizioni materiali: all’individuo debole, malato, indigente, disoccupato, vecchio o comunque involontariamente escluso dalla possibilità di condurre una vita degna e di esercitare concretamente quelle libertà civili, politiche e sociali che gli vengono formalmente riconosciute, spetta, in particolare, in quanto uomo e in quanto membro della comunità politica, il diritto di ricevere un insieme di prestazioni e risorse economiche sufficienti a consentire la propria (re)integrazione attiva. Al cittadino malato che non può permettersi l’acquisto a prezzo di mercato delle cure necessarie, spetta il diritto di riceverle gratuitamente (art. 32). G. Amato, I diritti, in L. Violante (a cura di), Dizionario delle istituzioni e dei diritti del cittadino, Roma, Editori Riuniti, 1996 1 Credi che la prospettiva di un reale progresso verso una società più rispettosa dei diritti sociali meriti l’impegno da parte di ciascuno? 2 Senti che questo possa valere anche per te nel tuo ambito oggi e in futuro? In che modo? 68 © Loescher Editore – Torino © Loescher Editore – Torino 69 Testimonianze Documento 1 Testimonianze Il diffondersi della moda nel vestire differenzia la Belle époque dal passato (capitolo 1) La maggiore disponibilità di denaro, l’aumento dei consumi e la possibilità di volgersi per la prima volta a beni non essenziali coinvolsero tra Ottocento e Novecento tutte le classi sociali, seppure in misura differente. Uno dei risultati di questo straordinario cambiamento fu il diffondersi della moda nel vestire. Il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel indagava tale fenomeno con grande acutezza già nel 1911, notando come le mode variassero da ceto a ceto e come riguardassero prima di tutto le donne. La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. Se da un lato questo risultato le è possibile con il cambiamento dei contenuti che caratterizza in modo individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di quella di domani, la ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di classe, che le mode della classe più elevata si distinguo- no da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie. […] Che la moda sia un puro prodotto di necessità sociali o psicologico-formali è provato nel modo più convincente dal fatto che infinite volte non si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a finalità pratiche o estetiche o di altro tipo. Mentre in generale il nostro abito è praticamente adatto alle nostre necessita, nelle decisioni della moda per dargli forma non c’è traccia di utilità pratica: come quando si stabilisce se si debbono portare gonne larghe o strette, capelli lunghi o corti, cravatte nere o a colori. […] Se la moda porta a espressione e accentua l’impulso all’eguaglianza e quello all’individualizzazione, il fascino dell’imitare e quello del distinguersi, si può forse spiegare perché in generale le donne dipendano particolarmente dalla moda. […] La moda offre loro una felice combinazione: da un campo di imitazione generale, un nuotare nella più ampia corrente sociale, una liberazione dell’individuo dalla responsabilità del suo gusto e delle sue azioni, dall’altro una distinzione, un’accentuazione, un ornamento individuale della personalità. Documento 3 Il pensiero di Giovanni Giolitti sulla «questione sociale» (capitolo 2) Nel 1922, pochi anni prima di morire, Giovanni Giolitti rilasciò alle stampe le Memorie della mia vita, in cui tornava con dovizia di particolari sulla sua carriera politica e sui principi ispiratori della sua azione. In questo brano, l’uomo politico piemontese spiega quale approccio ebbe con la «questione sociale», fin dai tempi in cui fu ministro dell’Interno di Zanardelli: dialogo con le classi lavoratrici per la pace e il benessere dell’Italia. Per la politica interna io ritenevo arrivato il momento di avviarsi ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici. […] Io pensavo […] che fosse già arrivato il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche, di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano cominciato, tanto nelle grandi città industriali che qua e là nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire […]. Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche allo Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché benevolo da parte del governo, il cui compito invece avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini. […] Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell’uguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte d’influenza sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire […]. Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta […] si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione. […] Il governo non aveva che due doveri, quello di mantenere l’ordine pubblico ad ogni costo e quello di garantire nel modo più assoluto la libertà del lavoro. G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti 1995 G. Simmel, La moda, Milano, Mondadori 1998 Documento 2 L’organizzazione scientifica del lavoro secondo Taylor (capitolo 1) Frederick Taylor pubblicò L’organizzazione scientifica del lavoro nel 1911 e in essa spiegò come adattare le mansioni dell’operaio allo scopo di ottenere da lui «il più alto rendimento». Obiettivo non secondario della nuova organizzazione di fabbrica era, per Taylor, promuovere un coinvolgimento maggiore dell’operaio nelle scelte dell’azienda e corresponsabilizzarlo. I fatti avrebbero in realtà dimostrato che la nuova suddivisione del lavoro accresceva, e non diminuiva, l’alienazione e l’insoddisfazione del salariato. Primo. Chi dirige deve eseguire, per ogni operazione di qualsiasi lavoro manuale, uno studio scientifico, che sostituisca il vecchio procedimento empirico. Secondo. Deve selezionare la mano d’opera con metodi scientifici, e poi prepararla, istruirla e perfezionarla, mentre nel passato ogni individuo sceglieva per proprio conto il lavoro e vi si specializzava da sé come meglio poteva. Terzo. Deve cordialmente collaborare con i dipendenti, in modo da garantire che tutto il lavoro venga eseguito in osservanza ai principi stabiliti. Quarto. Il lavoro e la relativa respon- sabilità sono ripartiti in misura quasi uguale fra la direzione e la mano d’opera; chi ha mansioni direttive si assume quei compiti per i quali è più adatto dei lavoratori, mentre in passato quasi tutto il lavoro e la maggior parte della responsabilità venivano fatti pesare sulla mano d’opera. È questa concomitanza della iniziativa della mano d’opera coi nuovi compiti assolti dalla direzione che rende l’organizzazione scientifica tanto più efficiente del sistema tradizionale. […] Ogni lavoratore, dal momento che rappresenta uno degli elementi che influiscono su questa accresciuta produttività, viene sistematicamente preparato perché possa raggiungere il più alto rendimento ed eseguire un lavoro di maggior levatura di quanto fosse in grado di compiere nel sistema organizzativo tradizionale. Al tempo stesso egli acquista un’attitudine più amichevole verso i datori di lavoro e il complesso delle condizioni di lavoro, mentre prima gran parte del suo tempo era impiegata in opera di critica, in sospettosa vigilanza e talvolta in atteggiamenti apertamente ostili. Cotesto guadagno diretto per tutti coloro che lavorano con il sistema moderno è senza dubbio l’elemento più importante dell’intero problema. Documento 4 Il «ministro della malavita» nelle parole di Gaetano Salvemini (capitolo 2) Gli storici attribuiscono a Giovanni Giolitti molti meriti nella modernizzazione d’Italia. Ma alcuni suoi contemporanei diedero di lui giudizi meno lusinghieri o addirittura negativi. Tra i suoi più implacabili avversari ci fu all’inizio del Novecento il meridionalista Gaetano Salvemini. Egli accusava il presidente del Consiglio di mantenere scientemente il Mezzogiorno d’Italia in condizione di grande arretratezza, prima di tutto politica. E di praticare senza scrupoli brogli e violenze elettorali, pur di legare a sé i deputati meridionali. Per questo Salvemini chiamò Giolitti il «ministro della malavita». Nelle lotte elettorali di tutti i tempi e di tutti i luoghi è sempre avvenuto e sempre avverrà che gli elementi peggiori di ciascun partito pensino di sopraffare gli avversari con la violenza e con la corruzione, quando i mezzi legittimi di vittoria manchino, o siano insufficienti, o appaiano di esito incerto. E quanto più agevole e fruttifero si presenta l’impiego dei metodi elettorali malsani, tanto più forte deve essere la tentazione di adoperarli. Ora, un corpo elettorale poco numeroso è fatto apposta per allettare i partiti alla prepotenza e alla frode. Quando gli elettori sono scarsi, il segreto del voto è una finzione: ogni partito riesce facilmente a comporre l’anagrafe completa ed esatta degli amici sicuri, dei nemici inflessibili e della massa incerta. Basta allora comprare qualche centinaio d’incerti e bastonare qualche centinaio di avversari: e la elezione è fatta. Questo è il caso dell’Italia meridionale […]. Affinché questo possa avvenire, è necessaria la complicità del governo. Ed ecco dove incominciano le responsabilità personali e consapevoli dell’onorevole Giolitti. Il quale approfitta delle miserevoli condizio- ni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali: dà a costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni a loro servizio la mala vita e la questura; assicura ad essi e ai loro clienti la più incondizionata impunità. […] Nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d’Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato nelle elezioni del Mezzogiorno di ogni sorta di violenze e reati. G. Salvemini, Il ministro della malavita, Torino, Bollati Boringhieri 2000 F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Etas Kompass 1967 70 © Loescher Editore – Torino © Loescher Editore – Torino 71 Interpretazioni Testimonianze Documento 5 26 aprile 1915: il Patto di Londra porta l’Italia in guerra (capitolo 3) Alla fine dell’aprile 1915, il governo italiano firmò un accordo diplomatico, il cosiddetto Patto di Londra, con il quale si impegnava a entrare in guerra entro un mese. Il nostro paese avrebbe imbracciato le armi a fianco di Francia, Regno Unito e Russia contro l’Austria-Ungheria. Il Patto era segreto e il suo testo fu portato a conoscenza del Parlamento italiano solo nel 1920. Ecco i principali articoli di questo eccezionale documento storico. Art. 2 – Da parte sua, l’Italia si impegna ad impiegare la totalità delle sue risorse nel perseguire la guerra in comune con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici. […] Art. 4 – Nel trattato di pace, l’Italia otterrà il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua frontiera geografica e naturale (la frontiera del Brennero), e inoltre Trieste, le contee di Gorizia e di Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro […]. Art. 5 – L’Italia otterrà ugualmente la provincia di Dalmazia nei limiti am- ministrativi attuali. […] Essa otterrà inoltre tutte le isole situate a Nord e ad Ovest della Dalmazia […]. Art. 6 – L’Italia riceverà l’intiera sovranità su Valona, l’isola di Sasseno […]. Art. 8 – L’Italia riceverà l’intiera sovranità sulle isole del Dodecanneso che essa occupa attualmente. Art. 9 – In una maniera generale, la Francia, la Gran Bretagna e la Russia riconoscono che l’Italia è interessata al mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo e che essa dovrà, in caso di spartizione totale o parziale della Turchia d’Asia, ottenere una parte equa nella regione mediterranea finitima alla provincia di Adalia […]. Art. 11 – L’Italia riceverà una parte corrispondente ai suoi sforzi e ai suoi sacrifici nell’indennità di guerra eventuale. […] Art. 13 – Nel caso che la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i loro domini coloniali d’Africa a spese della Germania, queste due Potenze riconoscono in principio che l’Italia potrebbe esigere qualche equo compenso […]. E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, ISPI, Milano 1941 Documento 6 I Quattordici Punti di Wilson: una svolta nella politica internazionale (capitolo 3) Il 1918 si aprì con l’enunciazione, da parte del presidente americano Wilson, dei Quattordici Punti del suo programma di pace. In essi, il presidente proponeva la soluzione di molti e puntuali problemi territoriali europei, ma poneva anche importanti questioni di principio e di libertà. Il documento appariva lontano dalla realtà della politica di potenza europea e forse proprio per questo i Quattordici Punti divennero immediatamente la bandiera di un nuovo idealismo pacifista e democratico. 1. Pubblici trattati di pace, conclusi apertamente […]. 2. Libertà assoluta di navigazione sui mari, al di fuori delle acque territoriali, sia in tempo di pace che in tempo di guerra […]. 3. Soppressione, nei limiti del possibile, di tutte le barriere economiche […]. 4. Garanzie sufficienti […] che gli armamenti nazionali saranno ridotti all’estremo limite compatibile con la sicurezza interna del paese. 5. Composizione libera […] di tutte le rivendicazioni coloniali, fondata sul […] principio che […] gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere ugual peso delle domande eque del governo richiedente. 6. Evacuazione di tutti i territori rus- si e regolamento di tutte le questioni concernenti la Russia […]. 7. Il mondo intero sarà d’accordo che il Belgio debba essere evacuato e restaurato […]. 8. […] Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, per quanto concerne l’Alsazia-Lorena, […] dovrà esser riparato […]. 9. Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10. Ai popoli dell’Austria-Ungheria […] dovrà essere data […] la possibilità di uno sviluppo autonomo. 11. La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno essere evacuati; saranno ad essi restituiti quei loro territori che sono stati occupati. […] Garanzie internazionali di indipendenza politica, economica e di integrità territoriale saranno fornite a questi Stati. 12. Alle parti turche del presente Impero ottomano saranno assicurate pienamente la sovranità e la sicurezza, ma le altre nazionalità che vivono attualmente sotto il regime di questo Impero devono, d’altra parte, godere una sicurezza certa di esistenza e potersi sviluppare senza ostacoli […]. 13. Uno Stato polacco indipendente dovrà essere costituito […]. 14. Una Società Generale delle Nazioni dovrebbe esser formata in virtù di convenzioni formali aventi per oggetto di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati. E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, ISPI, Milano 1941 72 © Loescher Editore – Torino Gli ebrei sono esclusi dal Volk, comunità germanica di terra e sangue (capitolo 1) Tra le conseguenze di maggiore impatto della ventata nazionalista che nella Belle èpoque investì i paesi europei ci fu la recrudescenza del tradizionale antisemitismo del Vecchio Continente e in particolare in Germania. George Lichtheim rileva come il nuovo antisemitismo tedesco si nutrisse della mitologia del «Volk», la comunità di popolo che doveva forzatamente escludere chiunque non avesse le sue stesse radici di terra e sangue: quindi, in primo luogo, proprio gli ebrei, visti come incarnazione del capitalismo e del liberalismo moderni e nemici della tradizione. [La classe media] si considerava come la custode dei valori e dei sentimenti minacciati dall’afflusso del razionalismo, del liberalismo, del laicismo e del materialismo occidentali. […] Ciò che sognavano era un ritorno al Volk dell’era premoderna. Volk è un termine più pregnante di popolo: significa una specie di cosmo spirituale che risale, in definitiva, al legame dell’uomo con i suoi antenati e, attraverso questi, con l’ambiente naturale in cui la comunità del Volk originaria acquisì la sua essenza caratteristica. Da questi sentimenti vaghi alla nozione che le varie caratteristiche del Volk erano non soltanto uniche ma incomunicabili ed eternamente inacces- sibili ad altri, il passo era breve. […] Per quanto riguarda gli ebrei, questo cambiamento significò che gli oratori antisemiti sostituirono all’accusa tradizionale di deicidio gli appelli al sangue e alla terra. Per definizione, gli ebrei non erano membri della comunità del Volk, e poiché si riteneva che lo Stato fosse un’emanazione del Volk, ne conseguiva che essi non potevano invocare un eguale diritto di cittadinanza. […] L’ossessione della politica tribale finì per determinare gradualmente una mentalità del tutto irrazionale, che si aggrappò alle evidenti connessioni tra il liberalismo politico, la comunità ebraica e il capitalismo moderno. Poiché erano pionieri del capitalismo e, insieme, del liberalismo (e in seguito anche del socialismo), gli ebrei si esponevano all’accusa di minare alla base la coesione tribale del Volk. […] L’impero germanico si avventurò nell’espansione nazionale con un’ideologia che rendeva impossibile la pace, perché la varietà moderna dell’imperialismo si sovrapponeva ad una base assai più antica, che risaliva ai tempi in cui i germani costituivano lo Herrenvolk, o razza sovrana, dell’Europa centrale. Il razzismo divenne perciò un ingrediente di grande importanza nella concezione politica tedesca. G. Lichtheim, L’Europa nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998 Il pangermanismo e l’allontanamento degli ebrei dalla vita pubblica tedesca (capitolo 1) Lo storico George Mosse, nel tracciare le linee fondamentali della storia della Lega pangermanica, racconta che Heinrich Class, a lungo guida del movimento, lanciò nel 1908 una forte campagna antiebraica. Gli israeliti erano da lui considerati un corpo estraneo alla nazione tedesca e dovevano essere in ogni modo allontanati dalla vita pubblica. I pangermanisti […] facevano propri gli ideali nazional-patriottici, pretendevano cioè che in Germania si addivenisse ad un’unificazione effettiva, razziale e culturale, capace di assicurare al Geist tedesco un ruolo di primo piano nella Kultur come nell’ambito sociale e politico. […] Poco dopo l’assunzione dell’incarico, Class provvide a rendere nota la propria posizione ideologica in un libro a larga tiratura, intitolato Wenn ich der Kaiser wär («Se io fossi l’imperatore»), pubblicato nel 1912, dove uno dei punti fondamentali era la dichiarata aspirazione a una dittatura, che avrebbe attuato la società ideale, incarnazione dell’«eterno Volk». Le uniche limitazioni che si dovevano porre alla volontà del dittatore sarebbero venute da un Parlamento d’élite, composto ed eletto da aristocratici per nascita, grandi proprietari terrieri e uomini che avessero reso segnalati servizi allo Stato. […] A partire dal 1908, Class propose una decisa campagna antiebraica, accusando gli israeliti di essere i veicoli del materialismo moderno e quindi i nemici della sostanza spirituale germanica. […] Avrebbe voluto non solo che lo Stato ponesse limiti all’immigrazione di Ebrei, ma anche che le attività culturali e professionali de- gli israeliti nati in Germania fossero sottoposte a restrizioni: si sarebbe dovuto escluderli dall’insegnamento, dall’attività bancaria e dai pubblici uffici, e vietar loro il possesso di terre. Inoltre, sulle loro persone e proprietà avrebbero dovuto gravare imposte doppie rispetto a quelle degli altri cittadini. Proscritta andava anche la loro attività in campo teatrale nonché quella di pubblicazione e redazione di riviste letterarie, notevolmente aumentate di numero negli ultimi due decenni del XIX secolo; i giornali, che contassero ebrei tra i loro collaboratori, poi, avrebbero dovuto, nella testata, portare la stella di Davide. G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968 © Loescher Editore – Torino 73 Interpretazioni Interpretazioni Tempi, settori produttivi e localizzazione dello sviluppo industriale italiano (capitolo 2) I nazionalisti italiani sono per una nuova Italia, forte e autoritaria potenza europea (capitolo 3) In questo passo, lo storico Massimo Salvadori delimita il decollo dell’industria italiana nei settori produttivi e nei luoghi: nei settori siderurgico, meccanico, elettrico, chimico e tessile, e nel Settentrione del paese, con ulteriore allargamento del divario socio-economico che già separava il Nord dal Sud. Giancarlo Lehner sostiene che l’obiettivo ultimo dei nazionalisti italiani fosse quello di riportare l’Italia, dopo l’epoca giolittiana, a un governo forte e capace di imporsi con autorità sulle diverse classi sociali. La guerra, con la sua urgenza di coesione e obbedienza, si presentava come strumento perfetto di tale disegno. I progressi furono assai rilevanti nel campo della siderurgia e della meccanica, e in quello «nuovo» dell’industria elettrica; e proprio in questi settori, […] l’intervento del capitale bancario fu specialmente largo. L’industria siderurgica […] acquistò rapidamente la fisionomia di un potentissimo trust […] che prosperava sulle commesse anzitutto dello Stato (ferrovie, navi, armamenti). L’industria meccanica […], assai forte nel campo delle macchine pesanti (locomotive, motori per navi ecc.), rimase piuttosto debole nel settore delle macchine utensili, delle macchine agricole ecc. […]. Un notevolissimo slancio ebbe l’industria automobilistica, concentrata soprattutto a Torino. Ma ben presto, fra le varie industrie del settore […] la Fiat […] acquistò una netta preminenza. Nel 1908, a Ivrea, sorse un’altra fabbrica, di macchine da scrivere, destinata a un grande avvenire, fondata da Camillo Olivetti. L’industria […] elettrica […] suscitò esagerate speranze, alimentate dall’incidenza che sul passivo della bilancia dei pagamenti aveva l’importazione del carbone dall’estero. […] Comunque i progressi […] furono notevoli: dai circa 100 milioni di chilowattora del 1898 si passò nel 1914 a 2575 milioni, cifra peraltro assolutamente insufficiente al fabbisogno. Un settore in grande crescita fu anche quello dell’industria chimica, che aumentò molto la produzione specie di fertilizzanti, di materiale elettrico e di prodotti di gomma […]. Fra le industrie tessili, quella del cotone fu la più dinamica, mentre minori progressi conobbero l’industria laniera e l’industria della seta (quest’ultima, anzi, verso il 1907 iniziò una netta discesa). […] Nel periodo giolittiano i progressi dell’industria contribuirono ad accentuare i divari territoriali non solo fra il Nord e il Sud, ma all’interno dello stesso Settentrione. Infatti sia quantitativamente che qualitativamente l’industria si concentrò nel cosiddetto «triangolo industriale», con i suoi centri di Genova, Torino e Milano. Il giorno stesso della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia (1° agosto 1914) la giunta esecutiva dell’ANI votava un ordine del giorno in cui si invitavano gli aderenti a «fare attiva propaganda per preparare il Paese ad affrontare virilmente qualsiasi necessario cimento». […] Appoggiati dalla classe dominante, non esclusi gli alti gradi dell’esercito e la monarchia, i nazionalisti ebbero, dunque, il compito non solo di preparare l’opinione pubblica all’intervento a fianco dell’Intesa, ma anche di delineare con precisione i fini e gli obiettivi della guerra. Non si trattava soltanto di realizzare un’irredentistica «quarta guerra d’indipendenza», Nel brano che segue Giorgio Candeloro spiega come la crescita dell’apparato di fabbrica italiano dovesse molto o quasi tutto all’intervento dello Stato, che fin dal 1887, con l’introduzione delle tariffe doganali ai danni dei prodotti esteri, favorì lo sviluppo assistito e quindi in qualche modo artificioso della nostra economia. L’introduzione del protezionismo implicò […] la creazione di una situazione privilegiata per certi settori produttivi a danno di altri ed implicò l’aumento dei prezzi delle merci prodotte dai settori protetti, sicché la massa dei cittadini in quanto consumatori pagò le spese di uno sviluppo settoriale che avvantaggiò gruppi relativamente ristretti. […] Comunque gli effetti favorevoli […] si fecero sentire anzitutto sull’industria cotoniera, che prima d’ogni altra conquistò il mercato interno e divenne esportatrice […]. Fu questo il primo esempio in Italia di una grande industria moderna, divenuta competitiva sul mercato mondiale, che lavorava materia prima importata […]. Anche l’industria laniera si avvantaggiò della protezione doganale, senza peraltro riuscire a dominare completamente il mercato interno, che rimase tributario dell’estero per alcune qualità di tessuti. Qualche vantaggio dalla protezione doganale trasse pure l’industria tessile serica, che riuscì allora ad affiancare alla tradizionale cospicua esportazione di seta greggia e filata una notevole esportazione di tessuti. La protezione dell’industria siderurgica suscitò vivaci critiche non solo da parte dei liberisti ma anche da parte di quelli che sostenevano la necessità di proteggere invece l’industria meccanica […]. L’argomento fondamentale di queste critiche […] era l’altissimo costo della produzione siderurgica italiana, dovuto alla mancanza di carbone fossile nazionale, che rendeva questa industria non competitiva sui mercati esteri e la costringeva a reggersi soltanto sulle ordinazioni dello Stato e dell’industria cantieristica (anch’essa protetta dopo il 1885) per le costruzioni delle navi da guerra e mercantili. […] Tuttavia si deve riconoscere che, dietro «le mura difensive» della protezione doganale, questa industria riuscì a conservare una certa vitalità […]. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli 1974 74 © Loescher Editore – Torino nazionale […]. Egli, ed Egli soltanto, può e deve salvare l’Italia […]». Così l’interventismo antidemocratico non solo preparava la guerra ma mirava al dissolvimento delle istituzioni ed incitava ad una politica eversiva. E le frequenti manifestazioni di piazza dei nazionalisti assunsero spesso piuttosto il carattere di azioni squadristiche contro gli avversari politici che di esplosioni di idealistico patriottismo. […] Di fatto l’intervento verrà imposto ad un Parlamento, neutralista per i due terzi, proprio dalla duplice azione coercitiva del vertice dello Stato (monarchia, industria, governo Salandra) e della «piazza interventista». G. Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale, Firenze, D’Anna 1973 M. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, Torino, Loescher 1976 L’effetto leva del protezionismo sullo sviluppo industriale dell’Italia (capitolo 2) come volevano gli interventisti democratici, ma di inaugurare una politica da grande potenza. […] Ma una «grande Potenza» aveva bisogno di un governo autoritario ed assolutistico e la guerra era l’occasione propizia per un capovolgimento antidemocratico che avrebbe dovuto prendere le mosse da un colpo di mano della monarchia sin dal momento della dichiarazione di guerra (nell’«Idea Nazionale» del 13 maggio 1915 si leggeva: «Oggi l’ora suprema è sonata; l’ora del Re. L’Italia attende. Non il Governo può compiere l’atto supremo […]; non il Paese può compierlo, e tanto meno il Parlamento, torbida cancrena della nostra giovane vita Il silenzioso desiderio di pace della maggior parte degli italiani (capitolo 3) Dal brano di Alberto Monticone emerge come sia gli interventisti sia i neutralisti fossero assai lontani dal vissuto quotidiano degli italiani, e in specie dei contadini, i quali non volevano la guerra per il semplice motivo che non ne avrebbero avuto alcun vantaggio. Salandra lo sapeva, perché glielo rivelarono i 69 prefetti del regno, da lui apposta interrogati nell’aprile del 1915. Ma l’indagine gli permise anche di scoprire che la guerra non avrebbe causato la rivolta del popolo. E questo era ciò che al presidente del Consiglio bastava conoscere: il Patto di Londra era già sul tavolo. Dalla lettura delle risposte [dei prefetti] risalta generale, diffusa e di gran lunga prevalente la corrente neutralista; non tanto quella del neutralismo organizzato, dei socialisti ufficiali o di altre correnti politiche, quanto piuttosto quello spontaneo, non protestatario delle masse contadine, tinto talora di indifferentismo verso il problema della guerra. […] Anche ad un osservatore superficiale non sfugge, leggendo le risposte dei prefetti, che il paese nella sua grande maggioranza per motivi diversi non desiderava la guerra, che specialmente i contadini, che avrebbero dovuto fornire gli uomini all’esercito, anelavano alla pace, che infine il desiderio di annettersi Trento e Trieste e di avere certi vantaggi nell’Adriatico era assai limitato pur nei ceti della borghesia da cui veniva il nucleo degli interventisti. Salandra scorrendo questi rapporti non poteva che constatare di rappresentare una ristretta minoranza, ma nello stesso tempo indubbiamente si compiaceva nel vedere che l’opposizione violenta al conflitto non ci sarebbe stata o avrebbe assunto proporzioni trascurabili. Erano i giorni della decisione per l’intervento o per la neutralità […]. Salandra al momento della firma del Patto di Londra era pienamente cosciente di operare contro la grande maggioranza degli italiani: non aveva avuto bisogno di attendere tutte le risposte dei prefetti per esserne a sufficienza edotto e nel medesimo tempo non aveva più interesse a condurre a termine l’indagine sullo spirito pubblico quando ormai, verso il 20 aprile, l’accordo con l’Intesa era pressoché concluso, e pronto entro breve tempo sarebbe stato l’esercito. Queste due cose erano quanto importava al fine di realizzare le sue idee. A. Monticone, Gli italiani in uniforme, 1915-1918, Laterza, Bari-Roma 1972 © Loescher Editore – Torino 75 Unità 1 • L’Europa e il mondo nel primo Novecento Verso la Prima prova: tema di argomento storico Verso il Colloquio orale: preparazione dell’argomento a scelta 1 Ora che hai studiato la Prima guerra mondiale, prova a completare la tabella in modo sintetico; poi, dopo aver raccolto 3 Costruisci una mappa concettuale sulla politica estera nell’Italia giolittiana (capitolo 2). Argomento: Lo scoppio della Prima guerra mondiale (capitolo 1) Verso il Colloquio orale: guida all’esposizione orale le informazioni richieste, scrivi un breve testo, più analitico, che le metta in relazione. Qual è l’ambito tematico di riferimento del fenomeno: politico-istituzionale, economico-sociale, filosofico-culturale o religioso? 4 Facendo riferimento alla traccia fornita qui di seguito, prepara una breve esposizione sulla politica interna nell’Italia giolittiana (capitolo 2), che potrai poi esporre oralmente. Chi sono i protagonisti? Belle époque à Sviluppo economico (agricoltura e industria) nel Nord à Crescita del proletariato industriale e dei braccianti agricoli à Rivendicazioni à Conflittualità Dov’è stata combattuta la guerra? Giolitti à Opera riformista à Dialogo tra istituzioni e lavoratori à Suffragio universale à Legislazione sociale, libertà di sciopero e incremento delle retribuzioni à Vantaggio per il sistema produttivo Questione sociale Arretratezza del Sud à Inefficienza dell’amministrazione pubblica à Carenze infrastrutturali à Analfabetismo à Disoccupazione à Condizioni igieniche precarie à Emigrazione à Impoverimento umano Quando è iniziato lo scontro? Per quanto tempo è durato? Questione meridionale Giolitti à Azione inefficace à Aumento del divario tra Nord e Sud à Accuse di Salvemini à Clientelismo e corruzione à Trasformismo Quali sono le cause che lo hanno innescato? Non expedit (Pio IX) à Rerum Novarum (Leone XIII) à «Dottrina sociale della Chiesa» à Costruzione di una società più equa Questione cattolica Giolitti à Patto Gentiloni à Ingresso in politica dei cattolici Quali sono, invece, le conseguenze del conflitto? Verso la Terza prova: quesiti a risposta singola 2 Rispondi in tre/cinque righe ai seguenti quesiti. 1 In che cosa consisteva il progresso economico in Europa negli anni della Belle époque? 76 2 In che cosa consisteva, invece, il progresso scientifico? 4 In che cosa differiva il nazionalismo dilagante nell’Europa della Belle époque dalla politica della concertazione internazionale? 3 Quali erano le caratteristiche della «società di massa» negli anni della Belle époque? 5 Spiega che cosa si intende con l’espressione «dottrina Monroe» e quali conseguenze ebbe. © Loescher Editore – Torino © Loescher Editore – Torino 77